Tutti gli articoli di Redazione

IL GIALLO DI PADRE DALL’OGLIO, UNA VICENDA SIRIANA

La speranza è vedere Paolo Dall’Oglio libero, il prima possibile, non dimenticandolo. Sono passati quattro lunghi anni dal rapimento del padre gesuita in Siria, sequestrato, presumibilmente, da un gruppo islamico di affiliazione qadeista. Dal triste giorno della sua sparizione a Raqqa di lui non si hanno più notizie: ucciso o detenuto in qualche prigione, venduto e passato di mano in mano tra diverse fazioni siriane? Le ultime tracce risalgono alla notte del 29 luglio mentre lavorava, con molta probabilità, alla mediazione per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Una trattativa delicata che forse avrebbe messo il padre gesuita sulla strada della guida spirituale dell’Isis, il califfo al-Baghdadi. Questo, per quanto lacunoso, è quanto sappiamo di Dall’Oglio, poi un lungo inesorabile e pesante silenzio. Servizi segreti e pressioni vaticane, ad oggi, hanno condotte ricerche infruttuose. Senza tuttavia chiudere mai alla speranza di veder tornare tra noi un uomo che ha dedicato la propria vita all’integrazione e amava dal profondo la Siria. Con la sua missione aveva scelto di ritirarsi in un luogo della regione impervio, solitario e mistico. Dove predicava la comunione con le chiese d’oriente e l’incontro tra le fedi che si richiamano ad Abramo. Sulle colline desertiche e incastonato tra le pietre, al nord di Damasco, aveva fondato nel 1991 la comunità monastica di Deir Mar Musa. Una luce di tranquillità e accoglienza dove, nel corso degli anni, migliaia di fedeli sono transitati: “Cercavo un posto per fare 10 giorni di preghiera, di silenzio. Ero interessato al Medioriente, alla pace, al dialogo islamocristiano, e sono venuto qua. Sono arrivato la sera, non c’erano tetti, porte, niente e ogni pietra andava per conto suo. Però questo luogo mi ha stregato e parlato della tradizione cristiana, convissuta nel contesto islamocristiano per quattordici secoli, parlandomi di speranza, bellezza e incontro con dio. E di ospitalità”. Raccontava il prete romano con voce calma ma ferma, barba lunga e ben curata, una kefiah al collo, parole semplici e ispirate al dialogo in una straordinaria testimonianza di pace. In quella intervista è tracciato il percorso ecumenico di padre Dall’Oglio, per raggiungere una sintesi completa con l’islam, attraverso lo scambio interreligioso nella totale affinità delle radici. Al punto da arrivare a definirsi “simbolicamente musulmano”. Conoscitore della lingua araba e studioso del Corano. “Come esiste quella giudeo-cristiana centrata su Sara, così a partire dai simboli biblici prolungati dalla meditazione coranica musulmana, c’è la possibilità di vedere prefigurata la Chiesa nella linea di Agar e Ismaele”. La visione di padre Dall’Oglio è manifestata nella regola che la comunità di Deir Mar Musa si è imposta, l’utilizzo della lingua araba come strumento di comunicazione sociale e liturgico, affiancata nelle preghiere al greco, all’aramaico e al latino. Impegno religioso e politico scandiscono la vita di questo monaco, pronto a sfidare il regime di Assad, schierandosi apertamente al fianco della piazza durante le rivolte della Primavera Araba: democrazia e dignità. Rendendolo un personaggio scomodo, a tanti. Facendo di lui una voce indignata, che protesta per la repressione e il massacro del popolo siriano. Prima che i riflettori delle televisioni si accendessero è testimone diretto della tragedia della guerra civile. È un punto d’informazione ma anche il pulpito di un monito, profeticamente avverte il sopraggiungere del caos. Capisce in anticipo che la violenza innescherà la fuga in massa, l’insorgere del problema dei profughi è prossimo. La Siria del dialogo si eclissa, coperta dalla strumentalizzazione e dal fanatismo religioso, sotto gli occhi di un occidente cinico: “la paura legittima la repressione, che legittima l’estremismo, che legittima la paura”. È il ciclo vizioso di un Medioriente senza pace e futuro, la frontiera “estrema” del Mediterraneo dove continuare a cercare padre Paolo Dall’Oglio.

FUOCO ALLE POLVERI IN MEDIORIENTE

A nulla è servito l’accorato appello di papa Francesco “alla moderazione e al dialogo” per il Medioriente. Gli echi del conflitto israelopalestinese tornano prepotentemente alla cronaca in un susseguirsi di violenza senza confini. È caos dalla Palestina alla Giordania, dove nella zona residenziale di Amman è stato compiuto un attacco terroristico all’ambasciata israeliana. A Gerusalemme, il venerdì della “rabbia” palestinese era arrivato, prevedibile e inesorabile. Dopo giorni di proteste e scontri la città eterna è stata attraversata da tensioni culminate con morti e feriti. Due popoli condannati dall’abisso eterno dell’incomprensione, in una terra contesa pietra per pietra. Il sangue palestinese scorre nelle strade di Abu Dis, El-Azarya, Ras Al-Amud e At-Tur, quartieri periferici di Gerusalemme est. La scia di dolore si sparge nella colonia illegale di Halamish, tra Ramallah e Nablus. In passato i teatri della violenza sono stati i vicoli arabi di Shuafat, Silwan, Jabel Mukaber o gli insediamenti israeliani di Efrat, Ariel e Maccabim. Cambiano i nomi dei luoghi e si aggiornano le statistiche di morti, feriti e arresti.

