NIDAA

Montecatini, la bella cittadina termale della Toscana, ospita in questi giorni l’artista palestinese Nidaa Badwan. Nelle sale del MO.c.a., il museo di arte contemporanea che trova spazio nel novecentesco Palazzo comunale, è allestita la retrospettiva fotografica dal titolo 100 Giorni di Solitudine: 20 immagini realizzate dalla giovane palestinese durante l’isolamento nella propria casa a Deir Al Balah. Autoritratti, scatti studiati, simmetrie geometriche, natura morta, contrasto di colori accesi e chiaroscuri. “Da quando sono in Italia molti mi ripetono che stilisticamente richiamo il Caravaggio”, commenta sorridendo Nidaa. Le sue foto ritraggono l’artista in pose naturali e talvolta intime, riletture della pittura classica e d’avanguardia, scene neoclassiche dove è incorniciata la quotidianità della vita di una donna araba, chiusa nella sua stanza, nel centro della Striscia di Gaza. In fuga dal conflitto e dal fondamentalismo. “Sono stata privata per mesi della socialità ma non mi è mai mancato l’affetto degli amici e della mia famiglia. Racconta Nidaa e aggiunge: “Durante il mio isolamento ho avuto il tempo di studiare, in particolare la luce. Vorrei che la mia stanza possa portare la felicità a tanti come ha fatto per me”. Accusata dalla polizia di Hamas di essere “diversa” per lo stile dell’abbigliamento indossato, per la fede cristiana, per essere una donna e artista. Fermata, picchiata e molestata per strada dagli aguzzini del regime, spaventata e indifesa sceglie la reclusione nel luogo a lei più caro e sicuro, la sua coloratissima stanza. Così decide di chiudere dietro di se la porta che la divide dai disastrosi bombardamenti israeliani, dalla feroce violenza integralista e dalla miseria del maschilismo. Nidaa Badwan è stata vittima dell’integralismo più becero e perverso, è cresciuta nell’occupazione israeliana, ha visto con i suoi occhi i conflitti che si sono susseguiti in questi ultimi anni, in quella piccola parte del mondo, ma non si è arresa e ha reagito alla paura sprigionando una forza interiore che ha canalizzato nell’arte, nella fotografia. “È il mio modo di essere libera, di parlare della libertà. A Gaza per mesi ho vissuto nella speranza di veder realizzato il mio sogno, la mia idea artistica”, dice Nidaa con voce fioca nell’orecchio dell’interprete. Quando scioglie la treccia il lungo ciuffo di capelli castani scende a coprire l’occhio destro, lo sguardo è sbarazzino e leggermente confuso, non è impaurita ma visibilmente felice, indossa i suoi amati jeans e porta al collo una croce. “Ogni ragazza palestinese ha la sua storia da raccontare, fatta di scelte talvolta difficili. Io sono pronta a morire per la mia libertà.” Nidaa è una giovane ventottenne che proviene da un contesto amaro e duro. Lasciare la Striscia di terra palestinese è un sogno proibito per molti. Il valico con l’Egitto a Rafah è quasi perennemente chiuso. Mentre il passaggio di Eretz in Israele è off limits per i giovani palestinesi. Più volte la richiesta di Nidaa di raggiungere Gerusalemme è stata respinta dalle autorità israeliane. Questa volta, non senza problemi, ritardi e rimandi ha visto finalmente la porta di Gaza aprirsi. È uscita dalla prigione più grande al mondo per giungere in Italia, nel cuore della Toscana e partecipare di persona, per la prima volta nella sua vita, ad una sua mostra. A Montecatini è stata accolta calorosamente dai cittadini, la scalinata del Comune che porta alle stanze del museo è gremita di persone. Nidaa è una celebrità e la sua storia sta appassionato il mondo, il New York Times le ha dedicato la prima pagina. Ci sono i ragazzi delle scuole della Valdinievole che insieme a lei, poco dopo, prenderanno parte alla marcia della pace. Intanto Nidaa al fianco dell’assessore alla cultura Bruno Ialuna visita la mostra sotto i riflettori delle televisioni. Il progetto della fotografa palestinese resterà a Montecatini per 100 giorni, poi il Comune di concerto con l’artista è pronto a portare la mostra in Italia e nel mondo.

