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ISRAELE A SPICCHI

Israele è un paese in tilt, e la ragione non è solo la guerra, che non è comunque un corollario. Il caos imperante è attribuibile a una classe politica che, pur eletta democraticamente, si sapeva aprioristicamente avrebbe potuto deragliare, trascinando la nazione in un condensato di tensione e attesa. È il fallimento attestato e drammatico di un governo tutt’altro che all’altezza del compito affidato: non ha garantito la sicurezza dei propri cittadini, non ha mantenuto la tenuta sociale, ha invece puntato a smantellare il patto “costituzionale” vigente. Di questa crisi è parte integrante Benjamin Netanyahu, principe machiavellico pluri indagato che ha saturato “l’ambiente” con una narrativa inadeguata, una prospettiva infelice e una pessima gestione del potere. Culminata nella mancata liberazione degli ostaggi. Come spiega su Haaretz Noa Landau: “Netanyahu cerca di presentare alla sua base politica una scioccante equazione populista: o un accordo per liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra, o la sicurezza di tutti gli altri cittadini israeliani. Come primo ministro deve prendere la strada maestra: sacrificare gli ostaggi per un bene immaginario più grande. Questa, tuttavia, è un’equazione completamente falsa… l’uomo che ha costruito, esaltato e reclamizzato il marchio di ‘Mr. Sicurezza’ per tutta la sua carriera politica, con costanza esemplare, ha in realtà ottenuto l’esatto contrario”. Viceversa, la disgrazia per i palestinesi si chiama Hamas. Che non rispetta nessuna regola “civile”, ma non può essere annientata totalmente con le armi. Sconfitta invece sì. Ed in parte militarmente è stato fatto, in questi mesi, al costo di migliaia di civili palestinesi e centinaia di soldati israeliani. Dissente dalla strategia in atto Yitzhak Brik, generale riservista: “Se continuiamo a combattere a Gaza penetrando e compiendo raid sempre sugli stessi obiettivi, non solo non porteremo Hamas al collasso, ma crolliamo noi stessi. Non molto lontano da oggi non saremo in grado di effettuare questi ripetuti attacchi, perché ogni giorno che passa le Forze di Difesa Israeliane si indeboliscono e il numero di morti e feriti in azione tra i nostri soldati aumenta. Hamas, al contrario, ha già riempito i suoi ranghi con ragazzi di 17 e 18 anni”.

La realtà di Israele è nella fotografia di un giorno qualunque: nella notte di domenica una marea umana è scesa in strada a Tel Aviv, chiedendo la liberazione degli ostaggi. La mattina seguente alla protesta si è aggiunto lo sciopero generale, indetto dal sindacato Histadrut e poi revocato dal tribunale. Intanto, l’estrema destra inscenava la sua contromanifestazione a Gerusalemme, accusando la federazione dei lavoratori di incoraggiare il terrorismo, stessa linea che adotterà anche Netanayhu nel corso della giornata. Contemporaneamente fuori dall’ufficio di reclutamento dell’esercito a Tel Hashomer decine di giovani religiosi ultraortodossi protestavano per il diritto all’esenzione dalla leva obbligatoria. Mentre a Gaza si sparava e al confine con il Libano sistematicamente risuonano le sirene di allarme missilistico. Infine, il partecipato e commovente funerale di Hersh Goldberg-Polin. Lacrime e scuse, portate dal presidente Isaac Herzog: “a nome dello Stato di Israele, per non essere riusciti a proteggervi nel terribile disastro del 7 ottobre, per non essere riusciti a riportarvi a casa sani e salvi”. Persino Netanyahu nell’appello televisivo serale chiede perdono, ma non torna indietro sulla trattativa. Fuori dal coro, e come al solito inappropriate, le parole del ministro Itamar Ben-Gvir che non si vergogna a dire pubblicamente di fare tutto ciò che è in suo potere per impedire il negoziato.

Israele è divisa in spicchi: il fronte degli anti-Bibi e pro tregua è in crescente ebollizione. La fazione dei filo-Bibi e per tenere ad oltranza i piedi a Gaza è guardinga. La porzione dei dogmatici, coloro che osservano la fede, prima della legge, viaggia invece in un mondo chiuso. Mentre, la quarta fetta o componente di Israele, gli arabi, è silente e teme di essere isolata ancora di più. Uscire da questo labirinto senza la frantumazione è oggettivamente il vero problema da dirimere. A trainare la pacificazione sociale non basta il dolore per le vittime e nemmeno la guerra a Gaza, forse una guerra su larga scala potrebbe cambiare lo stato d’animo generale. Sicuramente in questo contesto non può essere fatto affidamento sul fattore economico, per tenere i rami della pianta ben saldi al tronco. La stima dei costi dell’attuale conflitto è tra 50 e 70 miliardi di dollari. Il ministero della difesa prevede che occorrano investimenti di circa altri 6 miliardi. Nel 2024 il giudizio del rating finanziario dei mercati non è stato positivo. Lo shekel ha perso potere d’acquisto. Il deficit in estate è balzato all’8,1%. Il settore del turismo (3% del PIL) è evaporato. Last but not least, il fatto che a presentare la legge di bilancio è il ministro di estrema destra Bezalel Smotrich, poco avvezzo alle oscillazioni del paniere ma diligente nello spostare risorse verso gli insediamenti in Cisgiordania, anche a quelli illegali per la legge israeliana.