C’è chi oggi parla di una nuova Intifada alle porte ma, forse, è sempre la stessa che non è mai finita. Dal ’67 l’espansione israeliana ai danni dei palestinesi è proseguita inesorabile, erodendo terra e libertà. Radicando in entrambi una cultura impregnata di richiami alla resistenza o alla difesa. Tra quelle rocce tutto si carica di un significato simbolico che assume un valore trascendentale e, allo stesso tempo, politico. Simboli che non possono essere condivisi, una linea rossa invalicabile che per essere preservata risponde alla “legge” dello status quo: la legittimazione a fermare le lancette dell’orologio. Allora, una vecchia scala in legno viene lasciata per secoli sulla facciata del Santo Sepolcro, irremovibile per non alterare diritti e pratiche nel sancta sanctorum della cristianità. Tradizioni gelosamente custodite che esprimono potere e anche arroganza, come quella di continuare a vietare alle donne ebree di partecipare liberamente alle liturgie nel Kotel, il Muro del Pianto. Persino un metal detector, se si decide di istallarlo all’ingresso di un luogo di culto, in questo caso la Spianata delle Moschee, è considerato una provocazione e innesca un turbine di violenza inaudita.

Quando venerdì mattina, in una Gerusalemme blindata dalle forze dell’ordine, solo la voce del muezzin di al-Haram riecheggiava dal minareto, nel silenzio delle altre moschee, il finale era già scritto: cortine di fumo, sassi, manganellate e pallottole. Israele nel giorno della preghiera santa per i musulmani aveva chiuso agli uomini con meno di 50 anni l’accesso alla Spianata delle due Moschee sacre, una violazione criticabile certo, ma nulla che non fosse accaduto in precedenza tra quelle mura occupate. Invece, questa volta, la risposta di protesta palestinese ha avuto un’intensità e una partecipazione altissima. Mentre, gli organi di sicurezza israeliani giustificavano la presenza di maggiori controlli con il recente attentato terroristico del 14 luglio: due poliziotti drusi uccisi da tre assalitori arabi israeliani, che poi hanno cercato, e trovato, la morte sul selciato della Spianata. Israeliani che uccidono altri israeliani è un elemento di novità nel conflitto, non di poco conto. L’obiettivo degli attentatori era, probabilmente, innescare una deflagrazione che partisse da un luogo di risonanza per l’islam, il loro “martirio” è perfidamente riuscito. Scatenando l’emotività del mondo arabo e la reazione impulsiva del governo israeliano.

Come sempre dobbiamo chiederci qual’è il senso della scelta del muro contro muro portata avanti da Netanyahu in queste ore. E quanto i leaders palestinesi hanno strumentalizzato questo episodio. Le colpe, in una regione che è una polveriera, meritano di essere ripartite attentamente. Partendo dalla considerazione che terrorismo e occupazione sono gli anelli di una catena moralmente ingiustificabile.

UN ANNO DALLA CONGIURA AL SULTANO

La lunga notte del 15 luglio 2016 sulle sponde del Bosforo ha fatto calare le tenebre sulla democrazia turca. Le prime notizie televisive arrivarono alla rinfusa, parlavano di una orchestrazione ad opera di alcuni vertici dell’esercito: “In Turchia è in corso un tentativo «illegale» di assumere il potere da parte di alcun militari”. Carri armati nelle strade di Ankara mentre i jet F16 sorvolavano la capitale a bassa quota. Bloccati i media e i social network. Altre azioni dell’esercito in tutta la Turchia. La Cnn turca riferiva che i principali ponti ad Istanbul erano chiusi, occupati da reparti militari. Poche ore di dubbio su quanto stava realmente avvenendo: Erdogan arrestato, ucciso, in fuga? E poi lo stesso presidente compare sullo schermo di un cellulare e chiama in difesa la popolazione civile, la reazione è immediata: migliaia di persone salgono sui ponti dell’Anatolia, minacciate da colpi d’arma da fuoco, mettendo a rischio la propria incolumità. Il popolo turco assedia i golpisti che si arrendono, impauriti. Erdogan ha vinto e può sprigionare con forza tutta la sua rabbia.

Di congiure naufragate tragicamente la storia è piena, si sono abbattute su tutti i continenti in tutte le epoche. La sobillò Catilina nell’antica Roma di Cicerone e il cattolico Guy Fawkes nell’Inghilterra della dinastia Stuart. L’ultima in ordine cronologico è quella dello scorso luglio. Allora, a salvare la poltrona dell’ex calciatore salito al trono di Istanbul fu la sollevazione popolare, e un pizzico di “fortuna” dovuta al fatto che i militari rivoltosi, durante i momenti cruciali del golpe, restarono numericamente un gruppo esiguo, minoritario e mal organizzato. Una oscura trama di commistione tra la burocrazia che ruota intorno al palazzo e le alte cariche dell’esercito che stando alla versione di Erdogan sarebbe stata disegnata dal ricco predicatore Fetullah Gulen. Il quale, in esilio in USA, tuttavia ha sempre negato di essere l’architetto del complotto. Ma che molti, sotto interrogatorio, e presumibilmente anche tortura, avrebbero direttamente indicato come il vero mandante.

