Perché nonostante Netanyahu abbia fatto un doppio passo indietro, concedendo una pausa all’iter legislativo della contestata riforma giudiziaria e aprendo ai negoziati, la protesta nelle strade di Israele continua? Alla domanda, facciamo nostre le parole di una delle firme più autorevoli di Haaretz, Anshel Pfeffer: “Perché nessuno si fida più di Netanyahu. Se il primo ministro pensava che la sua decisione di congelare la riforma della giustizia gli avrebbe concesso un momento di tregua, l’accordo siglato con l’estremista Itamar Ben-Gvir per creare una sua milizia privata ha fatto naufragare la situazione – e ha creato un altro problema a Bibi”.
Non sventolano il ramoscello d’ulivo i manifestanti che da mesi paralizzano il paese. È opinione diffusa, e plausibile, che in realtà l’obiettivo di indebolire il potere della Corte Suprema non sia stato assolutamente tolto dall’agenda dell’esecutivo. L’ha solamente riposto nel cassetto, per prendere tempo e aspettare giorni migliori. Allo stesso tempo, la strada della trattativa tra maggioranza ed opposizione, sponsorizzata dal presidente della Repubblica Isaac Herzog, è stretta. Difficile, per non dire impossibile, che si arrivi ad un punto di compromesso tra le parti. E assai complicato che il clima politico decanti velocemente. Per ora, Israele dovrà restare con il dubbio che la sua tenuta sociale è fragile, e a rischio implosione. Con Netanyahu sempre più in un angolo, stretto sotto la pressione di fattori esterni ed interni. C’è la piazza con il movimento pro democrazia che ha vinto la sua prima battaglia ed è intenzionata a non fermarsi, fino alla sua destituzione. C’è la sfida di Yoav Gallant (formalmente ancora ministro della Difesa seppur sfiduciato), colpevole di lesa maestà, che “coraggiosamente” ha scelto di patteggiare per la ragionevolezza invece dello scontro frontale. Ci sono i sondaggi con il “moderato” Benny Gantz e il suo partito in forte crescita, a danno del Likud. C’è Herzog in campo a fare da arbitro, e ispiratore di una fase costituente. Il presidente Biden a tifare, apertamente, per i manifestanti, creando non pochi imbarazzi diplomatici all’amico di vecchia data. E infine, gli alleati di governo ad alzare alle stelle il prezzo delle richieste.
Prendiamo ad esempio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza e leader del partito di estrema destra Otzma, al quale Netanyahu ha dovuto concedere la creazione di una futura guardia nazionale in cambio dell’approvazione a rinviare la riforma della giustizia. Mettere nelle mani di Ben-Gvir, una milizia è potenzialmente un errore, e un pericolo. Varie associazioni israeliane per i diritti civili hanno espresso preoccupazione alla creazione di una tale forza privata ed armata. Fermamente contrari anche la Procura generale, i vertici della polizia e dei servizi segreti. Domenica 2 aprile, il Consiglio dei ministri ha comunque dato il via libera alla proposta di istituire la guardia nazionale, per il bene della tenuta della coalizione. Lasciando la “calda palla” a un comitato che dovrà entro 60 giorni presentare un piano organizzativo, se si dovesse giungere alla conclusione che questo corpo parallelo di polizia risponde unicamente all’autorità del ministro, e non agli organi preposti all’ordine pubblico, ci sarà tuttavia bisogno di introdurre una normativa ad hoc. In tal caso il governo avrà a disposizione altri 90 giorni per approvare la nuova legge. Non è detto che anche questa iniziativa (e promessa di Bibi) finisca per diventare irrealizzabile. E che passi nel dimenticatoio. In molti lo sperano. E vedono prossimo il crepuscolo politico di Netanyahu. Ben-Gvir ha trovato il tallone di Achille e attacca colpendo duro. C’è da credere che presenterà qualche altra delirante pretesa minacciando, in caso contrario, di far cadere il governo. Prima o poi re Bibi dovrà dirgli un secco no. E decidere se spostarsi fuori dal quadrato della sua coalizione in cui si è trincerato. L’alternativa è formare una diversa maggioranza o tornare al voto, senza però avere una copertura tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. La morsa si stringe intorno al falco della destra, per uscirne farebbe meglio a guardare alla costituzione, che manca da 75 anni.