Del tutto improbabile che la riconciliazione interna avvenga su ispirazione del procuratore generale Gali Baharav-Miara. Le sue raccomandazioni, compresa quella dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre e sui presunti crimini di guerra compiuti a Gaza, sono state immancabilmente respinte dal governo. Che non la vuole ascoltare, pensando di rimuoverla.

E allora appena ci sarà la tregua militare, l’unica soluzione praticabile è il ritorno al voto, con l’incognita del risultato. Perchè se vincesse Bibi vi sentirete ripetere: “Questa è la democrazia”.

BIBI E LO STRESS

In Israele da un po’ di tempo circolano voci riguardanti la salute di Netanyahu. Ci fosse una campagna elettorale alle porte avrebbero il tempo che trovano, e nessuno probabilmente ci farebbe caso. Nel mezzo di una guerra tutto prende un significato diverso. Il longevo re Bibi è sicuramente in grado di intendere, volere e imporre la sua leadership, senza curarsi dei danni causati, sia lui che i suoi fedeli alleati, una pletora di estremisti elevati al rango di ministri. Invocare la camicia di forza non è tuttavia la risposta alla deriva in atto, e sicuramente non è la strada democratica per liberarsi definitivamente di una personalità ormai dannosa al suo paese. La questione è squisitamente politica.
Comunque, a luglio 2023, al settantatreenne premier israeliano venne impiantato un pacemaker, con un intervento chirurgico d’urgenza. Qualche ora dopo l’operazione Netanyahu appare sorridente in video: “Come potete vedere sto benissimo”. Messaggio che non rassicura gli israeliani, rimasti scioccati nell’apprendere che da tempo il loro primo ministro aveva nascosto (mentendo) il cronico problema cardiaco di cui soffriva. Ufficialmente i medici minimizzano le preoccupazioni, adducendo la causa degli strani mancamenti alla disidratazione. Non era così. Allora, dalle pagine di Haaretz il giornalista Yossi Verter parlò di fabbrica di menzogne che circonda il ricovero: “Le condizioni di salute illustrano più di ogni altra cosa la cultura dell’inganno in cui Netanyahu, i suoi ministri e consiglieri gestiscono il Paese”. Sul web presero piede le speculazioni sulla sua reale salute. Pettegolezzi? Spesso i leader, succede in tutte le democrazie, sono coperti da un alone di silenzio, riserbo in particolare su eventuali malattie, che potrebbero offuscare l’aura di invincibilità. Verrebbe da dire che siamo tutti umani, ma qualcuno pretende di esserlo un po’ meno. E comunque, dal giorno del suo intervento, un’ambulanza è al seguito della carovana della sicurezza, che accompagna Netanyahu.
Lo scorso gennaio il bollettino medico del primo ministro israeliano riportava: “Stato di salute completamente nella norma”. Insomma, il falco della destra sta bene. Ciononostante, all’inizio di giugno è stata presentata una petizione all’Alta Corte di Giustizia per chiedere che il primo ministro condivida informazioni dettagliate sulle sue condizioni e nomini un sostituto ad interim, nel caso in cui non fosse in grado di svolgere le funzioni, come prevedono i protocolli in vigore. In conformità al rispetto della privacy però la promulgazione di notizie personali non è vincolante. Ad invocare trasparenza sono alcune famiglie delle vittime del 7 ottobre ed esponenti del partito laburista. Scrive a riguardo l’avvocato Binyamin Bertz sull’autorevole Jerusalem Post: “Rispondere a queste voci dovrebbe giovare alla fiducia del pubblico verso il governo e rafforzare la resilienza nazionale. Al contrario, nell’attuale struttura di governo e in assenza di un sostituto per il primo ministro, lasciare queste chiacchiere senza risposta minerà ulteriormente il grado di resistenza nazionale, che è già in una situazione difficile”.
Dal punto di vista giuridico l’Alta Corte ha stabilito recentemente che la valutazione dell’idoneità al comando del primo ministro non è applicabile durante il mandato in corso. Lo stress e la sua reazione, seppur comportando ricadute fisiche e mentali, non sono ragioni imputabili alla rimozione. I giudici supremi hanno sentenziato che sia invece da tenere in considerazione l’idoneità quale requisito per l’eleggibilità del candidato premier, disposizione da applicarsi ante nomina e non post. Quindi, al momento non sussistono condizioni “superiori” per la revoca dei poteri a Bibi. Se mai qualcuno ci avesse sperato.
Per sostituire il peggior premier della storia di Israele ci sono solo tre possibilità: che si dimetta di sua scelta (alquanto improbabile a meno che non decida di giocarsi tutto richiamando gli israeliani alle urne); che la maggioranza che lo sostiene imploda (rischio sempre presente visto gli alleati che si è scelto); oppure che il Likud, il partito di cui è padre padrone, si rivolti contro di lui (ma mancano aspiranti coraggiosi e volenterosi che si mettano a capo della congiura di palazzo). Il re di Israele è stanco ma si tiene stretta la corona, senza più Benny Gantz nel gabinetto di guerra che gli tiri le orecchie. L’ex ministro a forza di minacciare le dimissioni, e poi ripensarci, alla fine le ha presentate, con una tempistica non esente da critiche. Il problema è che per il suo posto apicale adesso sgomita l’ultradestra. Che vorrebbe tornare ad occupare Gaza e cacciare i palestinesi dalla loro terra. Provetti Nerone a cui è pericoloso mettere in mano i fiammiferi, figuriamoci affidar loro le chiavi dei carri armati e le sorti della battaglia.