Il ripristino della “legalità”, post attentato alle istituzioni, ha innescato un processo antidemocratico, caratterizzato da purghe e arresti indiscriminati. Con lo strumento dello stato d’emergenza prolungato sono state oscurate le libertà, a partire da quella di stampa. La spirale degli eventi ha portato ad una “incrinatura” diplomatica tra Ankara e Bruxelles, allo stesso tempo ha segnato un divario storico tra Ankara e Washington, mettendo una pietra tombale nelle relazioni tra Erdogan e Obama. Dalle ceneri del golpe ha preso corpo uno spostamento degli assetti geopolitici: il patto di ferro con Mosca, per arginare il terrorismo jihadista, e la saldata alleanza strategica nella regione con il Qatar, in chiave di protezione alla fratellanza musulmana e alle sue emanazioni.
Il Sultano di Istanbul dopo aver sventato il pericolo ha “legittimato” il proprio potere attraverso lo strumento referendario, aprendo le porte, a scenari di una possibile deriva dittatoriale. Spaccando la società e facendo risorgere l’opposizione laica e democratica.

Il weekend appena trascorso ha visto celebrazioni ufficiali in tutta la Turchia per il primo anniversario del fallito golpe. Un tripudio di bandiere e slogan, cerimonie imponenti, retorica populista e nazionalista. Per ricordare l’epopea di quelle ore travagliate e convulse, di cui ci resta il dramma delle oltre duecento vittime e delle migliaia di persone finite nelle maglie della rete dell’epurazione senza fine. Ai morti l’onore dell’eroica narrazione della propaganda. Ai secondi l’accusa infamante e imperitura del vigliacco tradimento della patria, un’onta sprezzante che merita il “taglio della testa”. Questo ha promesso il Sultano dal palco alla folla, ad una Turchia euforica e cieca, diventata una insidia per l’Europa e per i suoi ideali.

Un viavai nel Golfo

Il segretario di stato americano Rex Tillerson, braccio destro di Trump, ha siglato con il Qatar uno storico memorandum nella lotta al terrore che prevede di tracciare e punire i finanziamenti al fondamentalismo, prima di volare a Jeddah e a Doha per intensi incontri diplomatici nel tentativo di sanare una crisi complessa e intricata tra i Paesi del Golfo. Attenuare la rivalità nella regione è lo scopo primario della Comunità internazionale. Ci ha provato nei giorni scorsi, senza ottenere risultati, il Ministro degli Esteri britannico Boris Johnson. Durante il suo viaggio l’esponente di spicco dei Tories ha stretto mani, è apparso sorridente, ma in realtà attendeva l’esito dell’Alta Corte di Londra, che doveva giudicare la regolarità della vendita di materiale bellico ai sauditi da parte dell’industria britannica, contratti fortemente voluti dallo stesso politico artefice della Brexit. Il verdetto ha dato ragione a Johnson ma è stato accolto con disapprovazione da parte di molte ONG che richiamavano e reclamavano la violazione del diritto internazionale. Il governo di Theresa May è anche accusato dall’opposizione di “nascondere” i risultati delle indagini sui rapporti tra fondamentalismo islamico e Arabia Saudita, volute dal suo predecessore Lord Cameron. Il report, stando ad indiscrezioni giornalistiche, inchioderebbe gli emiri alle loro responsabilità, accusandoli, prove alla mano, di collusione con il jihadismo globale attraverso una rete di finanziamenti ponte. Parte dei milioni di petrodollari arrivati sulle sponde del Tamigi sarebbe stata utilizzata per creare cellule radicalizzate. Più o meno la stessa denuncia che i sauditi muovono ai qatarioti in uno scontro avvallato, così si mormora, dallo stesso Trump, che per vendetta ad un mancato “aiuto” alle sue aziende di famiglia da parte qatariota, saltato all’ultimo momento, avrebbe dato il via libera alle sanzioni dei vicini. Al presidente americano, lo scorso maggio, sono bastati appena due giorni di permanenza nelle tende dorate del deserto arabo per provocare un terremoto nell’area: armando di fatto entrambi i “nemici” e facendo saltare i fragili equilibri del Medioriente. Sauditi e qatarioti hanno imboccato da tempo strategie geopolitiche dissonanti. Il Qatar avrebbe “tradito” le “promesse” siglate tra il 2013 e il 2014 con le altre monarchie arabe, inclusa quella di “ammorbidire” la propaganda mediatica di Aljazeera. Sul piano delle relazioni internazionali gli sceicchi della Medina e della Mecca hanno un saldo legame con l’Egitto del faraone Al Fattah al Sisi. Mentre gli sceicchi della piccola penisola araba sono affini, cuore e portafoglio, al sultano di Istanbul Erdogan. I primi hanno dichiarato guerra ai fratelli musulmani, i secondi invece concedono protezione e fondi alla fratellanza. Ancora più controversa è la questione in Libia, ai nostri confini e lontano dalle acque turbolente del Golfo. Nelle coste della Cirenaica e della Tripolitania la partita delle monarchie arabe è tesa. Doha appoggia il governo di Al Serraj, in linea con l’Italia. Riyad è al fianco delle armate del generale Haftar, con il quale trattiamo a fasi alterne. La natura dei rapporti e delle relazioni tra il Golfo e il Sahel Mediterraneo ovviamente non è solo economica. Il dubbio è che le armi made in USA vendute al suk da Trump possano finire, attraverso vari canali, in quello spicchio di terra a noi adiacente, come già successo in passato. Uno dei consiglieri più ascoltati a Washington RC Hammond ha dichiarato che c’è uno spiraglio di ripresa della trattativa tra i paesi del Golfo solo se il Qatar accetterà alcune concessioni in cambio di un approccio più morbido da parte degli altri stati: “siamo in una strada a doppia percorrenza”. Il giallo dei fondi per l’estremismo islamico provenienti dai Paesi arabi non ha ancora un colpevole: “Qualcuno ha le mani sporche”.