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BIBI IN PAUSA
Domenica 26 marzo, Netanyahu decide di silurare il ministro della Difesa Yoav Gallant, reo di aver dichiarato di essere favorevole alla sospensione della contestata riforma della giustizia, promossa dal governo. Il licenziamento provoca un vespaio di nuove proteste in Israele. Nell’arco di una notte, lunga e sofferta, tutto precipita. E al mattino la notizia è che: “Netanyahu congela la riforma giudiziaria”. Almeno, è quello che trapela e rimbalza sui siti. Intanto, ci si aspetta che parli alla nazione. L’annunciata conferenza stampa però si trasforma in una via di mezzo tra il giallo e la barzelletta. Cresce l’attesa. Parla o non parla? Ammette la sconfitta o chiama in piazza i suoi? Che intanto si sono dati appuntamento per una contro-manifestazione nel pomeriggio a Gerusalemme. Il più infervorato è il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che twitta «Oggi finisce il nostro silenzio. Oggi è il giorno in cui la destra si sveglia». Poco dopo anche l’altro leader dell’estrema destra razzista Bezalel Smotrich sentenzia: «Facciamo sentire la nostra voce». Sorge tuttavia spontanea una domanda: la vostra o quella di Bibi? Perchè quella del premier in tutto questo grande caos, un balagan gadol, mica si sente. Silenzio stridente, che lascia il dubbio che voglia veramente arrivare alla prova di forza. Altrimenti, perchè attendere così tanto? Ha già avuto modo di sentirsi personalmente con quasi tutti i leader che compongono la coalizione. Ha davanti a sé un quadro chiaro. Il blocco dei partiti religiosi gli ha dato conferma che sarà al suo fianco qualunque cosa decida di fare. Nel Likud la fronda è disposta a rientrare nei ranghi con l’annuncio dello stop alla riforma. Il problema è la componente nazionalista, che lo incita a proseguire e minaccia di sfasciare la coalizione in caso contrario. Numeri alla mano il governo di Bibi cessa di esistere nel momento in cui decide di pronunciarsi in pubblico, se non ricompone prima l’alleanza. Alla fine, il sacrificio è doppio, oltre al passo indietro ora deve subire anche le pretese di Ben-Gvir, al quale è costretto a promettere il comando di una futura “fantomatica” guardia nazionale. Un prezzo decisamente alto. Nonostante l’immagine di falco, Netanyahu è sempre stato considerato un politico cauto, avverso al rischio, attento a portarsi al limite senza superarlo, ideologicamente un populista conservatore. Questo era il vecchio Bibi che conoscevamo, e che qualcuno rimpiange persino a sinistra (non fosse altro per le poltrone che elargiva indistintamente). Quello di oggi, che si è incattivito con il sopraggiungere dei guai giudiziari, è completamente diverso. È diventato un populista sovranista. Ma soprattutto è un politico debole con gli alleati, che gli impongono lo spartito da suonare.
Bibi sin dall’inizio ha tentato di svicolare l’assedio montante sulla riforma della giustizia rassicurando che i diritti non erano in pericolo e la gente avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma non tutti gli hanno creduto (anche tra quelli che l’hanno votato). E poi negli ultimi giorni vista la mala parata aveva “ammorbidito” il testo della riforma e allungato il brodo dell’approvazione. Parvenza di addolcire la pillola con qualche concessione che però non aveva avuto l’esito aspettato. La strategia comunque mirava in prima istanza a contenere le crepe nel Likud, che invece sono esplose, sbocciate come un fiore di primavera nel bel mezzo di una tempesta senza precedenti. Un grave errore di calcolo per un politico navigato, che si aggiunge ad altre cadute di stile.
Quando i sopravvissuti alla Shoah prendono carta e penna per scrivere una lettera al governo chiedendo di non partecipare alle cerimonie ufficiali nel giorno del ricordo dell’Olocausto (Yom HaShoah), non c’è nulla da aggiungere. Quando l’associazione delle famiglie che hanno perso i loro cari durante il servizio militare o per mano del terrorismo recapitano un “invito” ai rappresentanti della maggioranza a non intervenire alla giornata in memoria delle vittime (Yom HaZikaron), c’è solo da ascoltare in silenzio. Quando un ex direttore del Mossad afferma la necessità per il Paese di dotarsi di una costituzione, meglio obbedire. E quando il presidente della repubblica Isaac Herzog lancia un accorato appello chiedendo «di fermare immediatamente il processo legislativo, per il bene dell’unità del popolo di Israele e per amore del senso di responsabilità», andare avanti a testa bassa diventa un suicidio politico. Netanyahu ha perso il suo tocco magico e forse lucidità di analisi, ma può ancora evitare un folle disastro.
LA VOCE DI HERZOG, IL SILENZIO DI BIBI
Israele non avrà una costituzione ma ha un presidente, Isaac Herzog. Il quale in queste ore di crash test sulla tenuta della coesione sociale ha avanzato un articolato piano di mediazione (la “Direttiva della gente”), nel tentativo di abbassare i toni del confronto politico che è in atto nel Paese sulla proposta di riforma della giustizia: «Chi pensa che una vera guerra civile, con vite perse, sia una linea che non attraverseremo, sbaglia. Proprio ora, 75 anni dalla sua nascita, Israele è sull’orlo dell’abisso… Siamo ad un bivio: tra una crisi storica o un momento costituzionalmente decisivo». La mossa di Herzog, come lui stesso ha voluto sottolineare, «riflette un ampio, vasto comune denominatore e un enorme desiderio dei cittadini di concordare un compromesso». Secondo un recente sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post il 42% degli intervistati ha dichiarato di sostenere la “direttiva” avanzata Herzog. Per la frastagliata opposizione in parlamento la proposta è sostanzialmente una strada praticabile ma non una soluzione ideale. Mentre, la coalizione di governo l’ha respinta al mittente giudicandola una “capitolazione”, perché disallineata dagli obiettivi che la riforma giudiziaria vuole apportare al sistema di bilanciamento dei poteri. Accusando l’atteggiamento del presidente di essere delegittimante del risultato elettorale. Purtroppo, per convincere l’esecutivo capitanato da Netanyahu a fermare l’iter della contestata riforma occorre molto di più del richiamo del capo dello stato, figura autorevole ma nel sistema istituzionale israeliano, puramente rappresentativa. Nulla ad oggi è valso a far desistere la coalizione di destra dal procedere a tappe spedite verso il depauperamento dell’autorità della Corte Suprema. Non ci sta riuscendo l’onda del movimento “pro-democrazia”, una marea umana che da settimane riempie le strade di Tel Aviv. Un buco nell’acqua