BIBI FAI LA COSA GIUSTA, ALMENO QUESTA VOLTA

Se Biden non si fosse fatto incastrare da Netanyahu nel classico gioco del “tira e molla”, forse oggi ci sarebbe qualche spiraglio di luce all’orizzonte. E non una tenebrosa paralisi politica, che rischia di compromettere gli assetti della società israeliana, aggrovigliata in quella che è la situazione più delicata della sua storia. Colpa di Bibi. In questi lunghi mesi di guerra, ha pubblicamente umiliato il presidente degli Stati Uniti. Se n’è fregato dei consigli della Casa Bianca, attratto dal canto ammaliatore dei Repubblicani (suo eterno amore), ha inforcato la via dello scontro con i democratici. Bibi il Nixon israeliano.

Colpa il suo ego smodato, la cosa più grave, ha mortificato Israele. Prima elevando al governo personaggi impresentabili, e decisamente poco raccomandabili. Poi ha provocato una larga fetta della società, tentando di introdurre la riforma della giustizia, che indeboliva il sistema democratico. Infine, ha fallito clamorosamente nella sicurezza nazionale. Quando avrebbe dovuto evitare sofferenze e lutto alle famiglie. Proteggerle dal massacro. Liberare gli ostaggi. Mettere fine alla guerra, dimostrando di essere uno statista. Far rientrare gli sfollati nelle proprie case. Il risultato prodotto dal peggior governo di Israele è la somma di confusione sociale, incertezze militari e diplomatiche, insorgere dell’antisemitismo globale e odio per Israele. Il primo ministro Netanyahu non è stato capace di mostrare una logica via d’uscita all’emergenza in atto. Bibi si è fatto serio e cupo. Non lascia trapelare una parola sui piani di governo della Striscia il “giorno dopo Hamas” (se mai ci sarà). Non ha avuto il coraggio, per puro tornaconto, di liberarsi degli alleati nocivi dell’estrema destra: vetero fascisti che marciano su Gerusalemme, per infiammarla. Invasati di retorica messianica. Che antepone la fantasia alla realtà. La stupidità alla pace.

L’ultimo atto del bibismo è ripiegare sul nulla. Aspettare le critiche e per inerzia rispondere. Ogni affondo che lancia però è sempre meno credibile del precedente. Ha perso lucidità e scaglia dall’arco frecce spuntate. Offende l’ONU. Attacca la Corte penale internazionale. Bersaglia gli oppositori (interni ed esterni). Sfida l’apparato dell’esercito. Sbeffeggia l’Europa. È poco altruista, e troppo populista. Si atteggia da monarca illuminato, ma dietro la maschera nasconde il volto del despota perdente, che rifiuta di fare quel doveroso e molto onorevole passo indietro, permettendo l’esercizio democratico del voto.

Ha incautamente rotto il vaso della popolarità, ed è uscita la verità. Quella che è lui ad avere la responsabilità del comando. E non gli altri. Non ha scuse. Segua l’esempio del generale Aharon Haliva, capo dell’intelligence dell’esercito israeliano, che si è dimesso lo scorso aprile: «Sapevo che con l’autorità derivano pesanti responsabilità». Siamo alla nemesi di Netanyahu. Fondatore di uno stato disfunzionale. In Israele per risollevarsi dal disastro è ragionevole invocare il cambiamento, come forma di resilienza costruttiva. Il buon senso comune dovrebbe convincerlo a rimettersi al giudizio del popolo. L’ultimo sondaggio apparso indica che il 54% degli israeliani è favorevole al ritorno alle urne. Nella pratica invece abbiamo la maggioranza della Knesset contraria. E destinata ad un lento e progressivo logoramento.

Alternativa, poco plausibile e oggettivamente impraticabile, è un governo di scopo a scadenza limitata. Allargato ai partiti dell’opposizione, di matrice sionista. Esecutivo di cui non farebbe parte l’ala estremista dei nazionalisti. Esclusione a danno di Netanyahu, costretto a pagare pegno. Non meno gravoso sarebbe tuttavia per gli anti-Bibi ritardare la sua caduta anche di un solo minuto. Meglio quindi scegliere una data (settembre?) e contarsi una volta per tutte. Biden, comunque, spera che accada presto ed a vincere non sia lui.

BENNY VS BENNY

“Le leadership di Israele e Palestina devono andarsene. È responsabilità diretta del popolo israeliano e palestinese mandarli via. Ma anche la comunità internazionale deve fare la sua parte… Il conflitto è andato oltre i confini di Israele e Palestina, con il potenziale rischio di un allargamento nella regione. Oltrepassando le linee rosse della morale”. “This has to end”. Tutto questo deve finire, è l’appello lanciato dalle colonne del Jerusalem Post da Gershon Baskin, direttore dell’International Communities Organization, editorialista e negoziatore di ostaggi, si occupò della liberazione nel 2006 del soldato Shalit, dopo 5 anni e 4 mesi in cambio di 1027 detenuti nelle carceri israeliane.