Nel Golfo è guerra tra tv

Il Golfo è in una spirale senza precedenti. La rottura delle relazioni tra gli Stati, che si è aggrovigliata su se stessa, non permette, almeno per il momento, che qualcuno faccia il fatidico passo indietro. L’ultimatum “inviato” al Qatar dal blocco composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto, non è negoziabile. Questa è la linea che gli ambasciatori sauditi hanno espresso alle cancellerie di mezzo mondo, allarmando ulteriormente la Comunità Internazionale. La conditio sine qua non per “raffreddare” l’escalation e ristabilire la situazione delle relazioni preesistenti è scritta in calce nelle 13 richieste che Doha deve soddisfare, tra le quali: la chiusura dell’emittente televisivo Al-Jazerra e l’espulsione di personaggi “scomodi”, la riduzione dei rapporti con l’Iran e la “scomunica” dei Fratelli Musulmani. Il limite di tempo imposto per provvedere all’ingiunzione è stretto. Allo scadere il piccolo Stato del Golfo dovrà aspettarsi altre rappresaglie a catena, a partire dalla probabile espulsione del Qatar dal Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), opzione sollevata da Riyad. Ovviamente da parte qatariota le richieste dei vicini sono ritenute inaccettabili: “un atto illegale finalizzato a limitare la sovranità, nazionale ed estera, del Qatar”. 

La disputa del Golfo non è solo “una questione familiare” come qualcuno a Washington vuole far credere. In gioco c’è: la supremazia culturale e politica sul mondo arabo, il controllo del Medioriente negli anni a venire. Un conflitto, in tutto e per tutto, che lascerà sul campo di battaglia un vincente e un perdente. Vuoi che sia il blocco composto dai sauditi, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto o vuoi quello ancora in fase embrionale, almeno sulla carta, che ipoteticamente potrebbe coagulare Qatar, Turchia e Iran. L’ipotesi di uno scontro tra sunniti e sciiti, maggioranza e minoranza dell’islam, passa quindi ad un livello più allargato e trasversale, globale. Una situazione dove, ancora una volta nella storia sfortunata del Medioriente, è la gente a rischiare di pagare le dirette conseguenze. La mossa di isolare commercialmente il Qatar non ha avuto l’effetto sperato e dopo lo shock iniziale, con l’assalto ai supermercati per accaparrarsi generi alimentari di prima necessità, nella piccola penisola araba è tornata una parvenza di tranquillità. E sugli scaffali sono comparsi tonnellate di prodotti turchi e iraniani. 

Mentre il caso Al Jezeera montava diventando un fragoroso classico esempio di casus belli. La “BBC di Doha” era da tempo nel mirino di molti Stati arabi che ne vietano la trasmissione. Accusandola di essere il megafono del moderno jihadismo, fiancheggiatori del terrorismo, quinta colonna dell’Is. La notizia che nella lista nera del CCG ci fosse Al Jazeera e che si imponesse la sua immediata chiusura ha fatto insorgere le associazioni per i diritti alla libertà di stampa: “una pretesa mostruosa”. Silenziare, censurare e sopprimere un organo di stampa è un grave atto ai diritti dell’uomo, anche in una regione dove la parola diritto non ha radici. Al Jazeera ha da poco festeggiato i vent’anni di attività con qualche problema, oltre alle “serrande” srotolate in alcuni Paesi con giornalisti incarcerati o espulsi, il colosso ha anche registrato un notevole calo negli ascolti. Al Jazeera trasmette nel globo in inglese e in arabo. Nella versione araba, con un taglio editoriale molto diverso da quello in onda sul canale in lingua inglese, trovano spazio protagonisti alquanto discutibili. Predicatori di scuola e appartenenza fondamentalista. Figure che non hanno mancato di strumentalizzare le apparizioni in video, criticando l’Occidente ed esaltando il martirio jihadista. 

La libertà, compresa quella della stampa, non è gratis. Nella guerra degli ascolti dietro ad Al Jazeera ci sono le più influenti famiglie qatariote e gli avversari di Al Arabiya sono sovvenzionati dai ricchi sauditi. Spegnere una televisione, comunque voce plurale, non è combattere il terrorismo. In democrazia basterebbe cambiare canale.

