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FRITTATA FATTA!

L’intrigo internazionale di Roma, sui colloqui diplomatici tra Libia e Israele, invece di una nuova pagina di storia si è rivelata una frittata all’italiana. La notizia, che avrebbe dovuto essere mantenuta segreta, dell’incontro tra i rappresentati degli esteri israeliano e libico, avvenuto durante un vertice alla Farnesina, ha prodotto una valanga di reazioni, contrarie. Investendo la Libia, attraversata da violente manifestazioni di protesta. Scoppiato il caos la prima poltrona a saltare è stata quella della ministra degli esteri Najla al-Mangoush, sospesa e costretta a lasciare, per motivi di sicurezza, il paese. La Mangoush considerata una delle personalità più accreditate dell’esecutivo presieduto da Abdul Hamid Dbeibah, governo riconosciuto dall’Italia e appoggiato militarmente dalla Turchia, è finita triturata dall’episodio che l’ha vista protagonista assieme all’omologo israeliano Eli Cohen. A poco è servita la difesa dell’ex ministra, che ha parlato di una riunione del tutto casuale, ribadendo l’assoluto rifiuto alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Come prevede la legge libica.

La posizione della Mangoush è sembrata compromessa da subito, con il premier Dbeibah che l’ha abbandonata al suo destino, prendendo le distanze, mentre montava l’accusa di tradimento, oggetto di una indagine in corso. Le ragioni del patatrac sono state le esternazioni pubbliche del ministro Cohen, che ha spifferato: “abbiamo parlato del grande potenziale delle relazioni tra Israele e Libia”. Nel raccontare alla stampa, quello che teoricamente era confidenziale, l’esponente del Likud (molto vicino a Netanyahu) è sceso nei particolari. Confermando al centro della discussione (durata un paio di ore) vari punti: la questione umanitaria, l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche e l’importanza di preservare il patrimonio ebraico in Libia, compresa la ristrutturazione di sinagoghe e cimiteri. Apriti cielo. Nel tentativo di mettere una toppa e salvare l’immagine del primo ministro libico è stata sacrificata la Mangoush, che paga indubbiamente il fatto di essere donna. Per quanto sia lei che Cohen non abbiano commesso nulla di ignobile, anzi. È infatti cosa stranota che ci sono stati contatti tra i due paesi del Mediterraneo sin dai tempi, gli ultimi, del regime di Gheddafi. A novembre del 2021 in ritorno da Dubai Saddam Haftar, figlio del signore della guerra Khalifa, ha fatto sosta a Tel Aviv. L’anno successivo il jet privato di Haftar si è trattenuto per oltre un’ora nella pista del Ben Gurion Airport, prima di decollare per Cipro. Non c’è conferma che a bordo ci fosse il generale cirenaico. Comunque, in entrambi i casi i voli portavano un chiaro messaggio di richiesta di assistenza “militare e diplomatica”, in cambio di un impegno a normalizzare le relazioni con lo stato ebraico. Formalmente Israele, fino ad oggi, ha evitato di prendere una posizione sulla guerra civile libica. Prudenza a parte Israele è considerato molto vicino all’Egitto e quindi, pro-Haftar. Ciononostante, si parla con insistenza, e alta probabilità, di un abboccamento ad Amman tra Dbeibah, che nega, e il capo del Mossad David Barnea, che non commenta.

In questa vicenda, che ha screditato solo la Mangoush, non hanno fatto una bella figura sia Dbeibah che Cohen. Il danno provocato dall’attuale capo della diplomazia del peggior governo di sempre di Israele, quello dell’alleanza tra Netanyahu e l’estrema destra, è quanto mai palese. Dai banchi dell’opposizione Yair Lapid non usa mezzi termini: “dilettantismo irresponsabile” e “vergogna nazionale”. Merav Michaeli leader dell’Avodà invoca le dimissioni. L’ex capo di stato maggiore e fondatore di “Blu e Bianco”, Benny Gantz parla di negligenza fallimentare del governo di Netanyahu. Dalla maggioranza della Knesset, almeno questa volta, nessuna voce. Per quanto riguarda Dbeibah ha dato prova di essere debole e poco affidabile. Quando a gennaio scorso il direttore della CIA William Burns gli ha posto vis-à-vis la questione dell’apertura ad Israele si è astenuto. E del resto appare del tutto improbabile che il premier libico non fosse a conoscenza di quanto bolliva in pentola. È facile presumere che abbia autorizzato, e coordinato, la missione romana. Per poi tirarsi fuori a frittata fatta.