Intanto, a Tel Aviv e Gerusalemme risuona l’urlo della folla: “Elezioni subito!”. In una protesta che si sdoppia. Da un lato i cortei e le tende nelle piazze contro Netanyahu e dall’altro lo scontro politico nella Knesset. Ad unire le forze anti-Bibi potrebbe essere, ancora una volta, il ministro del gabinetto di guerra Benny Gantz, che ha pubblicamente avanzato la proposta di anticipare a settembre le elezioni. Che l’uscita di Gantz sia stata concordata con l’amministrazione di Biden è una supposizione. Non trascurabile visto che la finestra indicata per il rinnovo della Knesset è settembre, vigilia delle presidenziali USA. Quando, in caso di vittoria di Trump, muterebbe il quadro geopolitico, difficilmente a favore di Gantz. Il tappeto rosso della Casa Bianca all’ex generale e lo smacco del mancato invito a Bibi, sono indizi rivelatori che lasciano poco margine al fraintendimento. I democratici statunitensi hanno imbarcato il leader di HaMahane HaMamlakhti e Biden ha scaricato l’amico Netanyahu, con cui è “molto incavolato”.

Dopo 6 mesi di guerra, la strategia politica dell’ex capo dell’IDF ricalca quella della torre negli scacchi, muoversi sia in orizzontale che in verticale. È al fianco dei parenti degli ostaggi a Gaza (“Mi vergogno quando ascolto l’atteggiamento di alcuni parlamentari nei confronti delle famiglie degli ostaggi”), e in campo come alternativa a Netanyahu (“Il popolo israeliano è soffocato da una visione di governo bloccata nel passato”). Per arrivare a mettere in scacco re Bibi l’unica via è portarlo allo scoperto dalla trincea dove si è arroccato, con le urne o con la crisi di governo. La prima opzione ha bisogno della seconda. La seconda può fare a meno della prima.

Scrive The Times of Israel: “Gantz si è indebolito nei sondaggi nelle ultime settimane e la sua uscita dalla coalizione non farebbe cadere il governo, tuttavia, nuove elezioni potrebbero potenzialmente vederlo spodestare il primo ministro più longevo di Israele. I sondaggi mostrano il suo partito costantemente al primo posto nei consensi e il Likud che sta affondando. Sempre più israeliani lo indicano come candidato adatto a ricoprire la carica di premier, al posto di Netanyahu”. Insomma, la partita tra i due Benny è entrata in una nuova fase.

Nell’aprile del 2020 Gantz non aveva resistito alle lusinghe di Bibi, accettando la formazione di un governo d’emergenza in cambio della rotazione al vertice. Allora, una delle battute che circolavano tra i giornalisti israeliani era: “Sapete quante saranno le ore di Gantz a Balfour street (la residenza a Gerusalemme del primo ministro)? Otto, ovvero quelle che ha passato nello studio di Netanyahu per trovare l’accordo”. E fu veramente così. Invece, di cedere la poltrona Bibi fece saltare il banco. In pochi forse ricordano che dieci anni prima il giorno della sua investitura a tenente generale, di lui Netanyahu disse: “È un eccellente ufficiale che possiede tutti gli attributi per essere un comandante di successo”. Molti probabilmente si ricordano della propaganda della destra nella campagna elettorale del 2019. La macchina del discredito o del fango gli rovesciò addosso di tutto. Il quotidiano Maariv divulgò la notizia, falsa, che Gantz avrebbe fatto uso di ansiolitici. Il giornale Yedioth Ahronoth, cantore delle gesta del leader del Likud, invece pubblicò una vignetta dove due capi di Hamas commentano: “Speriamo vinca Netanyahu, dicono che Gantz sia fuori di testa”. Attualmente Gantz, quale membro del ristretto gabinetto, è personalmente esposto nella gestione della crisi. E Netanyahu non gli rende la permanenza nella maggioranza una cosa semplice, tra esternazioni degli estremisti, politiche sensibili ai religiosi e frecciate: “deve smettere di occuparsi di politica spicciola solo perché il suo partito sta cadendo a pezzi”. Nemmeno i rapporti con Yair Lapid sono gli stessi di quando correvano insieme, le strade si sono divise. E oggi Lapid è il riconosciuto leader dell’opposizione. A questo punto a Gantz non resta che tenersi stretti i sondaggi. L’ultimo in ordine di tempo è di poche ore fa: 32 seggi accreditati alla sua lista, contro i 17 del Likud e i 15 di Yesh Atid di Lapid. Se l’esecutivo lentamente collassa ma soprattutto se Biden continua a spingerlo, potrebbe essere la volta buona per Balfour street. Altrimenti, sarà l’ennesimo buco nell’acqua.