 

 

6 GIORNI

Giugno 1967. La guerra per rompere l’anello imposto a Israele dagli stati arabi è iniziata da poche ore e già l’esito è scontato. Nel Sinai la disfatta dell’esercito egiziano è catastrofica, i soldati del “faraone” Gamal Abdel Nasser sono allo sbando completo. Le divisioni di fanteria e i corazzati non hanno retto l’urto contro la tecnica e tattica dei comandi di Tel Aviv. Nei giorni a seguire l’esercito di Tzahal avanzerà sul fronte meridionale verso il canale di Suez e su quello nordorientale nel Golan in direzione di Damasco, praticamente indisturbato. Gli aerei con la stella di Davide hanno assunto la supremazia in cielo, grazie ad un attacco preventivo, chirurgico. Con un blitz preparato e lungamente studiato nei mesi precedenti, messo in atto nei minimi dettagli dal ministro della difesa Moshe Dayan e dal capo di stato maggiore Yitzhak Rabin, hanno dilaniato l’aviazione avversaria.

La conquista di Gerusalemme est arriva la mattina del 7 giugno con la ritirata della Legione araba fedele al re Hussein di Giordania. L’intervallo di potere della casa Hashemita in Palestina termina disastrosamente. La bandiera di Israele sventola sulla Spianata delle Moschee, prima di venire “diplomaticamente” ammainata. Le immagini di repertorio ritraggono le emozioni dei giovani e sorridenti soldati con la divisa verde al Muro del Pianto. Baciano devotamente la pietra bianca del perimetro dell’antico Tempio, in un clima di festa e canti. Nel volto di quei militari prevale un trasporto mistico, che racchiude la sensazione dell’intromissione divina, la Shekinà, nella battaglia. Coloro che volevano, con l’aiuto di Allah, spazzare via dalla Terra il fazzoletto di Israele avevano perso di nuovo.

Dopo 6 giorni di guerra, il 10 giugno di 50 anni fa il conflitto è praticamente concluso, inizia allora per Israele una simmetria che segnerà la sua storia contemporanea. È l’espansione in Palestina, prima dettata da ragioni strategiche di difesa e sicurezza, poi trasformata in status quo ed un domani forse in annessione.

Il 22 novembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva la risoluzione 242, il pilastro della “pace giusta e duratura”. Questa volta oltre agli stati arabi è anche il governo israeliano a decidere di non ascoltare. Continuando il processo di riduzione drastica dello spazio fisico dei palestinesi, disegnando militarmente e politicamente una cartina destrutturata della Palestina, un puzzle di scavi archeologici, riserve naturali, zone di tiro, avamposti militari, muri e reticolati, strade e insediamenti coloniali. E che porterà con gli Accordi di Oslo alla “ghepardizzazione” dei Territori Palestinesi Occupati: divisione in tre diverse tipologie di aree di controllo.

L’assurdità ideologica che il diritto degli uni non è conciliabile con quello degli altri ha alienato entrambi. La filosofia israeliana del limite della pazienza e quella palestinese del vittimismo hanno ampliato la frattura tra i due popoli, oggi insanabile dal dilagare del jihadismo e del populismo. Il più martirizzato dei popoli e il più costantemente umiliato condividono il destino, tra muri di separazione o di sicurezza, tra check point o kamikaze: “una terra senza uomini per uomini senza terra” o “una terra senza diritti per un diritto alla terra”? La risposta è amara quanto i possibili scenari. Il primo, è che non avvengano cambiamenti “climatici”, in quel caso per i palestinesi sarebbe la strada di un lento ed inesorabile stato “soft” di apartheid. Nel secondo, e meno probabile, gli accordi porteranno ad uno stato binazionale. Nel terzo, con negoziati di compensazione, Gerusalemme diventa la capitale di due stati confinanti. Nell’ultimo gli stati arabi riconoscono Israele e aprono ai trattati, i palestinesi entrano in una sorta di confederazione, l’Egitto torna “ufficialmente” responsabile per Gaza e alla Giordania è “affidata” la West Bank. Ma su tutto potrebbe ancora prevalere l’estremismo.