FRANCESCO AL PALAZZO DI VETRO

Nei prossimi giorni New York ospiterà la 70° sessione dell’assemblea generale dell’ONU. È l’assemblea più importante al mondo, l’unica, teoricamente, in grado di cambiare il verso alla storia. È la bilancia dei poteri internazionali, il teatro della politica e per certi versi il tribunale della fragilità diplomatica, con la sua bandiera, le sue agenzie e il suo esercito. Criticata, talvolta a ragion veduta, per essere risultata ininfluente, limitata nelle azioni e lenta nel prendere decisioni importanti, resta però di fatto l’organo vigile che rappresenta i popoli, tanti, di questo pianeta. Sino al prossimo 6 Ottobre il Palazzo di Vetro apre le porte ai capi stato di repubbliche e monarchie, democrazie e dittature. Le delegazioni internazionali entreranno nell’emiciclo e prenderanno il posto assegnato, si vedranno le immancabili cuffie e il vociare nelle diverse lingue del mondo. Intanto, venerdì 25 Settembre toccherà a Papa Francesco salire, per la prima volta, sul podio. Con il suo stile di comunicazione affabile e coinvolgente, chiaro e diretto il Pontefice spiegherà ai rappresentati delle nazioni la sua visione del Mondo. Così come in questi mesi ha espresso il suo disegno ideale d’Europa, centrata sull’accoglienza ai migranti, indicando la strada dell’integrazione per un futuro migliore: porte aperte e non muri di filo spinato. Anche contro le tante incertezze che volteggiano nella sua casa, dalle ostilità della gerarchia ecclesiastica alle “lentezze” di quella parte periferica episcopale della Chiesa dove la “primavera” di Francesco tarda a sbocciare. Il percorso intrapreso da Bergoglio è tutto nel segno del riformismo, censore delle distorsioni del paradigma capitalistico, avverso alla globalizzazione dell’indifferenza, agli imprenditori di morte, alla corruzione e alle disuguaglianze. Qualche mese fa, in modo inaspettato, ha lanciato un monito sul clima, inquadrando attentamente la crisi ambientale di questo secolo. Tema affrontato nell’Enciclica Laudato Si: “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare”. La via indicata è lo sforzo comune nella lotta alla povertà. Il compito dei credenti, ma non solo, è custodire il pianeta: salvando le specie viventi, rispettando l’equilibrio e superando le ingiustizie. Migliorando la gestione dei rifiuti e riducendo l’inquinamento atmosferico. Con maggiore responsabilità da parte di tutti. La radice teologica del Santo Padre è nel richiamo alla vita e al creato, due doni assolutamente gratuiti di Dio all’uomo, che l’uomo per l’appunto dovrebbe rispettare perché non sono suoi e dovrà un giorno inequivocabilmente restituirli. Mentre per quanto riguarda l’aspetto politico l’interpretazione del pontefice è in linea con gli accordi di Durban e il protocollo di Kyoto ma non con quelle superpotenze mondiali che ne prendono le distanze sottovalutando i rischi ambientali. Comunque, il 25 settembre, in quel luogo deputato a risolvere le grandi questioni, il “sovrano” del piccolo Stato del Vaticano siamo sicuri lascerà un segno. Come fece nel 1995 un suo predecessore, Giovanni Paolo II, invitato a partecipare alle celebrazioni per i 50 anni dalla fondazione delle Nazioni Unite. In quel breve messaggio colse l’importanza di quel momento storico: “Alle soglie di un nuovo millennio siamo testimoni di una straordinaria e globale accelerazione di quella ricerca di libertà che è una delle grandi dinamiche della storia dell’uomo.” Per poi ammonire: “Quando milioni di persone soffrono la povertà -che significa fame, malnutrizione, malattia, analfabetismo e degrado- dobbiamo non solo ricordare a noi stessi che nessuno ha il diritto di sfruttare l’altro per il proprio tornaconto, ma anche e soprattutto riaffermare il nostro impegno a quella solidarietà che consente ad altri di vivere.” Libertà, pace e cooperazione erano allora d’attualità. Il dibattito in questi venti anni non è cambiato molto, nuovi problemi si sono affacciati così come nuovi e terribili conflitti infiammano il globo. “L’urgenza della pace” per la quale come dice Papa Francesco “non bastano parole” è il dilemma, il compito non ancora risolto dell’ONU. Infine, una piccola ma significativa nota: a sventolare dal Palazzo di Vetro, dopo anni di attesa, ci sarà una bandiera in più, quella della Palestina. E la cosa farà sicuramente piacere al Santo Padre.