SHOOT

In Medioriente storie di conflitto, violenza ed effetti “collaterali” drammaticamente si intrecciano. 30 novembre 2023. È mattina. Mentre la tregua della guerra a Gaza è in bilico, Gerusalemme è ancora una volta sotto attacco terroristico. Qualche decina di minuti prima dello scoccare delle otto le agenzie di stampa israeliane battono la notizia che medici e polizia sono impegnati alla periferia della città. Sul posto le ambulanze della Magen David Adom stanno prestando le cure a sei feriti. Le condizioni di alcuni sono gravi. Almeno due assalitori sono stati uccisi nello scontro. Secondo i media uno dei soccorritori intervenuti è un soldato in congedo, si scoprirà essere Aviad Frija, che stava facendo ritorno in prima linea. Nel filmato lo si vede in divisa insieme ad un commilitone uscire dall’auto con la sua arma in dotazione e correre verso i terroristi. Con il passare delle ore il numero delle vittime cresce. Hamas rivendica l’azione. Le immagini riprese dalle telecamere all’incrocio di Weizman street iniziano a circolare in rete. I terroristi sono stati identificati come due fratelli palestinesi residenti nel quartiere gerosolimitano meridionale di Sur Baher.
Yuval Doron Castleman, avvocato israeliano con un passato nei servizi di sicurezza, è stato il primo cittadino ad intervenire. É sceso dalla vettura che viaggiava in senso opposto, ha attraversato a piedi le corsie e sopraffatto i due attentatori. Poi ha gettato a terra la pistola che impugnava, si è aperto la camicia e inginocchiato a terra, alzando le mani in alto. Gridava non sparate. Invece, il sergente della riserva Frija ha premuto il grilletto del fucile.
Per gli avvocati del riservista: “I video dell’accaduto che sono stati pubblicati sui social network, e le diverse angolazioni delle telecamere, creano un’impressione parziale ed errata che non riflette ciò che si vede e sente dalla direzione del militare”. Aggiungono. “Dal posto in cui si trovava, e dai suoni che ha sentito, era convinto con tutto il cuore che stava sparando a un terrorista, che rappresentava ancora un potenziale pericolo”, concludono. ”Dopo aver ascoltato la sua testimonianza, non abbiamo dubbi che in queste insolite particolari circostanze, anche l’Ufficio della procura Generale Militare raggiungerà la chiara conclusione che, con tutto il pesante dolore per il terribile esito, questo è un tragico errore che non giustifica l’adozione di misure penali contro di lui”. Frija, per la cronaca, è stato arrestato. Nei precedenti casi in cui i soldati dell’IDF si sono trovati in simili situazioni, infrangendo le regole di ingaggio e provocando la morte di un palestinese, solitamente l’accusa non è mai stata di omicidio di primo grado, ma semplicemente colposo. Con la conseguente condanna che amministrativamente comporta una pena inferiore ai due anni, addirittura anche solo poche settimane di carcere. A morire però questa volta è stato un israeliano.
Il dibattito politico si accende. Il premier Netanyahu quello stesso giorno in tarda serata dichiara: “La realtà dei civili armati è che molte volte salvano vite e prevengono un disastro maggiore. Nella situazione in cui ci troviamo questo metodo dovrebbe essere perseguito. Pur avendo da pagare un prezzo, questa è la vita”. Il riferimento era sia all’uccisione di Castleman sia alla linea politica introdotta dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che prevede di allentare le restrizioni sulle licenze di armi da fuoco (260 mila sono quelle che sono state rilasciate dopo gli eventi del 7 ottobre).
Ma lo scivolone sul “così è la vita” scatena un’alzata di scudi. Protesta Moshe Castleman, padre della vittima, che critica aspramente il commento, invitando il “falco” della destra a guardare i video prima di parlare. “[Mio figlio] ha seguito tutte le procedure in modo da poter essere identificato. Si è inginocchiato, ha aperto la giacca per mostrare che non aveva esplosivi addosso, ha urlato: “Non sparate, sono ebreo, sono israeliano”. E invece hanno compiuto una vera e propria esecuzione”. A quel punto Netanyahu (che non ne azzecca più una) accortosi dell’errore di comunicazione torna sui propri passi. Chiama al telefono Castleman: “Suo figlio è un eroe israeliano. Yuval, in un atto di supremo coraggio, ha salvato molte vite, ma sfortunatamente si è verificata una terribile tragedia”. Il leader del Likud promette di andare fino in fondo con l’indagine dei fatti. Intanto, il presidente Isaac Herzog, con il suo stile mite e riservato, si presenta personalmente a casa della famiglia Castleman per rendere le sentite condoglianze. “Sono qui non solo come individuo, ma come presidente dello Stato di Israele, per chiedere perdono ed esprimere enorme apprezzamento a un eroe israeliano che ha fatto una cosa grande e coraggiosa”. Herzog va oltre le scuse e dice quello che pensa sull’intera questione della “liberalizzazione” delle armi fortemente voluta dall’estrema destra al governo: “Non dobbiamo aver paura di parlarne, di mettere la questione sul tavolo”.
Sentitosi chiamato in causa, e non perdendo occasione per tacere o andare a passeggiare provocatoriamente sulla Spianata delle moschee, Ben-Gvir ha replicato: “Sapevamo di avere ragione quando dicevamo che ogni luogo dove c’è una pistola può salvare una vita”. Il politico nazionalista chiarisce: “stiamo fornendo 3.000 licenze al giorno”, rispetto alle poche richieste prima del pogrom del 7 ottobre.
Per Israele liberarsi dalla paura provocata da quell’evento è impossibile, almeno per ora. La corsa alle armi è una reazione che ci si poteva attendere. Trasformare lo stato in un far west comunque non risolve il problema e in questo momento andrebbe evitato.