IL GOLFO DEGLI EMIRI IN LOTTA

Il Golfo si spacca, una rottura senza precedenti tra gli Stati arabi sta segnando queste ore. È crisi diplomatica tra Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Yemen ed Egitto che interrompono i rapporti con il Qatar, isolandolo. Doha è accusata di collusione con il terrorismo internazionale, finanziando gruppi islamici fondamentalisti e alimentando l’ideologia jihadista attraverso i media nazionali e Al Jazeera. È una nuova fase di preconflitto per il dilaniato Medioriente.
Nel mezzo a tentare di abbassare i toni e contenere lo scontro gli USA di Trump, impegnati in una delicata operazione diplomatica di ricucitura delle relazioni. Il Qatar è una delle sedi strategiche delle forze aeree statunitensi. Proprio lì nel 2013 il Congresso di Washington ha autorizzato spese di decine di milioni di dollari per rafforzare l’edilizia militare nella base a stelle e strisce di Al Udeid. La crisi attuale è stata innescata, forse involontariamente, dal recente viaggio nella regione di Trump. Il sogno trumpiano di una grande coalizione sunnita in chiave anti sciita è tramontato ancor prima di concretizzarsi. Il fragile equilibrio arabo non ha retto alle dinamiche tribali di perenne contrapposizione. Gli affari commerciali di Trump con i custodi della Mecca e di Medina hanno finito per destabilizzare gli assetti politici e militari.
Era iniziata come guerra di narrativa, con i sauditi che accusavano i qatarioti di avere rapporti con gli iraniani e di sostenere attivamente sia Hamas che i Fratelli Musulmani. La spirale di tensione è salita nelle ultime ore sino al punto di criticità quando Doha, per voce della sua emittente più famosa e seguita al mondo, ha pubblicato la notizia che l’account dell’ambasciatore saudita a Washington era stato violato. Se il contenuto delle email dell’ambasciatore Yousef Al Otaiba, figlio dell’ex presidente dell’OPEC, dovesse trovare fondatezza, e non dimostrarsi invece parte del sistema di fabbricazione di notizie false oggetto del contenzioso tra i due stati arabi, per l’Arabia Saudita il problema diventerebbe caldo: le email hackerate, infatti, rivelerebbero l’ingerenza dei sauditi nel fallito golpe turco e la partecipazione diretta nell’estromissione del presidente Morsi in Egitto, dove avrebbero favorito il colpo di stato del generale al-Sisi. Porterebbero alla luce collegamenti tra le alte sfere di Riyad e una potente lobby americana vicina al premier israeliano Netanyahu. Svelando compromettenti connessioni con il jihadismo globale. Manovre di geopolitica locale, in una cornice assai più ampia, che mette sulla stessa bilancia accusati e contro accusatori. E se dietro le quinte entrambi, sauditi e qatarioti, fossero complici dell’Isis? Ad oggi non ci sono prove che sia il Qatar che gli emiri arabi stiano finanziando il Califfato islamico. E’ fuori di dubbio che capitali privati provenienti dal Golfo coprono il fondo, stimato intorno ai 2miliardi di euro, a disposizione del terrorismo. L’inchiesta sui flussi di denaro da Riyad a Londra per sovvenzionare l’integralismo islamico in Gran Bretagna è al centro di una lunga indagine commissionata dall’ex primo ministro Cameron e non ancora resa nota dalla premier May, congelata per la campagna elettorale ed a questo punto nella mani del prossimo premier. I paesi arabi del Golfo hanno tollerato, in un accordo verbale, la presenza di Al-Qaida e dell’Isis creando un buco nero dove le organizzazioni terroristiche islamiche hanno trovato terreno fertile.
Il blocco wahabita si è frantumato in un potenziale scenario di guerra che dividerebbe ulteriormente il già compromesso scacchiere libico, oltre che l’Occidente. La Russia prudentemente si tiene fuori dalla mischia. La Turchia si dice pronta a mediare, anche se Ankara propende per Doha. Greggio a basso costo, imponenti flussi d’investimento bancari, l’acquisto di prestigiosi e titolati club calcistici europei e asset del turismo, hanno strozzato in gola le proteste e le critiche delle capitali europee in questi anni. Ma il terrorismo e l’impennata del prezzo del petrolio potrebbero far finire l’amicizia e indurre a concrete azioni, Trump permettendo.

THE DONALD MEET FRANCESCO

A Roma il chiomato presidente non trova lo sfarzo abbagliante, le tende d’orate e i fiumi di petroldollari degli sceicchi, non cammina nella storia lungo la stretta via Dolorosa, tra le colonne del Santo Sepolcro o nelle stanze buie e dolorose dello Yad Vashem, avanza nei corridoi affrescati delle stanze pontificie alla volta di un incontro pesante. Prima di entrare bussa. Attende e poi stende la mano al Santo Padre. Insieme l’archetipo politico del populismo, rozzo e impulsivo, e il Vescovo di Roma, la guida spirituale illuminata, riflessiva e inclusiva. Gli opposti, l’uomo dei muri e quello dei ponti, in un faccia a faccia apparentemente disteso, “cordiale”. Un colloquio in forma privata, a porte chiuse.

L’udienza papale è l’ultima fatica della tournée di Donald Trump nel simbolismo delle fedi monoteistiche, l’unica dove non ha ricevuto adulazione e applausi, la sola dove gli affari fanno un passo indietro e il giudizio alla politica è morale. Il profeta dei tweet è stato accolto con gli onori in mezzo Medioriente, interpretando il ruolo, per lui inusuale, dello statista politicamente corretto: parole limate e pesate, rinnegando gli slogan della campagna elettorale e presentandosi come il condottiero della pace. Nei suoi interventi ha potuto sbeffeggiare la politica obamiana e ha ripetutamente invocato la “santa” alleanza contro il diavolo iraniano. Ricordando vagamente la lezione del suo predecessore Bush junior alla vigilia della crociata contro l’Iraq di Saddam Hussein. Ha stretto la mano a sunniti ed ebrei, dittatori e aspiranti rais. La “recitazione” è tuttavia apparsa in molte sue parti ricca di retorica e poco convincente, l’uomo più potente al mondo risulta non sempre credibile.

In Terra Santa, all’ombra dei muri, vecchi e nuovi, di pietra bianca e di cemento armato, di preghiera o di separazione ha rassicurato, con incoerenza, sia il movimento dei coloni israeliani che il presidente palestinese Abu Mazen. Molte affinità con Netanyahu per cambiare, a parole, il corso della storia. Il “miracoloso” piano pacifista del presidente è una road map troppo vaga e lontana dalla realtà dello scenario, smielato lo slogan: “Occasione rara per la pace”. Le idee trumpiane, anche se addolcite da allettanti promesse, non sono manna ma traballanti invenzioni sotto il cielo di Gerusalemme. Una città contesa tra ebraismo, islam e cristianità, con i palestinesi che continuano a pensare di giocare la carta demografica e gli israeliani che premono per la penetrazione fisica. Antipodi di una bussola ormai smarrita.