CAOS LIBIA, UN POZZO SENZA FINE

Dietro alla battaglia che si sta scatenando nelle strade di Tripoli c’è una questione tutta interna alle lotte di potere dei signori della guerra di Misurata. Nel paese africano, dalle forti turbolenze politiche e militari, è diventato impossibile trovare una via pacifica di conciliazione tra le fazioni, impensabile, al momento, tentare l’unificazione di uno stato frantumato dal tribalismo e dai giochi della geopolitica internazionale.
A scatenare il recente corto circuito, che bolliva in pentola da mesi, è stata la nomina del parlamento di Tobruk di Fathi Bashagha a primo ministro. Messaggio chiaro per l’attuale premier Abdul Hamid Dbeibah (foto), che si è rifiutato di farsi da parte, non riconoscendo la decisione e affermando che non è disposto a cedere il posto fino alle elezioni. Dopo che quelle previste per lo scorso 24 Dicembre dal piano di pace delle Nazioni Unite sono state sospese per motivi di sicurezza. Rimandate alla prossima estate, molto più probabilmente al 2023 o a data da destinarsi.
Il termine del mandato dell’incarico a Dbeibah avrebbe dovuto concludersi proprio in concomitanza con il voto. Su di lui, personaggio discusso, ripongono, ancora, le speranze sia l’ONU che Francia ed Italia. Mentre, la fiducia di Erdogan per l’alleato potrebbe essere venuta meno. Scaricato forse per Bashagha, ex ufficiale di aviazione, che ha dimostrato di essere un camaleonte di trasformismo politico. Considerato espressione della fratellanza musulmana e quindi facente riferimento all’area d’influenza di Ankara, gode di ottime entrature a Washington e a Parigi.
Nel 2019 ha partecipato attivamente a frenare la campagna bellica del generale Haftar. Nel corso del 2021 Bashagha ha allargato la sfera diplomatica, stringendo relazioni sia con l’Egitto, che la Russia e gli Emirati Arabi. Arrivando a costruire un patto di ferro con lo stesso nemico Haftar, il quale ha sostenuto la sua elezione a capo del governo. E sembrerebbe, almeno per ora, puntare su Bashagha come candidato alle future presidenziali.
La partita dell’ex ministro degli interni ha dei buchi neri e presenta rischi oggettivi. Il primo è che l’appoggio di Erdogan non è così scontato, dipende ovviamente da come l’uomo di Misurata si saprà muovere in un così intrigato scacchiere. Allo stesso tempo, il sultano non può permettersi che il suo protetto diventi troppo sensibile alle richieste del Cairo. Nel momento in cui la Turchia appare intenzionata ad un’apertura verso gli sceicchi del Golfo, ad oggi apertamente ostili al neo imperialismo bizantino.
Per una trattativa dove la Libia diventa oggetto di scambio. Se al momento l’abilità di Bashagha nel tenere il piede in due staffe può risultare quindi determinante per essere accreditato, non è detto che l’equilibrismo politico non diventi a sua volta fonte di problemi, e un’arma a doppio taglio. L’ascesa di Bashagha, comunque, complica non poco i disegni di Roma nel Sahel. In un tavolo dove il mazziere prende le carte da Erdogan e Putin.

