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BETLEMME IL NATALE DELLA PALESTINA

L’oasi di Betlemme in Palestina, per secoli, si è caratterizzata per tolleranza e integrazione. La culla della cristianità da giorni è attraversata da violenti scontri nelle strade della periferia settentrionale, a ridosso del muro di separazione e del campo profughi di Aida. Nei pressi del punto dove papa Francesco si fermò in preghiera il 25 maggio 2014, durante il suo storico viaggio apostolico in Terra Santa, compiendo un gesto dal profondo significato. A scatenare le recenti tensioni la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. In questo fazzoletto di terra è l’ostentazione dell’inconciliabilità che ha il naturale sopravvento, e il disprezzo per l’altro diventa normalità del quotidiano. Alla vigilia della ricorrenza della nascita di Cristo e del suo messaggio universale di pace abbiamo incontrato Sami Awad, fondatore e direttore dell’Ong Holy Land Trust, che promuove la non violenza e il dialogo tra israeliani e palestinesi: “Sono tornato dagli USA nel 1996 con una laurea in tasca e l’entusiasmo per il processo di pace, mi sentivo parte di un momento storico globale, il crollo del muro di Berlino, la fine dell’apartheid in Sudafrica, la pacificazione in Irlanda del Nord. E invece la delusione per il fallimento delle trattative è stata tanta. Tre criticità avevano deteriorato i negoziati israelopalestinesi: l’espansione degli insediamenti, l’aver siglato un accordo politico ignorando la voce della gente e alzato nuove barriere, anche culturali, tra israeliani e palestinesi, inasprendo la segregazione”. Allora, l’illusione della Palestina libera aveva inebriato molti: “Avevamo la visione naif di riuscire a costruire uno stato democratico, libero dall’oppressione e pluralistico, che fosse un modello esportabile in Medioriente, una nazione progressista, un faro contro le teocrazie e le dittature”. Sami, palestinese e cristiano, è profondamente critico sull’impalcatura del processo di pace. “La cornice di Oslo, costata milioni di dollari e che ha coinvolto decine di diplomatici, ha finito per diventare autoreferenziale e strumentale alla propaganda politica, senza avere delle fondamenta solide su cui poggiare. E la classe politica pur di difendere i propri privilegi ha rigettato la possibilità di sviluppare soluzioni alternative: dal basso, radicate e non violente”. La sede dell’organizzazione creata da Sami è in un vecchio palazzo completamente restaurato, siamo nel centro storico di Betlemme. Le finestre a volta dell’ufficio guardano oltre il reticolato del muro, dove gli israeliani continuano ad ampliare l’insediamento di Har Homa. “Tanto i coloni israeliani quanto Hamas non possono essere esclusi dalle trattative, altrimenti rischiamo un altra disconnessione con la realtà. In questo periodo c’è una interessante campagna promossa da gruppi di israeliani e palestinesi per la creazione di due stati in una terra (Two States One Homeland), due nazioni che insieme condividono le sfide”. Una ripida scala porta all’ultimo piano dell’edificio, un’ampia terrazza trasformata in un bar gestito da un gruppo di giovani che aderiscono all’associazione. “I ragazzi palestinesi sono globalizzati, guardano con più interesse alla soluzione di uno stato unico con Israele, invece di due. La nuova generazione di leader, che è alle porte, si muove in una società tribale, corrotta dal sistema, se seguiranno modelli sbagliati cadranno nell’errore”. Gli allestimenti natalizi decorano la piazza della Mangiatoia, l’albero è stato istallato a ridosso del complesso della Natività,  uno stuolo di pellegrini russi e africani è in coda per entrare nella Grotta. La moschea che si affaccia sulla piazza è invece frequentata da betlemmiti. Voce del muezzin e rintocchi delle campane convivono. “In 100 anni di storia siamo passati dal vivere insieme cristiani, musulmani ed ebrei al conflitto, oggi Betlemme è un ghetto che imprigiona migliaia di persone. Abbiamo l’obbligo di guardare avanti, io non mi oppongo a nessuna iniziativa di pace, a meno che non contenga la pessima idea della completa divisione. Comunque, continuo a chiedermi dov’è il Mandela palestinese? E il de Klerk israeliano?”. Il Natale 2017 di Betlemme è all’insegna di una festa un po’ sotto tono, non mancano luci e canti, processioni e sante messe nella chiesa di Santa Caterina, ma l’aria che si respira è di una diffusa rassegnazione. Anche la protesta non ha raggiunto il livello dell’Intifada popolare che qualcuno auspicava. Intanto, tra i manifestanti palestinesi alcuni indossano il vestito da Santa Claus e coprono il volto con la keffiah, emblematica “ironia” di un conflitto volutamente inestricabile, che non si ferma nemmeno a Natale.