hanno fatto gli appelli di finanza, imprenditori, banchieri, giudici, artisti, premi nobel e persino riservisti. Non è bastata nemmeno “l’insubordinazione” dell’IDF a portare a miti consigli Bibi & friends. L’unica cosa che può impedire l’introduzione del nuovo disegno di legge è, a questo punto, la crisi della maggioranza, scesa al limite di 61 voti a favore (su 120). Teoricamente ci sarebbero ancora margini per modifiche sostanziali del testo in seconda e terza lettura alla Knesset. Nessuno però pare particolarmente intenzionato a procedere in un tale labirinto. Un’eventuale, poco probabile ma non impossibile, scossone politico potrebbe venire invece da un cambio della maggioranza, con la formazione di un nuovo esecutivo spostato al centro oppure da una frattura interna del Likud, di cui Netanyahu è al momento indiscusso padre-padrone. Ciò non toglie che i malumori di dissenso al capo serpeggiano tra gli esclusi di corte, comunque la congiura non è sotto il tavolo. Quello che è ampiamente il primo partito in Israele già in passato è stato teatro di importanti defezioni, lotte intestine e scismi. Epica la rottura di Ariel Sharon quando fondò Kadima. Bibi di sfide ne sa qualcosa, fin dalla sua ascesa al vertice dei conservatori israeliani ha dovuto sfoggiare tutte le sue doti machiavelliche per respingere le insidie. La lista dei nemici che in questi anni il falco della destra si è fatto è lunga, quasi quanto un vecchio elenco telefonico. Solitamente però chi gli si è rivoltato contro si è amaramente pentito della scelta, uscendone politicamente ridimensionato. Bastonate che di per se invitano a riflettere cautamente prima di provare a fargli uno sgambetto. Anche se personalità del Likud del calibro di Yuli Edelstein o David Bitan si possono permettere quello che ad altri nel partito non sarebbe minimamente concesso, alzare la testa e contestare il re. Se Bibi continua a perdere pezzi si vedrà costretto ad inventarsi una strategia alternativa, compresa l’opzione meno gradita del ribaltone. Benny Gantz e il listone di Unità Nazionale aspettano alla porta, e non è detto che gli venga offerto di entrare al posto di qualcuno scomodo.
BIBI AGGIUNGE UN POSTO A TAVOLA, CHE C’E’ UNA AMICA IN PIU’
A scrivere un nuovo capitolo dei rapporti tra Israele e l’Italia non troppo tempo fa fu Mario Draghi, la controparte allora era il governo anti-Bibi di Bennett e Lapid. Ad avvicinare le due sponde del Mediterraneo gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sull’energia. L’obiettivo era, e resta, quello di ridurre la dipendenza dal gas di Putin, in tempi rapidi. Israele ed Egitto rappresentano una valida alternativa di approvvigionamento per le aziende italiane. La calda accoglienza romana a Netanyahu è la riprova che nulla è cambiato nella strategia energetica nazionale. Per una cooperazione che si muove all’interno di una strutturata cornice di relazioni bilaterali, spaziando in diversi campi: innovazione e start-up, infrastrutture e telecomunicazioni, mobilità sostenibile e biomedicina, aerospazio e sicurezza cibernetica, farmaceutica e bellica. Affari commerciali che nel 2021 hanno registrato un balzo dell’export made in Italy del +25,9% (per un valore pari a 3,1 miliardi di €), rispetto all’anno precedente.
Una idillica partnership, fatta comunque non solo di scambi commerciali. Mazal tov (Auguri). L’incontro tra Meloni e Netanyahu ha avuto toni informali, quasi si trattasse di una rimpatriata di amici di lunga data. Ma in fondo Bibi si è sempre scelto attentamente le amicizie italiche. Quella storica con Berlusconi e poi quella con Renzi quando era in auge, alquanto fredda invece con Salvini (il loro incontro a Gerusalemme durò pochi minuti, giusto il tempo di una stretta di mano e della foto di rito) e pessima con Prodi (non quanto però quella con Clinton e Obama). Il falco del Likud si è presentato a Roma con un sacco di buone intenzioni, che tradotto in politichese significa che ha offerto a Meloni il riconoscimento internazionale ad entrare nel Pantheon dei leader mondiali della nuova destra: “Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito abbiano imparato la lezione della Storia” (M. Molinari, Netanyahu, l’intervista: “Al popolo della protesta dico: la democrazia in Israele è solida”, la Repubblica). Dopo aver sdoganato l’estrema destra israeliana Bibi mette sotto la sua ala protettiva la leader di FdI, anche in questo caso però la “fiducia” deve essere ricambiata, ed il prezzo imposto è alto: “credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico”, ha puntualizzato al direttore Molinari nella recente intervista rilasciata a la Repubblica. Commento che suona come una esplicita richiesta diplomatica dalla portata politica, figlia della sintesi tra bibismo e trumpismo. Un punto massimo a cui sia Palazzo Chigi che la Farnesina non possono spingersi, per varie ragioni. Non fosse altro perché a Washington adesso c’è Biden e non Trump.
La motivazione che ha portato invece il vicepremier Salvini a sposare l’iniziativa e spaccare il governo sulla questione ha una risposta “scacchista”: sacrificare la regina, esponendola a situazioni disagevoli, è al momento l’unica mossa del segretario leghista per prendersi la scena. Nulla di personale, è semplicemente la logica legge del mors tua vita mea. In questo Bibi è un maestro di machiavellismo, e Meloni deve fare attenzione alla prima lezione profetica che gli ha impartito: “La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti”. Risoluti e mai compassionevoli con il nemico, tanto che si tratti dell’Iran o della Siria, dei palestinesi o del movimento israeliano che vuole fermare la riforma giudiziaria. I leader politici israeliani sono storicamente poco inclini alla magnanimità, come scriveva qualche settimana fa Herb Keinon sul Jerusalem Post (Now is the time for Netanyahu, coalition to show magnanimity). Rabin non indietreggiò d’un passo sugli Accordi di Oslo, tantomeno Ariel Sharon quando sgomberò Gaza. Per non parlare di David Ben-Gurion che ordinò persino di far fuoco alla nave Altalena. Il padre fondatore mancò tuttavia di dare una costituzione allo stato, una fase costituente secondo il suo punto di vista avrebbe aumentato le divisioni politiche, in un momento di emergenza. Lasciò insoluta una questione a cui poi nessuno ha messo mano. Se Netanyahu decidesse di scrivere la costituzione, e mettere così fine al vulnus esistente, dovrebbe sedersi al tavolo con l’opposizione, mostrando disposizione all’ascolto. Francamente, pensiamo che non avverrà. E da questa partita sulla giustizia uscirà un solo vincitore, magari un po’ malconcio.