LA SCOMMESSA DEL VOTO LIBICO

In Libia c’è attesa per il 24 Dicembre 2021, quando dovrebbe tenersi il primo turno delle elezioni presidenziali, il condizionale è d’obbligo. Nel paese attraversato da una guerra civile decennale le incognite sono tante, e lo svolgimento è ritenuto da gran parte degli analisti ancora a serio rischio. Anche se sulla carta tutti si sono detti favorevoli, almeno è quanto emerso alla recente conferenza di Parigi dove è stato trovato un accordo di massima tra le diverse fazioni in lotta. Resta alta, tuttavia, la possibilità che il tavolo salti in ogni momento. Il limite alla presentazione delle candidature è fissato al prossimo 22 Novembre. Intanto, sono ufficiali i nomi di Saif al Islam al Gheddafi, secondogenito dell’ex dittatore, e Khalifa Haftar, il potente generale e signore della Cirenaica. Personaggi scomodi, e molto ingombranti. Il primo considerato il naturale successore ed erede del padre, su di lui però pende un doppio mandato di cattura per crimini contro l’umanità, quello della Corte penale internazionale e quello della Procura militare libica. Divisiva è anche la candidatura di Haftar, spalleggiato dai vicini egiziani, e inadatto a garantire la riconciliazione nazionale. Haftar e Gheddafi in comune, oltre alle pendenze giuridiche, hanno ottime entrature a Mosca. Nella mischia per la poltrona da rais è sceso anche Fathi Bashagha, ministro dell’Interno e uomo di Misurata. Il cui vero avversario pare essere il premier Mohammed Dbeibeh, che gode della popolarità delle politiche di sostegno alle famiglie attuate in questi mesi, e dato per favorito nella corsa presidenziale. Sia Dbeibeh che Bashagha sono sponsorizzati da Ankara. In Libia, Putin ed Erdogan, giocano ciascuno una propria partita anche nelle urne, in campi contrapposti, in difesa dei propri alleati e, ovviamente, interessi. Lo zar e il sultano si sono tenuti lontani dal summit dell’ONU ospitato da Macron. Assenze giustificate tanto dalla necessità di delegittimare l’imposizione dall’alto di un piano Parigi-Roma-Berlino – e benedetto da Washington, che al vertice in rappresentanza di Biden ha fatto presenziare la vicepresidente Kamala Harris -, quanto di trovarsi obbligati, difronte alla Comunità internazionale, a prendere un impegno sul ritiro di mercenari, combattenti e forze straniere dal territorio libico. Opzione che al momento entrambi non hanno nessuna intenzione di avallare. Con Putin che nega, spudoratamente, di avere suoi soldati dislocati nel Sahel al fianco dell’esercito di Haftar, e con Erdogan che ribadisce di essere intervenuto su preciso invito del precedente governo di Tripoli. Altra cosa è Mario Draghi. Il cui disegno per la futura stabilità del paese è funzionale alla questione dei diritti umani. La ricetta italiana per riaggregare uno stato frantumato prevede: ripresa economica, distribuzione delle ricchezze, legalità e porre fine all’insostenibile condizione dei migranti. Geometrie geopolitiche alla prova del voto, della sete di potere e delle rivalità tribali, che difficilmente si placheranno con lo spoglio delle schede.

LIBIA, AVANZA LA TURCHIA

La rivalità tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo omologo egiziano Abdel Fattah al-Sisi non è una novità del teatro di guerra libico. Il sultano di Istanbul e il faraone del Cairo rappresentano concezioni opposte ed inconciliabili. Sono l’ultimo esempio della tradizionale contrapposizione ideologica del mondo arabo contemporaneo, diviso tra il movimento islamico ispirato dalla Fratellanza musulmana e quello nazionalista-autoritario imposto da Nasser. Simbolicamente rappresentano lo scontro tra radicalismo religioso e pseudo socialismo: il potere dei chierici o dei generali, il corano o la spada. In comune hanno l’intolleranza per il sistema democratico, la propensione a negare i diritti e a reprimere la libertà, a partire da quella di stampa, evitando di dire verità scomode, come quella sul caso Regeni.
La rottura e l’inizio delle “ostilità” tra Erdogan e al-Sisi risale al luglio 2013, quando l’esercito egiziano rimuove con un colpo di stato il presidente Mohamed Morsi. Esponente di spicco della fratellanza, alleato di Ankara. Martire della causa per Erdogan. Terrorista per al-Sisi. Da allora sarà un crescendo di tensioni tra i due stati che culminerà proprio nel faccia a faccia della guerra civile libica, dove sono schierati uno al fianco del presidente al-Saraj e l’altro con il maresciallo Haftar. Egitto e Turchia hanno dispiegato mezzi e uomini sul campo alzando il livello ad aperto conflitto, non più una silenziosa guerra per procura. Ma offensiva e contro-offensiva, con l’obiettivo del controllo totale dell’ex colonia italiana in Africa.
Il coinvolgimento turco, salvifico per il governo di al-Saraj, ha cambiato le sorti della battaglia di Tripoli, frenando così il successo della campagna militare di Haftar. Trasformando una vittoria che sembrava imminente in una disastrosa ritirata. Al punto che il Cairo difronte ad una disfatta inaspettata ha cercato di prendere tempo proponendo un ritorno al tavolo delle trattative. Percorso impervio, almeno finché Haftar rimane sulla scena e gode della fiducia sia del faraone che dello zar Putin. Se questa credibilità dovesse venir meno sia sul piano internazionale che su quello delle alleanze interne, oramai incrinate, rimarrebbe solo ad affrontare il suo destino. Il Napoleone della Cirenaica è un vero trasformista di casacca, è stato: agli ordini di Gheddafi, al servizio della CIA, garante della Francia, sotto l’ala protettiva di al-Sisi. Un trasformista politico e arrogante comandante, le cui qualità strategiche sono state spesso incautamente sovrastimate. Ha perso una guerra vinta in Ciad e oggi vede svanire il sogno di conquistare sotto i suoi vessilli la Libia. Nella sua eloquente disastrosa caduta offre le spalle al nemico e arretra verso il confine egiziano, dove si stanno ammassando truppe che potrebbero diventare la sua unica speranza. E da dove negli ultimi giorni sono, con molta probabilità, decollati i jet che gli hanno permesso di ridurre le perdite. Nel gioco libico qualcuno rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano.