L’ARCO POLITICO DI NETANYAHU FINIRA’ CON UNA COMMISSIONE

Benjamin Netanyahu è un politico sull’orlo di un abisso esistenziale. La sua “monarchia” trema. Nella storia è caduta la famiglia Ceausescu, in Romania, e prima ancora abbiamo assistito al crollo della dinastia Somoza, in Nicaragua. “Bibi” però non è un dittatore. È un populista di destra, propugnatore visionario di un nuovo sistema di democratura 2.0, e forse un corrotto, ma questo spetta chiarirlo al tribunale di Gerusalemme.

C’è chi pensa, e sono in molti, che la sua longeva carriera sia arrivata alla fine. E chi è convinto invece, e sono in pochi, che proclamandosi leader del mondo occidentale nella guerra al terrorismo possa ribaltare le sorti del suo destino, segnato per sempre da quel tragico 7 ottobre. “I due punti più bassi del Pianeta sono in Israele: il Mar Morto e il comportamento di Benjamin Netanyahu. Uno è una meraviglia della natura, l’altro un errore politico”. Così Alon Pinkas su Haaretz. “Bibi” negligente e arrogante. Altre, tante, le critiche che gli piovono addosso dal quotidiano progressista di Tel Aviv. Nehemia Shtrasler chiarisce: “Benjamin Netanyahu è in stato confusionale. È nel panico. Non è adeguato. Ma non a causa dell’orribile debacle di cui è responsabile. Non per le 1.400 persone che sono state massacrate nei modi più brutali. È in preda alla paura per le crescenti pressioni su di lui affinché si dimetta, subito”. E qui il dibattito prende svariate forme. L’entrata in scena di Gantz, e la nascita di un governo di emergenza, sono evidenti segnali di sbandamento dell’asse della Knesset sempre più spostato verso il centro. In questa delicata fase, più che depotenziato il falco del Likud pare essere stato messo sotto attenta osservazione, sia dall’esercito che dalla Casa Bianca. Dove si pensa, ma ancora non si dice, che rappresenti un serio ostacolo al processo di pace.

“Vorrei essere ricordato come il protettore di Israele. Mi basta questo”. L’epitaffio di Mr Sicurezza, che lo stesso Netanyahu ha scelto, è da riscrivere. Yair Rosenberg in The Atlantic scrive: “Quella promessa è stata irrimediabilmente infranta. Il mito che Netanyahu ha assiduamente coltivato riguardo alla sua leadership è stato smascherato”. Ha fallito miseramente, e badate bene il caso non è chiuso. Una volta terminata la guerra, per Israele ci sarà un’inchiesta approfondita, alla ricerca delle colpe. È avvenuto nel ’73, dopo il conflitto dello Yom Kippur. Quando la commissione Agranat rimproverò militari e intelligence, chiedendo rimozioni e allontanamenti. Esente da ogni valutazione fu la politica. Che pagò, tuttavia, il diffuso malessere pubblico, l’11 aprile 1974 Golda Meir rassegnava le dimissioni. È successo nuovamente nel 1982, in seguito agli eventi di Sabra e Shatila quando il governo Begin incaricò il presidente della Corte Suprema Yitzhak Kahan di svolgere indagini sul massacro in Libano. Il rapporto fu una mezza assoluzione per l’allora primo ministro e per il collega di partito e capo della diplomazia Shamir. Ariel Sharon, ministro della Difesa, venne lasciato sulla graticola a cuocere. Ancora una volta l’accusa di negligenza e responsabilità finì sulla testa dei generali. Similari le conclusioni raggiunte dalla Commissione Winograd sulla campagna in Libano del 2006: “Nel periodo esaminato nel Rapporto finale – dal 18 luglio al 14 agosto 2006 – sono emersi risultati preoccupanti: Abbiamo riscontrato gravi mancanze e carenze nell’interfaccia tra il livello politico e quello militare; gravi lacune nella qualità della preparazione, del processo decisionale e delle prestazioni dell’alto comando dell’IDF. Difetti nella pianificazione strategica, sia a livello politico che militare. Abbiamo riscontrato errori nella difesa della popolazione civile e nel far fronte all’attacco con i razzi. Queste debolezze risalgono a molto prima della seconda guerra del Libano”. Nel complesso a destare incredulità fu che un’organizzazione allora semi-militare (e terroristica) come Hezbollah, di poche migliaia di uomini seppe fronteggiare, per alcune settimane, l’esercito più forte del Medio Oriente, “che godeva della piena superiorità aerea e dei vantaggi in termini di dimensioni e tecnologia”. Tutti assolti, per una guerra totalmente inutile e mai terminata.