Nel 1948 il primo ministro Ben-Gurion non partecipò all’insediamento della prima Corte Suprema di Israele. C’è chi dice perché non avrebbe accettato l’ingerenza. E c’è chi pensa che con quel gesto volesse tracciare la linea di indipendenza dei giudici. L’unica democrazia del Medioriente si è portata dietro questo dubbio, che però le ha permesso di mantenere inalterato sino ad oggi il bilanciamento dei poteri istituzionali. Ambiguità che Bibi non rischia affatto di lasciare ai postumi.
LA PARTITA DEL MEDIORIENTE DI BIDEN
Il segretario di stato statunitense Antony Blinken in tre delicati giorni ha fatto la sponda tra il Cairo, Gerusalemme e Ramallah. Il tessitore della diplomazia della Casa Bianca si è fatto latore dell’invito alla calma di Biden difronte all’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi. Missione se non impossibile altamente improbabile per Blinken. Infatti, a tenere banco nel faccia a faccia tra Blinken e il premier Netanyahu non è stata la questione israelo-palestinese, bensì altre criticità globali che si intrecciano. L’Iran arma la Russia nella campagna di invasione dell’Ucraina. E Mosca fa orecchie da mercante sulla brutale repressione al movimento di protesta da parte del regime sciita. Alla luce dello scenario attuale la Casa Bianca ritiene che lo spazio diplomatico per un accordo sul nucleare con Teheran sia da considerarsi morto e sepolto. Il messaggero di Biden ha confermato che gli USA concordano con Israele sull’importanza di prevenire un Iran militarmente nuclearizzato. Era quello che in fondo Bibi voleva sentirsi dire. E passi che Blinken gli abbia tirato le orecchie sulla riforma giudiziaria che l’esecutivo vorrebbe introdurre. Decisione che ha portato in piazza migliaia di israeliani in difesa del ruolo della Corte Suprema e della democrazia.
In sintesi, la politica estera di Biden in Medioriente è un mezzo buco nell’acqua, almeno ad oggi. Buoni propositi, tante parole ma pochi fatti. Perfettamente in linea con quanto ereditato dai suoi predecessori, nulla di più e niente di meno. Eppure, da uno statista di lungo corso e attento conoscitore della regione ci si sarebbe aspettato uno sforzo maggiore. Invece, l’approccio di fondo è stato quello di evitare di commettere imprudenze e farsi impantanare in qualche guerra logorante. Privilegiando, quando possibile, e sostenendo, a spada tratta, gli affari: nel rispetto della consolidata tradizione della centralità degli stati del Golfo. Nel caso dell’Egitto, nell’arco del mandato, la Casa Bianca ha rafforzato le relazioni, anche personali, tra i due presidenti. Al contrario di quanto si pensava inizialmente, quando lo stesso Biden, sia in campagna elettorale che nei primi mesi in carica, aveva dimostrato forti attriti nei confronti di Abdel Fattah el-Sisi. Alla fine, tuttavia, ha prevalso la ragione che l’Egitto resta un partner geograficamente strategico: il canale di Suez è un punto nodale per spostare velocemente la flotta dal teatro del Mediterraneo a quello, sempre più caldo, del mare della Cina e il lavoro dei servizi segreti egiziani nella Striscia di Gaza è un utile strumento di mediazione. Elementi talmente indispensabili che le divergenze tra il Cairo e Washington sui diritti umani e democrazia sono state riposte nell’armadio, insieme ad altri scheletri. Tono conciliante, almeno a parole, persino con Netanyahu. Il quale dopo la formazione del governo di estrema destra è stato messo sotto osservazione da Biden. Seppure i due si conoscono da tempo, e siano amici, il presidente americano sa benissimo di non potersi fidare. Netanyahu è un principe di machiavellismo, difficile da contenere. Spregiudicato al punto da essersi contornato da un miscuglio di nazionalisti, ortodossi religiosi, razzisti e neofascisti, che rendono la sua nuova ricetta di governo imbarazzante e pericolosa. Comunque, se dovesse sopraggiungere la burrasca è chiaro che la Casa Bianca non arretrerà di un metro dal processo di “normalizzazione” degli stati arabi verso Israele, introdotto da Trump con gli Accordi di Abramo. Peccato, come abbiamo scritto altre volte, che in quello schema logico manchino ancora dei tasselli, non ultimo quello della presenza dei palestinesi. Ai quali gli USA hanno riaperto i rubinetti dei fondi, dopo l’interruzione degli aiuti della precedente amministrazione. Che considerò insolente il rifiuto di Abu Mazen a sedersi al tavolo delle trattative, e per questo l’ha punito in modo esemplare. Ora i rapporti sono decisamente migliorati, ma sussiste qualche latente frizione. Biden, ad esempio, non ha gradito il silenzio della Muqata sul recente attentato alla sinagoga di Neve Yaakov, quartiere della periferia di Gerusalemme. Condanna che Abu Mazen non avrebbe pronunciato trincerandosi dietro il “suicidio politico” per l’accresciuta rabbia palestinese dopo i fatti di Jenin. L’erede di Arafat avrebbe però confermato che l’Autorità palestinese è pronta a riprendere il coordinamento sulla sicurezza con Israele appena gli animi si saranno placati. Pare lampante che la debolezza di Abu Mazen nel mantenere ordine è un altro punto dolente e serio della questione.