Ad oggi non c’è nell’aria, o sul tavolo, una soluzione per liberare la Gerusalemme terrena dalla violenza, la fine del conflitto israelopalestinese è rimandata ad altri leader, ad un mondo diverso e più consapevole dell’importanza primaria del bene comune e della necessità del rifiuto del terrorismo. Ci vorranno generazioni e politici di ben altro livello, gli orologi di israeliani e palestinesi scandiscono ore diverse. Da una parte l’insofferenza alimenta il fondamentalismo, dall’altra le paure coltivano il nazionalismo.

Trump ha provato a vendere un fantasioso sogno a cui non crede più nessuno, primi fra tutti i suoi diretti interlocutori. Avrebbe voluto una trattativa in discesa, convinto che il suo appeal sarebbe stato sufficiente per dissipare le difficoltà nel siglare “l’accordo definitivo”. Alla fine si è accontentato di prospettare una fragile tregua, tutta da costruire. Ha perso un’occasione, ha fatto un buco nell’acqua. Nel complesso comunque il viaggio di Trump è stato denso ed è trascorso senza affanni, i patemi d’animo li hanno invece avuti i suoi più stretti collaboratori, che hanno marcato stretto il loro presidente per evitare qualche stravaganza fuori luogo. Anche nelle stanze del Palazzo Apostolico il rituale del protocollo è stato seguito rigidamente. Trump ha mostrato un atteggiamento rispettoso, reverenziale nei confronti di Francesco. Dopo le passate aperte tensioni, per la prima volta, si sono guardati negli occhi. Il Santo Padre dal cuore ispanico e il presidente yankee, il teologo dell’accoglienza e il predicatore populista. Un convinto ambientalista e uno scettico ecologista.

Per quanto sappiamo, non ci sono indiscrezioni ma un succinto comunicato della sala stampa che conferma buone relazioni bilaterali, papa Bergoglio e Trump hanno avuto uno scambio di vedute da orizzonti diversi, Santa Marta e la Casa Bianca non si sono avvicinate ma nemmeno allontanate. Sembrerebbe un miracolo, ma attendiamo il prossimo tweet presidenziale per confermarlo.

Viaggio in Arabia con spettro Trumpexit

L’Air Force One decolla per il primo viaggio di Trump all’estero, che qualcuno vorrebbe già essere l’ultimo. La Casa Bianca è nella bufera per l’interferenza nell’indagine sulla collusione della Russia nella passata campagna elettorale. E’ l’ombra di uno scandalo che potrebbe trasformarsi in una futura Trumpexit: morbida con le dimissioni o forzata con la rimozione, tramite impeachment. Le turbolenze del Russiagate non si placheranno e accompagneranno, in parte condizionando, questo “pellegrinaggio” nel triangolo delle tre religioni monoteistiche. Prima tappa Arabia Saudita, poi la Terra Santa e la full immersion nel conflitto israelopalestinese. Un viaggio nella culla della fede con obiettivi che ovviamente poco hanno a che fare con la religione: sul tavolo affari e contratti per circa 200 miliardi di dollari. Nella valigia del “mercante” Trump un catalogo bellico con una vasta gamma di scintillanti armamenti, dalle novità del sistema di difesa missilistico alle più ingombranti fregate. La visita del presidente americano avviene in un momento particolarmente complesso per la penisola araba, con l’indebolimento dell’immagine della casata wahhabita dei Saud, custodi dei siti santi della Mecca e di Medina. E con un Trump “a testa bassa” all’assalto dei vertici dell’apparato di sicurezza americano, in un susseguirsi surreale di “gaffe”, “gole profonde”, smentite e rilancio di accuse, frutto tanto dell’incompetenza quanto dell’impulsività dell’incontrollabile personaggio. In Arabia, i signori delle tribù del deserto e dei pozzi di petrolio, tramandano con continuità l’oscurantismo, l’esclusione e separazione della donna, il controllo assoluto su costumi sociali e istruzione. Pregiudicano la libertà imponendo una dura privazione dei diritti umani: un tweet contro il Ministro di Giustizia è costato 8 anni di carcere a tre avvocati; il blogger Raif Badawi è stato condannato a 1000 frustate e 10 anni di prigione; il minorenne, Ali Mohammed Al-Nimr, reo di aver preso parte alle proteste di piazza della Primavera Araba, attende di essere decapitato. Il regime di Riyad inculca ancora una versione ideologica e intollerante dell’islam che di fatto alimenta il fanatismo e la sua emanazione terroristica. Il Pentagono considera vitale l’alleanza con l’unione arabo sunnita dei paesi del Golfo. Per mantenere il loro ruolo egemonico i Saud devono far fronte a due incombenze: le riforme economiche e la rivalità con l’Iran. La prima è dettata dall’esigenza di emanciparsi dal petrolio come fonte di crescita, mettere fine al petrostato modernizzando l’economia sia in termini di trasparenza che di investimenti privati. La contrapposizione tra khomeinisti e sauditi, sciiti e sunniti è destinata a durare, espandendosi in altri teatri geografici con il rischio finale di degenerare in uno scontro aperto. Le prime avvisaglie della deflagrazione sono le azioni militari nello Yemen dove le due potenze sono coinvolte su fronti contrapposti. L’Arabia Saudita è stata costretta ad accettare la crescente presenza iraniana, perdendo influenza in Iraq, Libano e Siria. L’asse strategico di Riyad con la Turchia di Erdogan è messo in discussione dall’avvicinamento del sultano allo zar di Russia, storicamente filo Ayatollah. Arretrando in Medioriente i sauditi hanno rivolto lo sguardo, e gli interessi, al nord Africa, materializzando intense sinergie con Egitto e Tunisia, prendendo posizione nel caos libico. Resta difficile il rapporto con Israele. Ad unire Netanyahu e i Saud il comune nemico iraniano e l’alleato Trump, a dividere ancora la questione palestinese. Il Trump d’Arabia, tra mille incognite, ha l’obiettivo di avviare il disgelo tra Israele e i vicini stati Arabi. Mr President vuole riportare alla “normalità” le relazioni con l’alleato saudita dopo l’intervallo obamiano, anche se tra Washington e Riyad le distanze restano profonde. Come spiegherà il chiomato presidente i suoi reiterati atteggiamenti islamofobici ad una casta che dipende interamente dall’appoggio del clero degli imam?