Anche la prossima commissione sui fatti del 7 ottobre verosimilmente arriverà a conclusioni non dissimili da quelle precedenti, fermandosi ai militari e alle forze dell’intellingence come capro espiatorio. La certezza è che Netanyahu sarà travolto con loro. Come afferma la prestigiosa firma di Haaretz e dell’Economist Anshel Pfeffer: “Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu”.

BIBI E L’EREDITA’ DEL LIKUD

Chutzpàh è una parola ebraica che racchiude in sé diversi concetti, non solo negativi, ma che viene spesso riferita ad un atteggiamento sfrontato, impudente. È un termine yiddish entrato a far parte del linguaggio comune. La prima menzione nelle fonti classiche ebraiche si trova nella Mishna, in Masechet Sota 9:15. La frase è: “Nel periodo messianico la chutzpàh prevarrà”. L’altro significato è quello della regalità senza corona. Infine, l’esempio più colorito, quello dell’uomo che uccide i propri genitori e al giudice chiede clemenza, perchè orfano.
Se si passa alla politica di apostrofati chutzpàh ce ne sono tanti, ma a uno più di tutti calza a pennello, Benjamin Netanyahu. Bibi inequivocabilmente è, per la stampa, per i detrattori e gli avversari, per i fan o gli amici, il re dei chutzpàh. Grazie a questa naturale dote di sfacciataggine è stato capace di restare al centro del dibattito degli ultimi trent’anni della storia di Israele. Ha saputo rialzarsi da sconfitte brucianti. Ha ribaltato la società israeliana dalle fondamenta e modellato il Likud, il suo partito, a propria immagine. Ha traghettato la destra verso nuovi mari, per approdare infine al lato oscuro del nazionalismo populista, con la formazione del governo più a destra di sempre. Elevando al rango di ministri impresentabili razzisti.
na cosa che non ha mai fatto e forse minimamente pensato è indicare il suo successore. Poco probabile che passi il testimone al figlio Yair, a cui manca il quid. Vantava delle pretese dinastiche Benny Begin, figlio dello storico leader Menachem, che invece si è fermato al palo. Ehud Olmert c’era riuscito ma è scivolato penalmente su una buccia di banana, eliminandosi da solo dalla corsa. È stata ad un passo dall’accantonarlo in soffitta Tzipi Livni, ma con una “magia” politica Netanyahu si è liberato di lei. In ordine sparso si sono rivoltati contro di lui interi apparati del partito e stretti consiglieri: Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zvi Hauser, Zeev Elkin, Moshe Ya’alon, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Quest’ultimo ha fatto tremare il sogno di onnipotenza di Bibi, l’illusione è durata poco e il governo Bennett-Lapid è evaporato al vento. E così ancora una volta è tornato alla guida del paese.
L’ultimo capitolo della saga di Netanyahu, tuttavia, ha palesato criticità di fondo e responsabilità. La partecipata protesta della piazza del movimento pro-democrazia, iniziata a gennaio pochi giorni dopo il suo insediamento a Balfour street, e gli eventi tragici del 7 ottobre, hanno evidenziato un leader non all’altezza della situazione. Incapace di ascoltare il dissenso di massa che montava giorno dopo giorno. Tardivo nell’assicurare la sicurezza ai propri cittadini. Troppi errori. Pagati impietosamente nei sondaggi, gradimento crollato ai minimi (28%). Ha perso consenso e soprattutto la fiducia della gente.
Adesso, a chiedere le sue dimissioni c’è una larga fetta di Israele, che va ben oltre i lettori di Haaretz e che è trasversale alla composita società israeliana. Chi ha velleità di cimentarsi alle prossime elezioni politiche, una volta finita la guerra, e aspirare al ruolo di comando è Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore, oggi responsabilmente membro del Gabinetto di guerra, è una concreta alternativa, che non dispiace a Biden. Dai banchi dell’opposizione invece il più accreditato è sicuramente Yair Lapid, anche lui molto stimato dai democratici a Washington. Se invece l’operazione per rimuovere Netanyahu dovesse palesarsi a conflitto in corso, la soluzione più plausibile è che avvenga attraverso un terremoto politico nel Likud. Sia Gantz che Lapid non hanno i numeri nell’attuale Knesset per formare una maggioranza. E senza l’appoggio del Likud anche il sostegno dell’amministrazione statunitense non è sufficiente. Una scelta di continuità con Netanyahu sarebbe Yariv Levin, se non fosse che il suo nome è indissolubilmente legato alla contestata riforma della giustizia e inviso a tanti. Chi ha le spalle larghe abbastanza per reggere il confronto con il padre padrone della destra è Nir Barkat. L’ex sindaco di Gerusalemme è un imprenditore di successo, con elevata disponibilità economica: è il politico più ricco di Israele. Di poche parole, freddo come un iceberg, difficile da interpretare. Già in passato ha alzato la testa, prendendo apertamente le distanze da Netanyahu. In questo esecutivo è ministro di prima fascia, presiede l’Economia. Rispetto ad altri dirigenti del Likud non ha una corrente di riferimento, ed è, se vogliamo, avulso dal controllo della macchina (e delle tessere). Di voti, comunque, ne raccoglie parecchi. È stato tra i primi, e pochi, nel governo a rilasciare interviste dopo il 7 ottobre. Puntando il dito contro l’Iran. A fare di lui un potenziale leader a largo spettro è la lunga esperienza da primo cittadino di Gerusalemme, dove ha saputo governare con tutti: dalla sinistra sionista alla destra religiosa. Se c’è un politico con le credenziali, adatto ad una fase di unità nazionale, sembra proprio essere lui. Prima però deve sfilare la poltrona a Bibi.