Mentre, sul fronte opposto il governo di Netanyahu in risposta all’ondata terroristica che ha sconvolto il Paese ha approvato una serie di misure punitive, dal dubbio effetto. In un sondaggio condotto da iPanel lo scorso novembre la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non credere che Netanyahu sia in grado di combattere il terrorismo. Pessimisti? No, è semplicemente la realtà.
PASSEGGIATA IRRESPONSABILE
Il ritorno di Netanyahu al potere e la passeggiata del neo-ministro Itamar Ben-Gvir (in occasione del giorno di digiuno ebraico per il lutto degli eventi che hanno portato alla distruzione del Tempio) hanno riacceso i timori del regno hashemita sul futuro della custodia della Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio nella toponomastica ebraica) a Gerusalemme. Sito gestito da una fondazione (Waqf) facente capo proprio alla famiglia reale giordana. I giordani, come del resto i palestinesi, sono convinti che l’attuale esecutivo israeliano abbia l’intenzione di cambiare lo status quo del terzo luogo sacro per l’islam, dopo la Mecca e Medina. In quel rettangolo all’estremità nord della Città Vecchia, dove in passato si ergeva il luogo di culto più importante per l’ebraismo, la tradizione musulmana narra sia avvenuto il viaggio notturno del profeta Maometto in cielo: «Gloria a Colui Che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota, di cui benediciamo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui Che tutto ascolta e tutto osserva» (Corano, Sura Al-Isrâ’). Da anni quel lembo di terra è oggetto di contesa, tensioni e violenze.
Le aspre condanne che in queste ore sono state espresse a Ramallah, Gaza, Amman e Beirut in risposta alla visita di Ben-Gvir sono un chiaro avvertimento a non sovvertire i delicati equilibri che regolano la Città Santa (al-Quds in arabo). La sottile linea rossa che porterebbe ad una inevitabile “guerra santa” è il caso in cui Israele travalicasse, facendo crollare la moschea di al-Aqsà per ricostruire il terzo Tempio. Di questo si parla e straparla da tempo, la nostra convinzione è che ci siano delle evidenti strumentalizzazioni propagandistiche (strettamente politiche e poi religiose), che continuano ad autoalimentare falsità e fomentano l’odio. La verità storica che risale al conflitto dei Sei Giorni, come scriveva Benny Morris, è che «I Luoghi Santi di Gerusalemme sarebbero stati governati in base agli accordi pre 1967, ma con libertà di accesso per tutti. Appena, raggiunto, il 7 giugno, il Sacro recinto (il Haram al-Sharif), Dayan ordinò ai paracadutisti di togliere una bandiera frettolosamente issata sulla Cupola della Roccia. L’amministrazione e la sicurezza del sito fu lasciata in sostanza al Wafk, il fondo religioso musulmano, anche se l’IDF ebbe il controllo di una Porta per vegliare sul viavai civile e turistico nell’Haram». Di pari passo con l’approccio del generale Moshe Dayan è andata tuttavia prendendo forma la strategia di Yigal Allon, che architettava la trasformazione di Gerusalemme quale capitale inalienabile dello stato ebraico. Ripopolando il quartiere ebraico tra le mura e circondando la parte “araba” con un anello di nuovi sobborghi israeliani: «Se non cominciamo entro un giorno o due, non cominceremo mai». Nel corso degli anni le “passeggiate” dei politici (ed estremisti nazionalisti) israeliani nel complesso della Spianata sono state simboliche e provocatorie. Come avvenne con Sharon nel 2002 trasformandosi in accesa conflagrazione, esplosa in Intifada.
Il gesto della camminata del capo del partito razzista Oztma non è una novità del personaggio. Nel 2006, Ben Gvir venne fermato dalla polizia mentre organizzava il sacrificio di Pesach. Nel 2017, l’allora avvocato sostenne legalmente il movimento di destra radicale denominato Chozrim Lehar (Ritorno al Monte): «È inimmaginabile che le persone vengano arrestate nel cuore della notte perché vogliono eseguire un comandamento religioso ebraico», la difesa di Ben Gvir. Diventato assiduo scorrazzatore tra le pietre del “sagrato” prima della sua ultima “bravata”, circa tre mesi fa, si era recato nella Spianata per celebrare il capodanno ebraico di Rosh Hashanah. Nonostante la retorica Ben Gvir ha formalmente siglato accordi di governo che negano alterazioni dello status quo di Gerusalemme. I fatti indicherebbero il contrario di quanto stipulato con Netanyahu. Il quale il giorno precedente ha avuto un inatteso colloquio proprio con Ben-Gvir riguardo alla sua intenzione di recarsi all’Haram. Poco si è saputo di quanto discusso tra i due alleati. Ancora meno del tono del confronto e della reazione di Bibi alle pretese del suo ministro della Sicurezza nazionale. Comunque, se re Netanyahu avesse effettivamente messo un veto è palese che il suo ordine sia stato sbeffeggiato. Così, non pare. Bibi non ha perso la faccia e tantomeno le briglie. Ma la sua abilità di alchimista, con questo esperimento politico, genera profonde preoccupazioni alla Casa Bianca.
IL RE E’ TORNATO
In Israele Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni politiche della XXV legislatura alla Knesset. Il falco della destra e il blocco che lo sosteneva hanno ottenuto la maggioranza qualificata dei seggi, numeri utili a formare in tempi brevi un esecutivo.