FUOCO ALLE POLVERI IN MEDIORIENTE

A nulla è servito l’accorato appello di papa Francesco “alla moderazione e al dialogo” per il Medioriente. Gli echi del conflitto israelopalestinese tornano prepotentemente alla cronaca in un susseguirsi di violenza senza confini. È caos dalla Palestina alla Giordania, dove nella zona residenziale di Amman è stato compiuto un attacco terroristico all’ambasciata israeliana. A Gerusalemme, il venerdì della “rabbia” palestinese era arrivato, prevedibile e inesorabile. Dopo giorni di proteste e scontri la città eterna è stata attraversata da tensioni culminate con morti e feriti. Due popoli condannati dall’abisso eterno dell’incomprensione, in una terra contesa pietra per pietra. Il sangue palestinese scorre nelle strade di Abu Dis, El-Azarya, Ras Al-Amud e At-Tur, quartieri periferici di Gerusalemme est. La scia di dolore si sparge nella colonia illegale di Halamish, tra Ramallah e Nablus. In passato i teatri della violenza sono stati i vicoli arabi di Shuafat, Silwan, Jabel Mukaber o gli insediamenti israeliani di Efrat, Ariel e Maccabim. Cambiano i nomi dei luoghi e si aggiornano le statistiche di morti, feriti e arresti.

C’è chi oggi parla di una nuova Intifada alle porte ma, forse, è sempre la stessa che non è mai finita. Dal ’67 l’espansione israeliana ai danni dei palestinesi è proseguita inesorabile, erodendo terra e libertà. Radicando in entrambi una cultura impregnata di richiami alla resistenza o alla difesa. Tra quelle rocce tutto si carica di un significato simbolico che assume un valore trascendentale e, allo stesso tempo, politico. Simboli che non possono essere condivisi, una linea rossa invalicabile che per essere preservata risponde alla “legge” dello status quo: la legittimazione a fermare le lancette dell’orologio. Allora, una vecchia scala in legno viene lasciata per secoli sulla facciata del Santo Sepolcro, irremovibile per non alterare diritti e pratiche nel sancta sanctorum della cristianità. Tradizioni gelosamente custodite che esprimono potere e anche arroganza, come quella di continuare a vietare alle donne ebree di partecipare liberamente alle liturgie nel Kotel, il Muro del Pianto. Persino un metal detector, se si decide di istallarlo all’ingresso di un luogo di culto, in questo caso la Spianata delle Moschee, è considerato una provocazione e innesca un turbine di violenza inaudita.

Quando venerdì mattina, in una Gerusalemme blindata dalle forze dell’ordine, solo la voce del muezzin di al-Haram riecheggiava dal minareto, nel silenzio delle altre moschee, il finale era già scritto: cortine di fumo, sassi, manganellate e pallottole. Israele nel giorno della preghiera santa per i musulmani aveva chiuso agli uomini con meno di 50 anni l’accesso alla Spianata delle due Moschee sacre, una violazione criticabile certo, ma nulla che non fosse accaduto in precedenza tra quelle mura occupate. Invece, questa volta, la risposta di protesta palestinese ha avuto un’intensità e una partecipazione altissima. Mentre, gli organi di sicurezza israeliani giustificavano la presenza di maggiori controlli con il recente attentato terroristico del 14 luglio: due poliziotti drusi uccisi da tre assalitori arabi israeliani, che poi hanno cercato, e trovato, la morte sul selciato della Spianata. Israeliani che uccidono altri israeliani è un elemento di novità nel conflitto, non di poco conto. L’obiettivo degli attentatori era, probabilmente, innescare una deflagrazione che partisse da un luogo di risonanza per l’islam, il loro “martirio” è perfidamente riuscito. Scatenando l’emotività del mondo arabo e la reazione impulsiva del governo israeliano.

Come sempre dobbiamo chiederci qual’è il senso della scelta del muro contro muro portata avanti da Netanyahu in queste ore. E quanto i leaders palestinesi hanno strumentalizzato questo episodio. Le colpe, in una regione che è una polveriera, meritano di essere ripartite attentamente. Partendo dalla considerazione che terrorismo e occupazione sono gli anelli di una catena moralmente ingiustificabile.