IL SAHEL TRA IL SULTANO E GLI SCEICCHI

Libia. La guerra civile alle porte dell’Europa che nemmeno la pandemia riesce a fermare. Fallita la possibilità di una transizione democratica, alla caduta del regime di Gheddafi, lo Stato africano è sprofondato in una irreparabile implosione. Scatenando un conflitto senza quartiere, dove riaffiorano lotte tribali ataviche e pesano ingerenze esterne. Bruxelles non cambia atteggiamento, riproponendo la stessa tipologia d’intervento diretto: l’embargo. Altri attori internazionali si affacciano prepotentemente sulla scena. L’Egitto del faraone al-Sisi appoggia il generale Haftar e LNA (l’Esercito Nazionale Libico), al loro fianco lo zar Putin ha schierato l’organizzazione Wagner Group, ovvero mercenari. Meno appariscente l’intervento degli Emirati Arabi che offrono all’ex ufficiale del rais la copertura economica e una rete per assoldare guerriglieri, che si dipana dal Sudan al Ciad fino alle coste del Mar Mediterraneo. Sul fronte opposto il premier al-Sarraj e il GNA (il Governo di Accordo Nazionale) possono contare sull’aiuto, sempre più consistente, del sultano Erdogan che culla il grandioso sogno di ristabilire l’ordine dell’Impero Ottomano. Quest’ultimo intervento nel Sahel ha sostanzialmente cambiato le sorti dell’offensiva lanciata lo scorso anno dagli uomini di Haftar per conquistare la capitale, arenandola. Nel mezzo alla corsa per la spartizione della Libia e delle sue ricchezze, relegate ad un ruolo marginale, le potenze europee: divise e diffidenti l’un l’altra. Il doppio binario di Francia e Italia è l’evidenza di uno strappo non solo diplomatico. Con il nostro Paese più vicino all’esecutivo del GNA e Parigi a sostenere il fuoco di Haftar. Scelte che spingono Roma a collaborare con il signore del Bosforo, continuando, tuttavia, ad essere partner “commerciale” dei custodi della Mecca. Sia la Francia che l’Italia, pur divergendo, aderiscono alla missione europea Irini, che prende il posto della discussa operazione Sophia. A dirigere questo nuovo tentativo di tamponare il flusso illecito di armi è la Marina italiana, che a seguire dovrebbe lasciare il comando del presidio delle acque orientali al largo della Libia alla Grecia. Ma questo passaggio di consegne tra Roma e Atene preoccupa non poco Ankara: per l’alto rischio di vedersi bloccare i rifornimenti verso l’alleato. L’asse di Erdogan con al-Sarraj, suggellato nel nome della Fratellanza musulmana, è finalizzato a disegnare un corridoio nel Mediterraneo meridionale a scapito dell’Egitto, Israele, Grecia e dell’Eni. Nella distopia libica si susseguono giochi di sponda, guerra tecnologica, espansione economica e il sotterraneo lavoro dei servizi segreti: la lunga mano, nascosta e talvolta sporca, della geopolitica globale. Persino la liberazione di Silvia Romano nella lontana Somalia è una piccola mossa di una grande partita, ancora aperta.