Dopo la parentesi che lo aveva visto relegato all’opposizione del governo di Naftali Bennett, prima, e Yair Lapid, poi, il ritorno di Netanyahu sul trono di Gerusalemme avviene per effetto dello spostamento decisamente a destra dell’asse politico. Il suo partito, i conservatori del Likud, è risultato ancora una volta di gran lunga la prima forza.
Ma il vero vincitore di questa tornata elettorale (la quinta in tre anni) è la lista nazionalista di estrema destra Sionismo religioso, di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Figure fino a ieri marginali nell’agone politico ed oggi balzati alla ribalta assestandosi come il terzo raggruppamento del parlamento, indispensabili alla nascita del Netanyahu ter. Il prossimo esecutivo oltre alla formazione citata avrà il sostegno dei due partiti dei religiosi ultra-ortodossi, Shas e United Torah Judaism.
Al momento, l’intenzione di Netanyahu è quella di accelerare il passaggio delle consegne dal rivale Lapid. Agenda alla mano, e nel rispetto delle procedure istituzionali, il presidente Herzog potrebbe dare presumibilmente l’incarico al leader del Likud già la prossima settimana, o al massimo entro il 16 Novembre se le consultazioni dovessero slittare. A quel punto rimarrebbero a Netanyahu i fatidici 28 giorni per chiudere la formalità della squadra di governo (e delle poltrone da assegnare).
Ben-Gvir e Bezalel Smotrich forti del risultato di consenso reclamano il diritto ad avere portafogli di prima fascia: sicurezza e giustizia. Lasciare a queste due “esuberanti” personalità campo libero sia nel controllo della polizia che dell’amministrazione giudiziaria (civile e penale) potrebbe tuttavia essere un azzardo, che mette a serio rischio la tenuta del sistema democratico israeliano. Il garante di questa operazione che a vario titolo riguarda i futuri rapporti tra religione e stato, arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi, è il navigato, e pratico, Netanyahu. A cui non mancano capacità ed esperienza. A preoccupare è che in linea con il trend del voto il rafforzamento del carattere ebraico di Israele venga manipolato per restringere diritti e libertà. Ad esempio, sulla questione della giustizia si parla con insistenza di stravolgere l’impianto esistente, depotenziando la Corte Suprema e riducendo l’autonomia dei magistrati.
Un altro fattore da non sottovalutare è il disagio statunitense nei confronti di questa tipologia di ministri. La Casa Bianca non pare avere intenzioni dialoganti, se non arretrano nelle posizioni. Intanto, Biden ha impartito il diktat che non si cambia di una virgola sia il trattato marittimo con il Libano che gli Accordi di Abramo con le monarchie del Golfo. Altrimenti, l’alleanza si incrina rovinosamente. Infine, se vi chiedete cos’è stato del polo anti-Netanyahu, beh è finito ancora prima di cominciare, sepolto nelle urne.
5783
Manca oramai poco meno di un mese al voto in Israele, che anticipa qualche giorno le elezioni di midterm statunitensi. Il 1 novembre 2022 sarà la quinta volta che gli israeliani tornano alle urne in meno di 4 anni. Nei recenti sondaggi i due principali blocchi, quello pro e quello anti-Netanyahu, non ottengono la maggioranza qualificata 61 seggi. La coalizione di destra che sostiene il falco del Likud sarebbe comunque leggermente sopra gli avversari.
In generale i sondaggi accreditano il partito di Netanyahu primo nel Paese, con almeno 8 seggi di vantaggio sulla forza Yesh Atid, guidata dallo sfidante e attuale premier ad interim Yair Lapid. Staccati di molte lunghezze le altre compagini che compongono il panorama politico della futura Knesset. Dove entreranno a rinforzare le file dell’uno o dell’altro schieramento: ortodossi religiosi, nazionalisti, centristi, ex-likud ed ex generali, laburisti, sinistra sionista e movimenti arabi. Oh almeno ci sperano.
Gli israeliani, secondo quanto si evince dal canonico sondaggio della vigilia del capodanno ebraico (che ha segnato l’inizio del 5783), si aspettano un anno migliore di quello passato. Con un cauto ottimismo l’opinione pubblica crede che le cose andranno meglio o al massimo non peggioreranno (59% degli intervistati). Il 21% invece è convinto del contrario. Mentre, il 20% attende di vedere i prossimi sviluppi, a partire proprio dall’esito delle incombenti elezioni politiche.
Il prefigurare della perdurante instabilità è avvertita da Ronen Bar, direttore dello Shin Bet (agenzia dell’intelligence per gli affari interni), come un problema preoccupante per le dirette conseguenze sulla sicurezza del Paese. L’immagine di uno stato che dal 2019 non riesce a trovare una quadra, e allo stesso tempo vede crescere esponenzialmente le divisioni, è sintomatica di un malessere esistente, diffuso e condiviso con altri stati occidentali.
Nel caso israeliano tuttavia le ramificazioni della crisi politica potrebbero comportare ricadute a breve termine sul piano regionale, Hezbollah e Iran sono un assillante imprevedibile pericolo alla porta. Ma non l’unico, da mesi i funzionari della sicurezza israeliana infatti continuano a porre la questione dell’implosione in atto nella Cisgiordania. La Muqata di Ramallah replica accusando a sua volta i continui raid militari dell’IDF come elemento delegittimante del proprio ruolo. Sul piano internazionale l’amministrazione Biden non nasconde i propri timori per il rapido deterioramento del contesto.