INTIFADA 2.0

Pochi giorni fa, nella terra arida delle colline della Samaria, dove qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso la strada che porta all’insediamento di Itamar, all’interno di una macchina utilitaria sono stati rinvenuti due corpi inermi. La famiglia Henkin, marito e moglie, crivellati di pallottole, i quattro bambini a bordo, fortunatamente, incolumi. Le vittime, una giovane coppia di coloni israeliani, freddati da cecchini palestinesi miliziani di Hamas. In queste ultime ore gli appartenenti al gruppo di fuoco sono stati arrestati e avrebbero confessato durante l’interrogatorio, mentre a Ramallah dall’Ufficio del presidente palestinese sono arrivate parole ferme di condanna alle violenze e un invito ad abbassare i toni. Intanto, nel fine settimana è la Città Vecchia, il cuore di Gerusalemme, teatro di un attentato dove perdono la vita due israeliani, uno è un rabbino che si stava recando con la famiglia a pregare al Muro del Pianto. Domenica mattina quando il sole non è ancora comparso un giovane palestinese con in mano un coltello è circondato e ucciso dalla polizia, le immagini corrono sul web. La prima risposta di Netanyahu è la chiusura della Città Vecchia agli arabi non residenti, è la prima volta che il governo israeliano prende una tale misura di sicurezza. Oltre tremila soldati sono dislocati a presidiare i vicoli e le porte d’ingresso ai cinque storici quartieri. Nella giornata di lunedì numerosi incidenti nella Cisgiordania, a Tulkarem perde la vita un diciottenne palestinese. Mentre a Betlemme, nel campo profughi di Aida, muore un bambino palestinese di tredici anni. In Terra Santa non si placa la scia di sangue, sono giorni dove si contano morti e feriti, muoiono israeliani e palestinesi. E la protesta violenta dalla Spianata delle Moschee di Gerusalemme si allarga alla periferia, nei campi profughi come nei principali centri della West Bank. I giovani palestinesi – shabab – volto coperto da kefiah e muniti di fionda che caricano con sassi e scagliano con forza ai soldati, alle camionette e alle vetture in transito, nelle arterie che portano al centro della Città Santa. Volano molotov e l’esercito israeliano risponde con lacrimogeni e proiettili, senza tuttavia, essere in grado di contenere gli scontri non più sporadici ma oramai quotidiani. È la nuova Intifada. Qualcuno a sentire questa parola storce il naso, obbiettando che è presto per definirla così, eppure la realtà e la storia di quei luoghi contesi ci insegna che è il nome forse più appropriato. È Urban Intifada o Intifada 2.0, una “rivolta”, questo il significato della parola in arabo, portata avanti da una nuova generazione, per molti versi catalogabile come di rottura con le precedenti: colpisce in strada ma viaggia su facebook e sui social networks. Una eruzione incontenibile che nasce dalla rabbia e dalla voglia di vendetta, rifiuta la trattativa e non crede nella pace, sono “lupi solitari”. Non pensano a vincere e a far trionfare la causa palestinese, tantomeno accettano di essere politicizzati e strumentalizzati da una parte, lo fanno semplicemente per orgoglio e, purtroppo, cultura. Per molti di loro alla fine ci sarà il carcere. Entreranno nelle prigioni israeliane dove ad attenderli ci sono i “rivoltosi” della prima Intifada e i terroristi della seconda, trent’anni di storia del Medioriente e del conflitto israelopalestinese. Tre decenni di disastri a cui la politica non ha dato risposte e rimedio. Le colpe sono davanti agli occhi di ciascuno di noi, non c’è giustificazione nemmeno per la comunità internazionale che avrebbe dovuto proporsi da cuscinetto se non da pacere. Il giornalista Alain Gresh nel libro Israele, Palestina scrive: « Il patto di Ginevra prova, ed era lo scopo dei suoi promotori, a dimostrare che c’è di volta in volta una soluzione politica possibile ….. L’unica altra opzione ha a che fare con l’incubo, con l’apocalisse tanto spesso annunciata su questa terra tre volte santa, un’apocalisse che non farebbe alcuna differenza tra gli uni e gli altri, tra vincitori e vinti. Un’opinione simile ha espresso in queste ore Hilik Bar, esponente di spicco del partito laburista israeliano e speaker alla Knesset: “La radicalizzazione in atto a Gerusalemme Est non è solo il risultato della propaganda delle organizzazioni islamiche – Hamas e Jihad – deriva anche dalla mancanza di scelte che Israele avrebbe dovuto fare riguardo al futuro di Gerusalemme Est e dei suoi abitanti. La situazione complessiva nella maggior parte dei quartieri arabi della città rispecchia lo status ufficiale dei loro abitanti: residente permanente – meno di un cittadino e più di un lavoratore straniero.” Hilik, segretario generale dell’Avodà, punta il dito contro il governo di Netanyahu: “Lo Stato di Israele deve far appello alla logica. La crescente violenza è un chiaro segno del fallimento della politica di Netanyahu centrata sull’esclusivo uso della forza. L’ordine è importante e la dissuasione non è meno rilevante, ma in un luogo così complesso e sensibile come Gerusalemme sono insufficienti. Non si può aspettare l’introduzione di pene più severe o la costruzione di altre barriere per risolvere tutti i problemi. Non si può trattare solo con i sintomi ed evitare di andare a fondo alla radice del problema.” La proposta di Hilik è “trasferire la responsabilità della fornitura di servizi pubblici nei quartieri arabi”, migliorando la qualità della vita e rendere sostenibile, adeguato il livello dei servizi. Un percorso, quello proposto da Bar, che trova vari ostacoli, sia da parte dell’attuale governo che della controparte palestinese. È infatti chiaro che il collasso del processo di dialogo implica la fine dello status a cui “eravamo abituati”. La direzione è oscura, porterà quasi sicuramente ad un punto di rottura con il passato: oggi una nuova rivolta popolare palestinese, domani forse le dimissioni di Abu Mazen o lo smantellamento dell’Autorità Nazionale palestinese per giungere, un giorno non troppo lontano, alla cancellazione degli accordi di Oslo.