LIBIA, TRATTA E UN CONTINENTE DI SFOLLATI

In Libia è in atto una mutazione demografica di intere città. Nella zona costiera di Zawiya, sono passati da una popolazione di circa 200mila abitanti, sotto il regime di Gheddafi, a superare il milione. Il colonnello libico prima di essere spodestato e giustiziato aveva il controllo del “rubinetto” del flusso dei migranti in rotta verso l’Italia, grazie ad accordi con i clan che gestiscono il contrabbando nella regione. Il “patto” con il dittatore consentiva a bande di Tuareg di smerciare “liberamente” con Niger, Ciad e Algeria, rinunciando in contropartita alla tratta umana. In cambio dei servigi Gheddafi ripagava la lealtà offrendo a basso costo benzina e farina, che poi venivano rimessi nel mercato nero a prezzi maggiorati.
Il vuoto di potere lasciato da Gheddafi non è stato riempito da nessuno e il caos scaturito dalla caduta del rais ha di fatto lasciato campo libero alle organizzazioni criminali, che indisturbate hanno ripreso il lucroso e disumano traffico di uomini e donne. Un ingente giro di affari dedito a sfruttare il fiume di profughi che inesorabile scorre lungo l’Africa. Persone in fuga da dittatura, povertà, terrorismo e calamità atmosferiche, che ciclicamente si redistribuiscono in altri luoghi: solo il 2% di questa moltitudine raggiunge l’Europa. Scappano dalla Nigeria, il gigante economico che non decolla, dove statistiche rilevano che durante lo scorso anno nel Paese africano ci sono stati circa 280mila nuovi sfollati a causa di guerre e oltre 100mila invece per disastri naturali. In Etiopia nel Corno d’Africa, che in questi giorni ha finalmente imboccato uno storico percorso di pace con l’Eritrea, nel 2017 sono stati oltre 700mila a lasciare tutto impauriti dalla violenza dei conflitti. Per la stessa ragione, nel Sudan del Sud (il 40% della popolazione è malnutrita) oltre 800mila e in Somalia 400mila hanno abbandonato le rispettive case. A completare la striscia di terra che taglia orizzontalmente l’Africa centrale anche i numeri della Rep. Centro Africana e del Camerun: 539mila e 162mila profughi. Il triste primato del continente spetta alla Repubblica Democratica del Congo con due milioni di sfollati.
Disuguaglianze economiche, elevato tasso di corruzione e alta criminalità, gruppi armati che spadroneggiano, saccheggi, stupri ed esecuzioni sommarie, “convincono” chi è in grado di coprire parte delle spese di viaggio a tentare un futuro diverso, migliore. Dalla foce del Niger provengono la maggior parte dei migranti che giungono sulle coste italiane. Coloro che si “imbarcano” nelle carovane dirette all’oasi di Sebha sono ignari di cosa li aspetta una volta giunti in Libia. Lo stato del Sahel è ricaduto ad una situazione pre 1969: con il ritorno alla Sharia e alle pratiche della schiavitù. Tra torture ed abusi migliaia di persone sono tenute in ostaggio dalle tribù libiche che mantengono la totale autonomia e impunità d’azione. Frantumando un Paese ormai irreparabilmente andato in pezzi.

LE TOMBE DI ZARZIS

Le spiagge della Tunisia sono diventate un magnete per migranti e trafficanti. Nelle acque di Zarzis i cadaveri di sventurati clandestini galleggiano alla deriva da giorni, come drammaticamente ha svelato un reportage del quotidiano britannico the Guardian. Rifugiati e migranti che ha ammonito papa Francesco durante l’udienza con la federazione internazionale delle Università Cattoliche: “hanno il diritto a non essere costrette ad emigrare”. In questi mesi gli sforzi internazionali, italiani in primis, in Libia hanno prodotto lo spostamento a sud di Tunisi della rotta principale del traffico di esseri umani. Mentre lo sguardo era rivolto al Sahel libico, poco distante, la tratta trovava un nuovo punto d’imbarco. Il flusso per l’Italia dalla Libia, interrotto durante l’estate, è ripreso con intensità dalla Tunisia. Il “tappo libico” è stato un risultato attribuibile a vari fattori: i rapporti di cooperazione con alcune municipalità della Tripolitania, il maggiore impegno della guardia costiera libica che avrebbe fermato il 60% dei gommoni, una parziale intesa con il generale Haftar, un accordo indiretto con la milizia filogovernativa che controlla il porto e il contrabbando a Sabratha. In un contesto dove spadroneggiano gruppi criminali che hanno potere assoluto di vita e morte, agendo nella più totale impunità. Proprio il ruolo del clan Dabbashi a Sabratha è stato al centro di critiche, sopite dal fatto che il suo esercito privato è stato, in passato, un prezioso alleato di al-Serraj e del suo esecutivo, unico governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Gli uomini di Dabbashi hanno attivamente partecipato alla caduta di Gheddafi, instaurando nella regione una potente e combattiva milizia. Per mantenere ed espandere la propria posizione di forza i Dabbashi hanno dovuto scontrarsi con i rivali di al-Wabi, che costituiscono la cellula più importante dell’Isis nella zona. Storie di ordinaria guerra tra famiglie mafiose all’ombra del terrorismo islamico. Lotte intestine destinate a mettere in campo nuovi soggetti e allargare la violenza nel Paese. Peggiorando la situazione di migliaia di migranti a rischio di morte e schiavitù, che da settimane si ammassano lungo il confine tra i due stati del Maghreb, intrappolati in condizioni disumane. Complessa e caotica è anche la situazione nella ex colonia francese, dove la tensione è tornata ad essere palpabile: bassi salari, forti disuguaglianze e corruzione. In Tunisia un terzo dei giovani laureati è disoccupato. L’industria turistica stenta a decollare. Nelle zone montane più isolate è particolarmente diffusa la povertà e la presenza di terroristi. Interi villaggi sono senza protezione della polizia: rifugi sicuri per il transito di gruppi jihadisti. Non meno complicata la situazione politica. Il Presidente della Repubblica ha firmato la legge che accorda l’amnistia a tutti i funzionari che hanno avuto un coinvolgimento nel sistema di corruzione del regime. Facendo insorgere l’opposizione e le organizzazioni non governative per i diritti civili. Una serie di episodi che danno il senso del revanscismo in corso, la fine del cambiamento da molti auspicato. E l’inizio per molti di un nuovo sogno, all’estero. La presenza massiccia di maghrebini nei barconi diretti in Sicilia e Sardegna lo dimostra. Giovani algerini, tunisini e libici sono una presenza costante nei viaggi. Molti di loro non arriveranno a destinazione. Come testimoniano i volontari della Mezzaluna Rossa che operano a Zarzis, dove giornalmente seppelliscono i corpi di migranti restituiti dal mare. Un ultimo gesto di pietà, dare una tomba a chi non ha nemmeno un nome. In un piccolo appezzamento di terreno fuori dalla città, ai bordi di un’oliveto avviene la sepoltura, in modo informale. Una fossa nel terreno. Il cimitero di Zarzis è composto da tanti cumuli di sabbia. Impedire che altre buche vengano scavate ancora è un’emergenza che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve affrontare, per il mese di novembre la presidenza è all’Italia.