Palestinesi ed israeliani non hanno alternative che trovare un punto comune d’incontro che vada oltre lo status quo attuale e le pretese ingiustificabili. Il crollo dell’Autorità palestinese può avvenire da un momento all’altro. In queste settimane il premier, in scadenza, Lapid ha rilanciato sul piano diplomatico la soluzione dei due stati, ma anche in questo caso il consenso popolare all’idea è molto basso. A Gerusalemme vale come del resto a Roma il motto omnia cum pretio. E non tutti, di qua e di là dal muro sono disposti a pagarlo per raggiungere la pace.
MELA MARCIA NEL CESTO DI BIBI
«L’Ortodossia israeliana sta scadendo nella depravazione». A porre la questione, al centro del dibattito della campagna elettorale in corso, non è la solita voce laica degli intellettuali di sinistra, bensì il rabbino Eric H. Yoffie, già presidente dell’Unione per l’ebraismo riformato (URJ) del Nord America. Il quale, in una lunga lettera pubblicata sul quotidiano Haaretz, denuncia l’ascesa del fanatismo della destra kahanista e il pericolo di un loro successo nelle urne. Yoffie si scaglia apertamente contro un approccio politico involutivo e abominevole, che si riconosce in uno dei personaggi più controversi dell’ebraismo contemporaneo: Meir Kahane, rabbino e politico di origine newyorchese. Fomentatore di teorie razziste. Pensatore impregnato da una visione tanto apocalittica quanto vetero fascista, che arrivava a giustificare teologicamente la violenza contro i palestinesi, la supremazia ebraica e l’annessione territoriale della Palestina. Kahane, assassinato brutalmente in una strada di New York, agli inizi degli anni ’90, da un gruppo terroristico jihadista riconducibile alla nascente al-Qaida, era motivato da un profondo spirito anti-comunista e, allo stesso tempo, anti-democratico. Sostenitore della guerra in Vietnam, che considerava una crociata decisiva per frenare l’espansione globale del marxismo: «Il comunismo è per l’anima ebraica ciò che il nazismo era per il corpo». Riteneva, che la vittoria dei marines sul fronte asiatico avrebbe assicurato maggiore sicurezza ad Israele e protetto gli ebrei dai pericoli dell’antisemitismo sovietico. A partire dagli anni ’70 è in Israele, dove darà vita all’esperienza del partito Kach, una minuscola e marginale formazione definitivamente bandita nel 1994. L’eredità tossica lasciata da Kahane, dopo la sua scomparsa, ha tuttavia continuato ad aleggiare come uno spettro nel panorama israeliano, lievitando, nemmeno troppo sotto traccia, tra i settlers, che risiedono all’interno della Linea Verde del ’67. La mostruosa faccia del kahanismo è svelata al mondo il 25 febbraio 1994, quando Baruch Goldstein, devoto seguace alle tesi del maestro, compie nella moschea della Tomba dei Patriarchi ad Hebron il massacro di 29 palestinesi. Tale tragico episodio produsse una reazione critica in particolar modo nelle comunità ebraiche americane, che maturano allora allarmistica apprensione nei confronti della svolta del radicalismo violento, quale forma di redenzione spirituale. Riconoscendo che a causa della troppa tolleranza tale estremismo ideologico aveva trovato uno spazio vuoto dove affrancarsi: «Non fa differenza quanto sia “irrisorio” il numero dei seguaci di Kahane, se le loro dottrine si irradiano. E lo fanno!». Ha scritto il rabbino Hillel Goldberg. La mela marcia è finita dentro al cesto, e se non estirpata l’inquietante prospettiva è che domani questo lato oscuro diventi il riferimento culturale (e politico) sia dell’ala nazional-religiosa sionista che di quella degli ortodossi haredim. Le prossime elezioni politiche del 1 Novembre (le quinte in tre anni e mezzo) stanno riportando in auge questo disegno politico (e culturale). Lavorano alla sua realizzazione due noti politici israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ciascuno con un proprio partito, Otzama Yehudit (“Potere Ebraico”) e Tkuma (“Rinascita”), ma che fusi insieme (come hanno annunciato in queste ore) nel Religious Zionist Party, sono accreditati nei sondaggi come terza compagine nella prossima Knesset. Il loro elettorato di base è quello della sfera del sionismo (o post-sionismo) religioso, a cui fa riferimento anche il partito nazionalista Yamina, recentemente passato di mano dall’ex premier Naftali Bennett ad Ayelet Shaked, e crollato nei sondaggi (rischiando di essere escluso dal futuro parlamento). Garante dell’avvento dei neo kahanisti non poteva non essere che Benjamin Netanyahu. Quella comunità è il suo alleato naturale, sono veri e propri satelliti che ruotano intorno alla sua orbita e compongono la sua galassia. Sempre disponibile ad accoglierli a braccia aperte perché è sicuro di poterli gestire. Senza poi peritarsi a sbranarli nella forsennata ricerca di raggranellare consensi dell’ultimo minuto. Ciò non toglie che per Bibi siano un’interlocutore privilegiato. Nella sua ideale architettura di potere sono la seconda gamba di un modello politico con al vertice il Likud, e a chiudere il triangolo i partiti tradizionali religiosi: i “custodi sefarditi” di Shas e quelli ashkenazi di Giudaismo Unito nella Torah (UTJ). Nel loro insieme sono il blocco Netanyahu, che sfiora la maggioranza in Israele. In un paese che ha virato decisamente a destra, e che se non fosse per “amicizie profondamente lacerate” (su cui ha influito non poco il carattere di re Bibi) lo vedrebbe al governo, incontrastato. Chi invece non avrebbe gradito di essere minimamente accostato a Kahane era lo storico esponente del Likud Yitzhak Shamir, ogni qual volta il leader di Kach saliva sul podio della Knesset lui lasciava l’aula. Ma Netanyahu non è Shamir. Il più longevo primo ministro di Israele ha collaudato un suo personale tavolo di scambio. Salda la lealtà dei partiti religiosi elargendo poltrone. Mantiene in spalla il fardello di Ben-Gvir e Smotrich, per necessità. Gli adepti kahanisti fino ad oggi non lo hanno preoccupato più di tanto. Le geometrie in campo però sono mutevoli e nel ricatto delle richieste il piatto in gioco potrebbe diventare insostenibile.