I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

CULTURA SBAGLIATA

Nel conflitto israelopalestinese sono dibattute questioni “sociali” che, alimentate dalla politica e dall’ideologia, assumono aspetti culturali eticamente distorti. Uno dei tanti esempi è il Fondo dei Martiri dell’Autorità nazionale palestinese, il programma di sostegno economico ai palestinesi imprigionati, feriti o uccisi da Israele e destinato alle loro famiglie: stimato in 350 milioni di dollari l’anno. Ufficialmente introdotto dal governo di Ramallah nel 2004, in piena Seconda Intifada, questa tipologia di finanziamento era già in uso nei campi profughi del Libano tra i combattenti di Fatah, a partire dagli anni ’70. E poi successivamente riproposto nelle campagne politiche di assistenzialismo gestite da Hamas, nel nome della beneficenza islamica. E proprio su questo banco di prova con gli avversari politici che prima Arafat e dopo i suoi successori hanno deciso di alzare il piatto della bilancia della propaganda.
Con un provvedimento del 2013 il sistema di welfare palestinese garantisce ai prigionieri (attualmente nelle carceri israeliane sono quasi 5mila) l’automatico impiego negli apparati istituzionali al loro rilascio. Inoltre, l’Autorità palestinese stabilisce un sistema “proporzionato” di compenso, dove i prigionieri ricevono maggiori finanziamenti in base alla durata del periodo di detenzione, e quindi parallelamente alla gravità del crimine commesso. Più vittime fai e più soldi ricevi (l’accusa). Dal punto di vista palestinese tale misura viene legittimata, e motivata, nel dare pieno sostegno “alla lotta contro l’occupazione e l’ingiustizia israeliana”. In un contesto dove è noto che l’esercito israeliano effettua arresti arbitrari di palestinesi (non ultimo ed eclatante l’episodio dell’italopalestinese Khaled El Qaisi, da giorni recluso in cella), che sono soggetti alla legge militare israeliana e privati dei diritti garantiti da quella civile di Israele. Il contraltare palestinese è lo schema di sussidi previsto per i terroristi. I quali, pur macchiandosi di crimini contro civili inermi, possono beneficiare dell’assistenza sociale. Questo elemento, non di poco conto, si porta dietro il soprannome dato al programma: “pay-for-slay”. Ovvero, un incentivo, secondo i critici, ad ammazzare gli israeliani.
“Indipendentemente dal suo vero scopo, non è esatto caratterizzare il Fondo dei Martiri esclusivamente come un mezzo per incoraggiare il terrorismo contro Israele. Contrariamente a quanto potrebbe affermare il primo ministro Netanyahu, non tutti i beneficiari degli aiuti del Fondo dei Martiri sono terroristi”. Alex Lederman in un articolo pubblicato da Israel Policy Forum, sottolinea che: “Non tutti i palestinesi nelle carceri israeliane hanno o intendono avere le mani sporche di sangue israeliano”. Restano comunque i gravi errori commessi ripetutamente dall’Autorità palestinese e dal suo presidente. Non dimentichiamo che il budget del cosiddetto Fondo Martiri proviene oltre che dai regimi arabi anche dai poco informati e talvolta distratti contribuenti occidentali.
Sono invece qualche migliaia e molto convinti coloro che hanno donato oltre 1,2 milioni di shekel alla campagna di crowdfunding lanciata per chiedere la liberazione di Amiram Ben Uliel, estremista di destra e colono israeliano giudicato colpevole di aver compiuto nel 2015 un attentato terroristico incendiario nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, costato la vita a tre palestinesi membri della famiglia Dawabsha (madre, padre e figlio di 18 mesi). Recentemente 14 parlamentari della maggioranza di governo, per lo più aderenti ai partiti Likud e Otzma, hanno fatto appello al capo dello Shin Bet Ronen Bar per far allentare le sue condizioni di detenzione all’ergastolo (per diritto di cronaca Ben Uliel si professa innocente e dichiara di aver confessato sotto tortura). In occasione delle festività di Rosh haShanah è stato approvato il temporaneo trasferimento di Ben Uliel dall’isolamento all’ala dedicata ai religiosi (Torah wing). Un piccolo trattamento di favore, che vista la composizione dell’attuale governo di Netanyahu potrebbe non essere l’unico.
Crowdfunding per un pericoloso eversivo israeliano o fondo per i martiri della jihad palestinese, non sono un bel segnale di pace. Del resto se Abu Mazen e Bibi Netanyahu, partecipando ai lavori dell’assemblea plenaria delle Nazioni Unite, hanno parlato dallo stesso microfono scambiandosi reciproche accuse, si sono seduti nella stessa aula e non si sono stretti la mano, quasi sfiorati e prudentemente evitati. È chiaro che sul tavolo non c’è nessuna reale intenzione di dialogo.