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IL GOLFO DEGLI EMIRI IN LOTTA

Il Golfo si spacca, una rottura senza precedenti tra gli Stati arabi sta segnando queste ore. È crisi diplomatica tra Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Yemen ed Egitto che interrompono i rapporti con il Qatar, isolandolo. Doha è accusata di collusione con il terrorismo internazionale, finanziando gruppi islamici fondamentalisti e alimentando l’ideologia jihadista attraverso i media nazionali e Al Jazeera. È una nuova fase di preconflitto per il dilaniato Medioriente.
Nel mezzo a tentare di abbassare i toni e contenere lo scontro gli USA di Trump, impegnati in una delicata operazione diplomatica di ricucitura delle relazioni. Il Qatar è una delle sedi strategiche delle forze aeree statunitensi. Proprio lì nel 2013 il Congresso di Washington ha autorizzato spese di decine di milioni di dollari per rafforzare l’edilizia militare nella base a stelle e strisce di Al Udeid. La crisi attuale è stata innescata, forse involontariamente, dal recente viaggio nella regione di Trump. Il sogno trumpiano di una grande coalizione sunnita in chiave anti sciita è tramontato ancor prima di concretizzarsi. Il fragile equilibrio arabo non ha retto alle dinamiche tribali di perenne contrapposizione. Gli affari commerciali di Trump con i custodi della Mecca e di Medina hanno finito per destabilizzare gli assetti politici e militari.
Era iniziata come guerra di narrativa, con i sauditi che accusavano i qatarioti di avere rapporti con gli iraniani e di sostenere attivamente sia Hamas che i Fratelli Musulmani. La spirale di tensione è salita nelle ultime ore sino al punto di criticità quando Doha, per voce della sua emittente più famosa e seguita al mondo, ha pubblicato la notizia che l’account dell’ambasciatore saudita a Washington era stato violato. Se il contenuto delle email dell’ambasciatore Yousef Al Otaiba, figlio dell’ex presidente dell’OPEC, dovesse trovare fondatezza, e non dimostrarsi invece parte del sistema di fabbricazione di notizie false oggetto del contenzioso tra i due stati arabi, per l’Arabia Saudita il problema diventerebbe caldo: le email hackerate, infatti, rivelerebbero l’ingerenza dei sauditi nel fallito golpe turco e la partecipazione diretta nell’estromissione del presidente Morsi in Egitto, dove avrebbero favorito il colpo di stato del generale al-Sisi. Porterebbero alla luce collegamenti tra le alte sfere di Riyad e una potente lobby americana vicina al premier israeliano Netanyahu. Svelando compromettenti connessioni con il jihadismo globale. Manovre di geopolitica locale, in una cornice assai più ampia, che mette sulla stessa bilancia accusati e contro accusatori. E se dietro le quinte entrambi, sauditi e qatarioti, fossero complici dell’Isis? Ad oggi non ci sono prove che sia il Qatar che gli emiri arabi stiano finanziando il Califfato islamico. E’ fuori di dubbio che capitali privati provenienti dal Golfo coprono il fondo, stimato intorno ai 2miliardi di euro, a disposizione del terrorismo. L’inchiesta sui flussi di denaro da Riyad a Londra per sovvenzionare l’integralismo islamico in Gran Bretagna è al centro di una lunga indagine commissionata dall’ex primo ministro Cameron e non ancora resa nota dalla premier May, congelata per la campagna elettorale ed a questo punto nella mani del prossimo premier. I paesi arabi del Golfo hanno tollerato, in un accordo verbale, la presenza di Al-Qaida e dell’Isis creando un buco nero dove le organizzazioni terroristiche islamiche hanno trovato terreno fertile.
Il blocco wahabita si è frantumato in un potenziale scenario di guerra che dividerebbe ulteriormente il già compromesso scacchiere libico, oltre che l’Occidente. La Russia prudentemente si tiene fuori dalla mischia. La Turchia si dice pronta a mediare, anche se Ankara propende per Doha. Greggio a basso costo, imponenti flussi d’investimento bancari, l’acquisto di prestigiosi e titolati club calcistici europei e asset del turismo, hanno strozzato in gola le proteste e le critiche delle capitali europee in questi anni. Ma il terrorismo e l’impennata del prezzo del petrolio potrebbero far finire l’amicizia e indurre a concrete azioni, Trump permettendo.