TUTTI I DUBBI DEL PRESIDENTE

La prima visita ufficiale del presidente israeliano Reuven Rivlin in Italia, avvenuta la scorsa settimana, è stata contrassegnata da un profilo mediatico con riflettori bassi, quasi spenti. Tuttavia, durante gli importanti colloqui qualche magagna è arrivata all’orecchio del presidente. In particolar modo il successore di Shimon Peres ha dovuto registrare dissenso all’operato del governo e alle scelte personali del suo Primo Ministro Netanyahu. La costruzione del Muro di separazione nella Valle di Cremisan, a Beit Jala vicino a Betlemme ha innervosito il Vaticano. Il patriarcato latino di Gerusalemme ha espresso critiche pesanti, parlando apertamente di “un insulto alla pace”. Non meno spigolosa la questione della nomina ad ambasciatrice di Israele in Italia di Fiamma Nirenstein (giornalista, ex parlamentare PDL, candidata con una propria lista alle passate elezioni della comunità ebraica romana ma che vive in Israele da tempo a Gilo, oltre la linea verde del ’67). La scelta dell’incarico alla Nirenstein è stato espressamente voluto da Netanyahu, provocando la reazione della comunità ebraica italiana dove la decisione ha trovato pochi consensi e tanti malumori finiti in queste ore sulle prime pagine della stampa nazionale ed internazionale. Problemi “marginali” se confrontati con lo scenario della Terra Santa dove la tensione è salita ad un punto di ebollizione. L’ala estrema del movimento dei coloni lancia azioni terroristiche a tappeto, compiendo aggressioni armate contro civili palestinesi, danneggiando le loro proprietà, in una diffusa impunità dalla legge. Gli scontri tra la polizia e i giovani palestinesi di Gerusalemme Est sono ormai all’ordine del giorno, come durante i giorni della prima Intifada. La navigazione per la risicata maggioranza governativa è a vista, l’attuale governo di Netanyahu, forse quello più marcatamente di destra della storia di Israele, appare un ensemble di nazionalismo e ortodossia religiosa mescolata a conservatorismo. In alternativa resta sullo sfondo lo scenario del ritorno alle urne il prossimo anno oppure la costruzione di un governo di larghe intese, caldeggiato da Rivlin. Non è un segreto che non ci sia mai stato feeling tra il presidente Rivlin e il primo ministro Netanyahu. Bibi lo scorso anno ha tentato inutilmente di contrastare l’elezione di Rivlin, il quale pare non aver ancora dimenticato lo sgarbo del collega di partito. Tuttavia i due, in questi mesi, hanno mantenuto, almeno di facciata, un rapporto cortese. La luna di miele è terminata e l’ostilità è tornata in campo. A dimostrarlo il fatto che le due massime cariche dello stato israeliano non hanno una riunione di lavoro da due mesi. Il motivo del dissidio è direttamente imputabile alla condotta del governo israeliano nei confronti dell’amministrazione americana. Rivlin è fortemente preoccupato dei possibili danni della linea politica di Netanyahu alle relazioni di Israele con gli Stati Uniti. Fautore di un approccio più morbido nei confronti dell’amministrazione Obama il presidente d’Israele ha criticato la decisione di Netanyahu di affrontare il Congresso senza coordinarsi con la Casa Bianca, in quello che passerà alla storia come l’ultimo atto dello scontro Obama-Netanyahu. “Israele riesce decisamente bene nell’obiettivo di mantenersi in vita, ma si tratta di uno sforzo che non conosce fine poiché minacce esistenziali come quella del nucleare iraniano e pericoli più contingenti ma comunque gravi come quello del terrorismo fondamentalista, la impegnano in modo costante. Ciò che dovrebbe risolvere tale situazione sarebbe il conseguimento della pace con i palestinesi e con il mondo arabo, ma in questo finora il sionismo ha fallito. È chiaro che in questo caso la partita non dipende da un solo giocatore: per fare la pace è necessaria una controparte che sia d’accordo nello stipularla e mantenerla. E per assurdo, storicamente, la parte che più la ostacola è anche quella che soffre maggiormente della sua mancanza.” Questa l’analisi del politologo israeliano Avraham Diskin, professore con forte ascendente sul presidente Rivlin. Diametralmente opposta invece la lettura della sociologa arabo-israeliana Khawla Abu Baker: “Purtroppo è innanzi tutto l’approccio politico dell’opinione pubblica generale israeliana a non essere cambiato: il governo non dà nessuna speranza di cambiamento. Per Israele è come se tutto fosse iniziato il giorno della firma di Oslo e tutto ciò che era avvenuto prima non sia mai avvenuto, sia stato cancellato. Ma la pecca maggiore di Oslo è in ogni caso, che tutto è stato fatto a livello di leader ma i popoli non sono stati coinvolti. Le ferite sono rimaste aperte e hanno impedito la penetrazione dell’iniziativa all’interno dei popoli. I settori delle società che sono stati coinvolti sono stati i convinti e non è stato fatto nulla o quasi per convincere i contrari.” Almeno una persona si è convinta della necessità del dialogo per portare alla nascita di due Stati in pace, quell’uomo è Rivlin. Ieri era un falco del Likud contrario ad uno Stato palestinese oggi è la colomba che vola sul cielo del Medioriente.