VARIABILE LIBICA

Nel vertice con Francia, Spagna e Germania, l’Italia ha raccolto plausi e consensi: cooperazione decentrata con gli enti locali libici e lotta ai trafficanti. Non sono mancate pacche sulle spalle e vigorose strette di mano. Tuttavia, il sentore è che non c’è un reale interesse ad operare in perfetta e piena sinergia per risolvere il caos libico. Nei fatti Macron pensa ad aprire hotspot (centri di accoglienza e detenzione) in giro per l’Africa, peccato ne esistano già e siano dei lager. La cancelliera tedesca è intenzionata a rivedere gli accordi di Dublino, e stravincere così le imminenti elezioni. Mentre, l’Italia vorrebbe evitare di restare isolata.
Comunque, per affrontare la questione libica nella sua interezza c’è prima da risolvere la variabile Khalifa Haftar. In questi mesi il generale libico ha ripreso la lunga marcia di conquista, occupando o liberando città e villaggi della costa. Ha scatenato quella che è la più grande campagna militare nel nord Africa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’Operazione Dignità. Una lotta spietata e durissima purtroppo non solamente contro il terrorismo. Fonti delle organizzazione per i diritti umani presenti sul territorio accusano gli uomini di Haftar di compiere metodicamente uccisioni di massa e di essere responsabili di “crimini contro l’umanità”: il tribunale dell’Ajia ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mahommud Al-Werfali, fedelissimo di Haftar, carnefice nell’assedio di Bengasi.
Il capo di stato maggiore della Cirenaica, tra propaganda e ostilità nei confronti di Roma, in un paese attraversato e devastato da odi tribali promette di mettere fine all’anarchia con l’uso della repressione. Gheddafiano pentito e collaboratore stimato della CIA, pretende dall’Europa un credito, economico e logistico, illimitato per schierare la sua milizia lungo la frontiera meridionale: respingendo i profughi, disarmati e alla fame, che vi transitano. Elucubrazioni dell’uomo oggi più potente in Libia.
Nel contesto della guerra civile libica contano, comunque, le alleanze internazionali. Haftar è legato da doppio filo al presidente egiziano Al-Sisi. Esercito e servizi segreti egiziani sono un fattore determinante dell’ascesa del generale libico. Ufficialmente il Cairo appoggia entrambi i governi: Tripoli e Tobruk. Una strategia di comodo per dimostrare alla comunità internazionale che ogni tipo di soluzione deve passare dalle rive del Nilo oppure è destinata a fallire: è il diritto di prelazione sul futuro assetto geopolitico della regione a prescindere da dove si sposterà l’ago della bilancia. Sul campo di battaglia Al-Sisi è spalla a spalla con l’Esercito nazionale libico (LNA) di Tobruk e di Haftar. Nell’emiciclo di New York parla la stessa voce del Governo di Unità nazionale (GNA) di Tripoli e di al-Serraj. Ambivalente? No, scaltro e freddo calcolatore. La partita nel Maghreb è talmente complessa che il rischio di esserne fagocitato è alto. Al-Sisi ha sfruttato le ambizioni napoleoniche di Macron tessendo, in parte segretamente, la rete che ha portato al vertice di Parigi del 25 luglio dove al-Serraj e Haftar hanno siglato la tregua di La Celle Saint Cloud. Un accordo precario che difficilmente verrà rispettato dalle parti, ma che se dovesse palesarsi disastroso e inconcludente avrebbe come unico capo espiatorio il giovane inquilino dell’Eliseo, e non il nascosto manovratore egiziano.
Intrighi e intrecci all’ombra dei quali si compie il dramma dei migranti. Sfruttati, torturati e schiavizzati, costretti in condizioni disumane a sopravvivere sulle dune del Sahel, nella speranza di un imbarco. Tappare l’imbuto della Libia alla migrazione può alla fine risultare proficuo, remunerativamente, a chi oggi gode d’impunità. La Turchia del sultano Erdogan, pagata profumatamente per bloccarli in un’altra sponda del Mediterraneo, insegna. Eppure, tutti vorrebbero aiutarli, a parole.

