LA SCOMMESSA DEL VOTO LIBICO

In Libia c’è attesa per il 24 Dicembre 2021, quando dovrebbe tenersi il primo turno delle elezioni presidenziali, il condizionale è d’obbligo. Nel paese attraversato da una guerra civile decennale le incognite sono tante, e lo svolgimento è ritenuto da gran parte degli analisti ancora a serio rischio. Anche se sulla carta tutti si sono detti favorevoli, almeno è quanto emerso alla recente conferenza di Parigi dove è stato trovato un accordo di massima tra le diverse fazioni in lotta. Resta alta, tuttavia, la possibilità che il tavolo salti in ogni momento. Il limite alla presentazione delle candidature è fissato al prossimo 22 Novembre. Intanto, sono ufficiali i nomi di Saif al Islam al Gheddafi, secondogenito dell’ex dittatore, e Khalifa Haftar, il potente generale e signore della Cirenaica. Personaggi scomodi, e molto ingombranti. Il primo considerato il naturale successore ed erede del padre, su di lui però pende un doppio mandato di cattura per crimini contro l’umanità, quello della Corte penale internazionale e quello della Procura militare libica. Divisiva è anche la candidatura di Haftar, spalleggiato dai vicini egiziani, e inadatto a garantire la riconciliazione nazionale. Haftar e Gheddafi in comune, oltre alle pendenze giuridiche, hanno ottime entrature a Mosca. Nella mischia per la poltrona da rais è sceso anche Fathi Bashagha, ministro dell’Interno e uomo di Misurata. Il cui vero avversario pare essere il premier Mohammed Dbeibeh, che gode della popolarità delle politiche di sostegno alle famiglie attuate in questi mesi, e dato per favorito nella corsa presidenziale. Sia Dbeibeh che Bashagha sono sponsorizzati da Ankara. In Libia, Putin ed Erdogan, giocano ciascuno una propria partita anche nelle urne, in campi contrapposti, in difesa dei propri alleati e, ovviamente, interessi. Lo zar e il sultano si sono tenuti lontani dal summit dell’ONU ospitato da Macron. Assenze giustificate tanto dalla necessità di delegittimare l’imposizione dall’alto di un piano Parigi-Roma-Berlino – e benedetto da Washington, che al vertice in rappresentanza di Biden ha fatto presenziare la vicepresidente Kamala Harris -, quanto di trovarsi obbligati, difronte alla Comunità internazionale, a prendere un impegno sul ritiro di mercenari, combattenti e forze straniere dal territorio libico. Opzione che al momento entrambi non hanno nessuna intenzione di avallare. Con Putin che nega, spudoratamente, di avere suoi soldati dislocati nel Sahel al fianco dell’esercito di Haftar, e con Erdogan che ribadisce di essere intervenuto su preciso invito del precedente governo di Tripoli. Altra cosa è Mario Draghi. Il cui disegno per la futura stabilità del paese è funzionale alla questione dei diritti umani. La ricetta italiana per riaggregare uno stato frantumato prevede: ripresa economica, distribuzione delle ricchezze, legalità e porre fine all’insostenibile condizione dei migranti. Geometrie geopolitiche alla prova del voto, della sete di potere e delle rivalità tribali, che difficilmente si placheranno con lo spoglio delle schede.

IL SULTANO VIZIATO

Il presidente turco Erdogan con il suo atteggiamento di sfida perenne all’Occidente continua a suscitare apprensione. Ha problemi relazionali e storici con curdi e armeni. Vede congiure e sabotatori ad ogni angolo.
Punisce il dissenso, in particolare non gradisce essere criticato dai giornalisti. Finanzia le associazioni islamiche nel cuore dell’Europa; protegge Hamas e la Fratellanza musulmana; aiuta militarmente Libia, Azerbaigian, Qatar. Si scontra veementemente con Macron e si prende del dittatore da Draghi.
Siede con i grandi del G20 e ammicca allo snob Putin, che ha svicolato il vertice di Roma. Putin & Erdogan leader dinamici ed ambiziosi che restano avversari nei teatri internazionali: nel Caucaso e nell’Asia centrale divisi dalla calda questione del conflitto tra Baku ed Erevan. In Siria dove Mosca appoggia il nemico e dittatore Assad. E nel Sahel africano dove il sultano è al fianco del governo di Tripoli e lo zar del generale Haftar.
Differenze che alla lunga potrebbero esplodere, infrangendo il momento di idillio tra i due. Oggi, ad essere in bilico però sono i rapporti con Bruxelles e Washington. I tempi in cui il sultano si è fatto gioco sbeffeggiando gli alleati della NATO stanno finendo. Per anni Erdogan ha sapientemente sfruttato la debolezza della politica occidentale per incunearsi da una posizione di forza. Un giorno minaccia di riempire l’Europa di profughi e un’altro di espellere i diplomatici accreditati che hanno firmato la petizione per la liberazione del filantropo Osman Kavala, detenuto illegalmente, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo. Caso che a breve dovrebbe tramutarsi in sanzioni nei confronti di Ankara.
Come già avvenuto nel 2018 quando Trump punì Erdogan per essersi rifiutato di rilasciare il sacerdote americano Andrew Brunson, imponendo dazi del 50% sull’acciaio turco, punizione che causò il crollo delle vendite d’esportazione. Nel lungo dossier nero della Turchia c’è anche l’accusa di riciclaggio e finanziamento al terrorismo, affari sporchi gestiti da banche statali di Istanbul, diventate da tempo sorvegliate speciali. Mentre, Erdogan, per invertire il trend di una recessione senza precedenti che attraversa il Bosforo, non può fare a meno degli investimenti esteri. Il tentativo di proiettare la Turchia al centro del Medioriente ha prodotto un significativo aumento del commercio con i vicini. Ma ciononostante non si è dimostrata la soluzione alla crisi economica e finanziaria che incombe sul Paese.
L’Europa è fermamente il primo partner, impensabile tagliare i ponti. Nemmeno l’ottomana mania di grandezza del “Sultano” può arrivare a tanto. L’interesse primario di Erdogan è imprimere una nuova identità allo stato e alla società turca, per farlo si avvale del diritto d’ingerenza negli ex territori dell’impero della Sublime Porta, dal Kosovo sino al Maghreb. Propaganda sensibile per l’elettorato conservatore, affascinato dall’antica gloria di potenza mondiale di una nazione che invece ha imboccato la via dell’emarginazione.