L’ESTATE DELL’ANTI-BIBI
Qualche ritardo “tecnico” nella procedura di voto e alla fine la Knesset ha approvato il suo scioglimento. Indette le prossime elezioni per il 1 novembre 2022, le quinte in meno di quattro anni. Naftali Bennett, dopo un anno vissuto intensamente da primo ministro, ha passato – in virtù dell’accordo di rotazione – il testimone al ministro degli esteri Yair Lapid. Cinquantottenne, già volto noto della televisione, sottile politico capace di realizzare e tenere in piedi per dodici mesi la maggioranza più impensabile della storia di Israele: destra nazionalista, conservatori, liberali, laburisti, sinistra sionista (ormai effimera) e islamici. In termini pratici un’alleanza che dai pro-coloni di Yamina arrivava fino all’appoggio del partito arabo filo Hamas di Ra’am. Passando tra russofoni, ex generali e associazioni Lgbt+ di casa nel Meretz.
Progetto o miracolo politico, destinato (sospettiamo che lo immaginasse anche lui) prima o poi a inevitabile implosione. Tuttavia, una realtà alternativa alla monarchia di Bibi Netanyahu. Questo, il merito riconosciuto in modo unanime a Lapid. Adesso, più che mai, scoperto anche come talento profetico del campo di centro-sinistra, mondo di per sé nostalgico di una guida carismatica in grado di traghettare il paese fuori dall’era Netanyahu. A fare breccia nei cuori degli elettori, orfani di Rabin, non è stato tanto il suo manifesto ideologico (assai vago) quanto la determinazione nel rendere possibile il sogno del cambiamento. Lapid ha dimostrato di saper rivaleggiare con l’avversario Netanyahu sul terreno a lui più consono: maneggiare, saldare e bilanciare gli assetti del panorama politico israeliano. E così il “piccolo principe” ha scalfito l’invulnerabilità del re, appropriandosi, momentaneamente, del trono di Israele.
Anni fa su Hareetz il giornalista Asher Schechter scrisse di lui: “Il suo successo dice molto su Israele, più che su Lapid stesso. Candidato con zero esperienza politica e nessun tema da approfondire, il suo unico punto di forza è la popolarità, potrebbe diventare uno dei più grandi attori politici da un giorno all’altro. Lapid è l’ultima personificazione di una sfera politica ossessionata dalla celebrità, dove i partiti cercano di reclutare giornalisti, atleti e altri personaggi pubblici con il loro seguito di riflettori”. Ancora più tagliente fu Martin Sherman in un articolo apparso nel Jerusalem Post: “Yair Lapid è l’uomo più pericoloso della politica israeliana di oggi, uno sciocco di bell’aspetto, carismatico, troppo sicuro di sé, un ignorante affabile privo di dignità intellettuale e qualsiasi principio morale, ma con il dono di una lingua d’argento e l’inconfondibile – e in gran parte non mascherata – inclinazione per la demagogia e la dittatura”. Allora, furono numerose e imbarazzanti le gaffe che lo esposero al bersaglio della critica, e della facile ironia. La sua immagine però non si indebolì anzi … fu l’inizio dell’ascesa.
Ufficialmente entra in politica nel 2012, dando vita all’esperienza del movimento Yesh Atid (C’è Futuro). Nel debutto alle elezioni legislative del 2013 ottiene 19 seggi. Diventando il secondo partito della Knesset. Una breve esperienza nel governo Netanyahu e tanta opposizione. Di cui diventa capo di fatto nel 2020. Nell’ultima tornata elettorale, a marzo del 2021, si attesta al 13,9% dei voti, che gli garantiscono 17 parlamentari. Il resto è storia dei giorni nostri.
Per un decennio Lapid ha, tranne la parentesi di coabitazione nella lista elettorale Blu e Bianco con Gantz, gestito in modo personalistico Yesh Atid. L’unica volta che si è palesata la prospettiva di primarie interne nessuno ha osato sfidarlo apertamente. Ideologicamente si definisce di centro, equamente distante sia dalla sinistra che dalla destra. A meno che per destra non si intenda Netanyahu, nel qual caso incarna perfettamente il ruolo di eroe del centro-sinistra.
Lui, figlio dell’élite liberal-sionista di Tel Aviv, affermatosi nel solco delle orme lasciate dal padre “Tommy”, autorevole giornalista ed esponente di spicco del partito Shinui. Rigoroso intellettuale del pensiero laico, dal quale il figlio si è discostato per approdare ad una linea più morbida, che “integra valori dell’ebraismo e della democrazia”.
Come capo della diplomazia israeliana ha ospitato lo storico vertice con Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto. Stretta la collaborazione, e l’amicizia, con il segretario di Stato americano Antony Blinken. Nel conflitto ucraino è schierato al fianco di Kiev, con meno moderazione e tatto rispetto a Bennett. Ora non resta che capire se impronterà la prossima campagna elettorale andando a spolpare la sinistra, rinforzandosi a destra o cercherà di erodere gli opposti rimanendo fermo al centro, sapendo di essere l’unico collante che può tenere insieme tutti, contro l’eterno Bibi Netanyahu.