Libia, due leader una poltrona

Libia, diario di una guerra alla porta. La battaglia di Sirte è conclusa dopo intensi bombardamenti aerei e il cannoneggiamento della marina. Decine di morti e centinaia di feriti. Le truppe governative hanno preso il controllo dei luoghi nevralgici, incluso il porto della città. Sconfitta la roccaforte del terrorismo fondamentalista nel Maghreb. Le milizie del Califfato “occidentale” battono in ritirata, probabilmente nel tentativo di ricomporre le fila dell’esercito nella zona interna del paese. Il Fezzan potrebbe a breve trasformarsi in un nuovo campo di battaglia. L’esito della vittoria di Sirte tuttavia induce dubbi sulla esatta cifra dei seguaci dell’Is schierati in suolo libico, stimato intorno alle 6 mila unità. Gli uomini del terrore impegnati negli scontri di queste settimane erano solo poche centinaia. Il dato positivo è che la bandiera nera è ammainata dal Golfo della Sirte, dove oggi sventolano quelle dell’esecutivo di unità nazionale (GNA) guidato da Al Serraj. Ma ancora una volta a smuovere le acque libiche, già di per se turbolenti, è il generalissimo Khalifa Haftar, figura controversa che deve la sua rapida ascesa al potere agli USA e all’Egitto. Messo in disparte dai ruoli chiave del governo di Al Serraj l’uomo forte di Tobruk ha deciso di non sottostare all’esecutivo di unità nazionale e per contro, dopo un primo tentativo di marciare alla volta di Sirte, ha preferito non essere coinvolto in questa decisiva battaglia, ritirando le proprie truppe su posizioni defilate. Haftar e Al Serraj, due leader per una poltrona e due opposte visioni: federalista il militare e centralista l’altro. Un confronto, trasformatosi talvolta in aperta ostilità, che peserà sul futuro della Libia e sull’assetto geopolitico della regione. Intanto sui cieli della Libia volano da tempo silenziosi droni ma anche i rumorosi bombardieri del Pentagono. Secondo fonti del Washington Post una piccola élite dei corpi scelti dell’esercito a stelle e strisce è dispiegata nelle città libiche di Misurata e Bengasi sin dalla fine dello scorso anno. Due squadre operative, meno di 30 soldati. Ufficialmente non sono lì, occhi e orecchi invece si. Di fatto sono la testa di ponte di una prossima missione, vincolata alle condizioni richieste dal Governo italiano. La strategia fortemente appoggiata dal ministro Gentiloni si è rilevata corretta, producendo risultati sul campo, spingendo i libici ad affrontare e cacciare il Daesh. Il pericolo che la ricchezza primaria della Libia cada nelle mani e tasche sbagliate è un aspetto allarmante così come l’eventualità di un’ondata massiccia di profughi verso le coste italiane. Una emergenza umanitaria che investirebbe anche l’Europa e la sua moralità bipolare. In queste ore l’Unicef pubblica statistiche agghiaccianti sulla situazione dei migranti: “La maggior parte dei minori che hanno attraversato il Mediterraneo fino all’Italia quest’anno erano accompagnati da adulti. Purtroppo è incrementato il numero di minori non accompagnati che sono saliti a bordo di barche insicure e pericolose”. Decine di migliaia di bambini ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita intraprendendo il viaggio della speranza verso il Vecchio Continente. E con l’arrivo dell’estate il numero è destinato ad aumentare esponenzialmente. Per fronteggiare il terrorismo ed evitare una crisi catastrofica ci sono teoria e pratica: la prima riguarda il pattugliamento delle coste e il blocco navale, la seconda la necessità di scendere con gli stivali nella sabbia delle dune. In Libia la teoria è in grado di incidere ma non di annullare il problema dei migranti. Mentre la pratica rischia di essere un’incognita.

