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I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

Israele e Palestina, racconti di morte e guerra

Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata. Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un’overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie. Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. Qualche colpa ce l’ha chi governa (e la politica), chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile. Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è una questione di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Una guerra, come scrivo da anni, che è logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non lo potete domandare sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza. La loro “sfortuna” è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? A Gaza tornerà la calma, ci sarà una nuova tregua che non durerà, e il disco rotto della violenza riprenderà a suonare. È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini. Ma non per morire insieme.

Enrico Catassi

LA FAVOLA E LA GUERRA

Se c’è una favola della tradizione di Esopo che ben rappresenta il conflitto israelopalestinese, è sicuramente quella dell’aquila e della volpe. Una storia di convivenza infranta, nel peggiore dei modi. Con l’aquila che per nutrire i propri aquilotti irrompe nella tana e divora i cuccioli della volpe. E gli aquilotti che caduti a terra e vengono sbranati dalla volpe. Il senso del triste racconto è che chi tradisce l’amicizia, anche se per superiorità di potere e forza, sfugge alla vendetta delle vittime, deve alla fine fare i conti con il fato crudele. Israeliani e palestinesi, come la volpe e l’aquila, non hanno alternativa ad accettare di vivere l’uno accanto all’altro e finchè non avranno trovato un modo civile per farlo, le colpe del loro scriteriato agire ricadranno sui più deboli: gli indifesi cuccioli della volpe e gli aquilotti, gli innocenti bambini di Gaza come quelli delle città nel Sud di Israele. In questi decenni abbiamo purtroppo imparato che la diplomazia internazionale e le risoluzioni dell’Onu non ottengono il risultato prefissato. Frecce spuntate, che escono da una faretra vuota. Ciò che manca sono contenuti concreti da portare al tavolo della trattativa per fermare il ciclo vizioso della guerra. Non è servito tentare di imporla dall’alto (ci hanno provato in pompa magna tutti gli ultimi presidenti statunitensi ed oggi è arrivato il turno anche dell’amministrazione di Joe Biden) e non ha funzionato provare a svilupparla dal basso (il campo dei pacifisti è isolato e da ambo i lati si è ampiamente assottigliato). Non sono bastati nemmeno gli aiuti internazionali, attraverso la cooperazione, i piani d’emergenza e quelli per il dialogo, progetti che finiscono per avere un effetto palliativo e mai risolutivo. Non serve essere pessimisti per affermare che il conflitto israelopalestinese è sfuggito di mano da tempo, e non può essere ricondotto ad un piano logico di “normali” relazioni senza uno sforzo enorme e comune. Altrimenti varrà ancora la massima andreottiana: “Temo proprio che non vedrò la pace in Terra Santa in questa vita… Sospetto che non la vedrete neanche voi”. Chi non la vedrà è Adham al-Taani, un bambino di Gaza, aveva sei anni e viveva a Beit Lahiya. Adham è morto insieme ai suoi familiari. Sepolto sotto un cumulo di macerie. Quando è stato estratto dalle rovine della sua casa con il capo chino e il corpo coperto di polvere era irriconoscibile. Non potrà più giocare Ido Avigal, israeliano, che di anni ne aveva cinque. Quando le sirene di Sderot hanno iniziato a suonare la madre ha pensato di proteggerlo nascondendolo nella stanza blindata, che la scheggia di un razzo ha perforato. È deceduto poche ore dopo in ospedale. La madre e la sorellina sono rimaste ferite. Queste non sono favole ma storie di quotidiana normalità in Medioriente, è la cruda realtà sempre dietro l’angolo. In un conflitto dove il nodo resta e resterà per sempre intricato se non si riesce ad incanalare i contendenti sulla strada di una vera soluzione basata sul rispetto dei reciproci diritti.