PALESTINA, ISRAELE E TRUMP

Il 28 marzo del 1988 in piena Prima Intifada palestinese, uno dei massimi esponenti della nascente Hamas, Mahmoud A-Zahhar, venne “invitato” ad incontrare l’allora ministro degli esteri israeliano Shimon Peres, il quale era intenzionato a risolvere rapidamente la questione della protesta palestinese. Il cofondatore dell’organizzazione terroristica e un padre della patria, un fondamentalista islamico e un sionista, due nemici sedevano allo stesso tavolo di scambio, confrontandosi per la prima volta. Il palestinese offriva la pace in cambio di: fine dell’occupazione, ritiro da Gaza e West Bank, libere elezioni. Peres rispose in modo secco accettando l’azzardo: ci possiamo ritirare da Gaza subito, ci servono sei mesi per lasciare la West Bank e su Gerusalemme rinviamo la questione. A quel punto A-Zahhar avrebbe rifiutato l’ordine cronologico dei punti incalzando con “Jerusalem should be first”: Gerusalemme al primo posto. E ovviamente quel timido tentativo d’incontro, la prima “apertura” islamista ad Israele o viceversa fallì. Dopo poco Peres e Yitzhak Rabin apriranno un credito ad Arafat, si costruirono gli accordi di Oslo. Poi arrivò la seconda Intifada e tornò la guerra.

Tre decenni dopo quell’incontro “obbligato” il capo politico dell’organizzazione terroristica palestinese Khaled Mesh’al (tra i pochi ad essere sfuggito alla caccia del Mossad) annuncia, con enfasi e ampia copertura mediatica, una nuova storica pagina per il movimento prima di passare il testimone a Ismail Haniye. Dichiarando che Hamas non è il braccio operativo palestinese dei Fratelli musulmani, smarcandosi clamorosamente dalla casa madre e stendendo il tappeto al faraone al-Sisi. Annuncia inoltre che la Carta fondante del 1988 è superata: il Mithaq non è il Corano. E che i confini dello stato palestinese sono quelli del ’67, prima della guerra dei sei giorni. Una smentita parziale, una policy volutamente ambigua nei rapporti con Israele e l’Occidente, ma anche un messaggio agli USA su eventuali segrete trattative da compiere nei prossimi mesi all’ombra delle piramidi. Nel documento “programmatico” si spiega che la lotta continua, che non è una guerra di religione tra ebraismo e islam. Manca tuttavia il “tassello” del riconoscimento di Israele. “Fumo negli occhi” tagliano corto da Gerusalemme. Botta e risposta nel siparietto mediorientale che ha anticipato, e in parte condizionato, il vertice della Casa Bianca, di qualche giorno fa tra Trump e Abu Mazen: tra un presidente imprevedibile, talvolta impresentabile e ed un rais logorato, criticato e delegittimato. Un faccia a faccia poco proficuo e dai contorni vaghi. L’inquilino presbiteriano della Casa Bianca è “sentimentalmente” vicino a Netanyahu e appare totalmente indifferente al fatto che dall’eterno conflitto israelopalestinese emerga uno stato binazionale o due stati. Il progetto a breve termine di Trump è scattare la foto con i due inossidabili leader che si danno la mano, in un gesto di apparente distensione. Strette di mano a parte l’imminente “pellegrinaggio” del neo presidente in Terra Santa potrebbe a catena avere effetti sulla maggioranza di governo di Netanyahu, risicata numericamente e condizionata da pulsioni nazionaliste. Mentre il reggente della Muqata ha uno spazio d’azione ridotto persino all’interno di Fatah (stretto tra le fazioni dell’esiliato Dahalan e quella di Marwan Barghouti, ancora chiuso, dopo le plurime condanne all’ergastolo, in un carcere israeliano). Abu Mazen frettolosamente ha firmato una cambiale in bianco a Trump, per limitare l’azzardo, in queste ore, ha cercato, e ottenuto, garanzia dallo zar Putin. Intanto, da una parte del muro e dall’altra, c’è già chi, in attesa di un suo tweet, elogia il chiomato magnate come un nuovo messia.