MIGRATION COMPACT OPPURE?

Chiuso il campo profughi di Idomeni in Grecia. Sgomberati i 9 mila migranti che in questi mesi hanno tenacemente resistito, con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie, in attesa di passare il confine per la Macedonia, vivendo in condizione non facili. Sorto spontaneamente nel 2014 quando la rotta balcanica divenne “un’autostrada” trafficata da profughi siriani. Idomeni è nel corso dei mesi divenuto un imbuto sempre più stretto, e l’insediamento che avrebbe dovuto essere temporaneo si è trasformato in un accampamento di tende e materassi. Idoneo ad accogliere 2 mila persone e non certo le quasi 10 mila ammassate fino a pochi giorni fa. Tra fango ed emergenza sanitaria. Tra rabbia e delusione, si allontana per molti la possibilità di potersi ricongiungere con i parenti nel Nord Europa. Con rassegnazione in molti sono saliti sui pullman destinazione Salonicco, ad attenderli i centri di identificazione, altri invece si sono mossi con mezzi di fortuna sparpagliandosi nel nord della Grecia. Il viaggio della speranza, e del dolore, non è ancora finito. Se è unanime il giudizio per cui Idomeni andava chiuso, il problema di fondo resta: Idomeni è esistito, è inutile nasconderlo. E il problema dei profughi è tutt’ora una emergenza drammaticamente in essere. Sfortunatamente le barriere hanno vinto, segnando uno dei momenti più cupi della storia dell’Europa contemporanea. Il grido di tormento di migliaia di persone in fuga da guerre e povertà è stato ammutolito. Le vite dei migranti sono state demonizzate in modo sprezzante. Il loro diritto ad un mondo migliore calpestato. Il vento dell’intolleranza e scelte politiche sbagliate segnano profondamente il nostro tempo, nel proliferare di una dialettica ideologizzata che tende inesorabilmente verso l’inasprimento del confronto tra popoli, invece di promuovere civile attenzione all’incontro tra culture diverse. A Idomeni l’unico rumore che risuona in queste ore è quello delle ruspe e dei camion, per il resto è silenzio, vuoto e desolazione. Di realtà come Idomeni ne esistono tante sparse in tutto il mondo, ci sono Kakuma e Dadaab. I due più importanti campi profughi del Kenya, che secondo quanto annunciato dal governo di Nairobi verranno presto chiusi. In Kenya ad oggi risiedono, secondo fonti dell’Unhcr, oltre 600 mila somali giunti a partire dal 1991, anno dell’inizio della guerra civile nel Corno d’Africa. 350 mila sono “ospitati” nel campo profughi di Dadaab. Una città nella città. Ad Aprile nel Paese è scattata la revoca ai cittadini somali dello status di rifugiati “a prima vista”, che prevedeva la protezione umanitaria immediata fuori dai confini nazionali. Purtroppo, in questi anni, a complicare un contesto già fragile ha avuto un peso determinante l’insorgere della violenza terrorista, affiliati al gruppo islamico di Al Shabaab si sono ripetutamente infiltrati in Kenya per compiere atroci attentati. Vittime della vendetta fondamentalista spesso sono stati proprio i profughi somali in fuga. Oggi per rifugiati somali c’è un bivio mortale: restare in Kenya senza aiuti, alloggio, cibo, medicinali oppure intraprendere la via del ritorno, con i rischi di rientrare in un paese non ancora rappacificato. La scelta, qualunque essa sia, è probabilmente un suicidio collettivo. La reazione internazionale a questa spaventosa prospettiva non c’è, la diplomazia per l’ennesima volta è divisa, eclissandosi. A Istanbul il summit sulla questione umanitaria mondiale, il primo, è stato un fiasco totale per passività e remissività decisionale. Con la Turchia di Erdogan a lanciare teatrali accuse e minacce all’Europa. L’ennesimo vicolo cieco della comunità internazionale in una sede poco indicata eticamente per una conferenza di tale portata. Mentre assiepati nei barconi della morte in migliaia salpano in continuazione dalle coste libiche, per poi capovolgersi o inabissarsi nelle acque del canale di Sicilia. I naufraghi più fortunati sono tratti in salvo dalle navi della flotta “umanitaria”, in una azione di soccorso senza sosta. Al G7 di Ise Shima in Giappone i grandi della Terra hanno convenuto di aumentare l’assistenza globale ai rifugiati e la cooperazione allo sviluppo, incoraggiare l’ammissione temporanea e gli schemi di ricollocamento. Ad oggi l’unica soluzione plausibile sulla carta è il Migration Compact.