CONTENERE L’INCONTENIBILE

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu fa orecchie da mercante al richiamo di Joe Biden e non ferma la rappresaglia su Gaza. Seconda settimana di guerra. Respinto l’appello al cessate il fuoco del successore di Trump, apparso tardivo nella tempistica. Puntuale invece la consuetudine della Casa Bianca nel calare sul tavolo internazionale il diritto di veto a risoluzioni marcatamente anti-israeliane. In una guerra regionale intrappolata nella spirale di ideologie disfunzionali, dove si mescolano dottrine rigide, farcite di nazionalismo, fondamentalismo ed antisionismo. Di cui è impregnata la propaganda di Erdogan, autoproclamatosi difensore dei palestinesi per evidente tornaconto personale: risalire di popolarità e difendere Hamas. Che di alleati nello scacchiere ne conta parecchi. A partire dal legame di appartenenza alla famiglia della “Fratellanza musulmana”, di cui Hamas stessa è figlia. Rete che permette rapporti politici stretti con la Turchia ed aiuti economici dal Qatar, che offre anche asilo sicuro ai suoi vertici. Chi cerca maggior spazio operativo nella Striscia è l’Iran, che fornisce al regime di Gaza e ai jihadisti tecnologia militare, in cambio vorrebbe imporre strategia e obiettivi da colpire. In Libano Hezbollah ha messo mano alle armi, infiammando il confine con Israele. Il patto tra il partito di Dio di Nasrallah e il movimento terroristico fondato dallo sceicco Yassin è saldato nel nome della umma musulmana, sintesi della congiuntura tra sunniti palestinesi e sciiti libanesi. Improntato alla moderazione l’approccio della Giordania, non basta un drone abbattuto sui cieli israeliani a far precipitare le ottime relazioni. Re Abdullah, volente o dolente, il piede dentro la questione israelo-palestinese deve tenerlo ben piantato. Non fosse altro perchè i palestinesi sono la maggioranza della popolazione del Regno. E la famiglia hascemita degli Hussein ha la custodia a Gerusalemme della Spianata delle Moschee. Generalmente, la corte anglofona di Amman non va oltre le proteste formali, mantenendo una stretta “cooperazione” col Mossad. Infine, l’Egitto che nella crisi di Gaza ha la funzione del mediatore certificato, a negoziare il cessate il fuoco sono le sue delegazioni. L’indirizzo diplomatico egiziano è improntato ad arginare influenze ostili, turche e iraniane, e promuovere il rafforzamento del blocco all’ombra degli Accordi di Abramo: monarchie del Golfo + Israele. Sulle sponde del Nilo prevale ancora la convinzione che un equilibrio tra palestinesi (riconciliati) ed israeliani possa essere trovato più facilmente responsabilizzando il “realista” Netanyahu ed accelerando il passaggio di potere da Abu Mazen a Mohammed Dahlan. Riuscire a far incastrare contemporaneamente questi due tetramini è però al momento assai complicato. Biden, al contrario, probabilmente preferirebbe non avere Netanyahu e mantenere Abu Mazen come interlocutore, ma dovrà attendere, il falco della destra è saldamente al comando delle operazioni e non pare intenzionato a cedere il posto.

RAZZI E MISSILI, GUERRA TRA GAZA E ISRAELE

Si incendia il conflitto israelo-palestinese. Il prologo pochi giorni fa a Gerusalemme. Quando alla Porta di Damasco scoppia la protesta dei gerosolimitani palestinesi per le limitazioni imposte dalle autorità israeliane durante il Ramadan, e poi revocate. Notti di scontri tra polizia e giovani palestinesi.
Arresti e feriti. L’aggressione, virale, di un ragazzo palestinese ad un religioso ebreo sulla metropolitana; gruppi di israeliani di estrema destra che scendono in strada al grido di morte agli arabi; bande di palestinesi che assalgono a sassate civili inermi.
Disordini che si propagano, ed infine investono la Spianata delle Moschee, simbolo sacro all’islam. E a quel punto tutto assume un altro significato. Le rimostranze della Giordania. La condanna della Lega araba. La comunità internazionale che invita alla calma. L’intensificarsi delle violenze nelle ultime ore cade in un momento cruciale per la politica israeliana.
Il duo Lapid-Bennett, il primo alla guida del partito di centro Yesh Atid, il secondo leader dei coloni con Yamina, il partito della destra nazional religiosa, appoggiato alla Knesset da un raggruppamento ampio e disomogeneo, e con l’incredibile partecipazione del partito islamista Ra’am, aveva appena annunciato di aver trovato, dopo due anni e quattro elezioni, la quadratura per uscire dallo stallo, formare un nuovo governo e mettere alla porta definitivamente Netanyahu.
Gli eventi hanno ribaltato la situazione a favore di un leader messo si politicamente all’angolo, ma che sul piano militare sa come e quando usare la forza. A sua eterna difesa Netanyahu potrà sempre dire che non è la prima volta che in quella porzione del mondo scoppia la guerra, fregiandosi di essere ancora il miglior vaccino sul mercato nella lotta al virus palestinese.
Insomma, nulla di nuovo in Medioriente. Per un conflitto che si alimenta di dispute quotidiane, per la terra, l’acqua e il diritto alla casa. Nel quartiere di Sheikh Jarrah, sempre a Gerusalemme, alcune famiglie palestinesi hanno ricevuto lo sfratto dalle loro abitazioni, edificate su terreno che legalmente non gli appartiene. Anche se in quelle case si erano lecitamente stabilite decenni prima.
Quella che potrebbe sembrare una pura controversia immobiliare assume invece aspetti non prettamente giuridici, ma di ordine politico e sociale. Ad esempio la gentrificazione dei quartieri arabi, che i palestinesi accusano essere una strategia di colonizzazione etnografica, mentre Israele motiva sulla base dell’imprescindibile indivisibilità di Gerusalemme.
Per legge lo Stato fondato da Ben Gurion riconosce nell’abbandono, “l’assenza”, la modalità di perdita di diritto di proprietà. Normativa che ha permesso a migliaia di israeliani di appropriarsi tacitamente di quanto i palestinesi lasciarono durante la prima guerra arabo-israeliana e in quella vent’anni dopo del ’67. Dramma di profughi pari a quello degli ebrei scacciati dagli Stati arabi negli stessi anni. E mai risarciti.

IL SULTANO IN TOUR

La striscia di sangue a Gaza e l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme hanno inasprito le relazioni tra Turchia e Israele. Lo scambio di accuse, il teatrino dell’espulsione dei diplomatici, umiliati ed esposti alla gogna mediatica, lo stallo dell’ONU e la recente riunione d’emergenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica danno il senso dell’agonismo geopolitico in campo. Recep Tayyip Erdogan punta a diventare la sintesi delle diverse anime dell’islam, e fare della Turchia la più grande potenza, non araba, nella regione. Per raggiungere il suo obiettivo sventola la bandiera di Al-Quds, la Gerusalemme araba, ergendosi a difensore dei fratelli sunniti palestinesi con l’obiettivo di isolare Israele. L’ambiziosa strategia del leader turco è tuttavia frenata da Egitto e Arabia Saudita, riguardevoli alle apprensioni, pressanti, della Casa Bianca. Erdogan è convinto di uscire vittorioso dalle prossime elezioni, anticipate a giugno, e a quel punto monopolizzare il potere, presentandosi quale leader supremo del Medioriente, con o senza l’esplicito appoggio di Washington.
Erdogan è un personaggio complesso, repentino nel cambiare gli amici in nemici giurati, come accadde con l’imam Fethullah Gulen e il presidente siriano Bashar al-Assad. Spietato persino con gli alleati, il delfino Davutoglu ha pagato la troppa notorietà ed è finito esautorato. È uno dei leader mediorientali più importanti e controversi, sfrontato nel caso della crisi tra i Paesi del Golfo: mentre offriva le credenziali di mediatore al di sopra delle parti ordinava l’invio di militari in difesa del Qatar. Diffida apertamente della Merkel, ricambiato, e dei paletti dell’Unione europea, posizionati un po’ alla rinfusa e ai quali risponde con la costante minaccia di riversare milioni di profughi alle frontiere. Ambiguo, volutamente, con l’Iran. Fedele, per ora, al matrimonio con Mosca, in un asse saldato da cooperazione energetica e militare. Mai amico dei curdi, impegnato in una pulizia etnica senza confini che dalla Siria potrebbe spostarsi fino all’enclave irachena.
Sul piano interno Erdogan ha prima dato benessere e sviluppo al Paese, quando è stato sul punto di traslocare nel condominio europeo ha buttato all’aria i risultati ottenuti esercitando il suo mandato in modo autoritario e illiberale, dimostrandosi un dittatore democratico e populista. Oggi però l’economia del Bosforo, nonostante i dati rassicuranti sulla crescita del Pil dei primi mesi del 2018, non è più quella del passato. Gli analisti prevedono un trend negativo, dovuto a vari fattori concomitanti: svalutazione della lira turca, inflazione e crescita dei tassi d’interesse, aumento dei costi delle materie prime ed esposizione del sistema bancario ad una fuga degli investitori. In piena campagna elettorale è stato accolto nella Londra della Brexit con il tappeto rosso dalla Lady May, ma bocciato dalla City per l’intenzione di mettere sotto controllo la Banca Centrale. Il Sultano di Istanbul ha sfidato l’Europa anche da dentro, appellandosi ai milioni di turchi che vi vivono. Germania, Belgio, Olanda e Austria hanno bandito i suoi comizi. E lui per rafforzare il tour elettorale ha scelto i Balcani e la piazza di Sarajevo, il cuore esplosivo di tanti conflitti disastrosi, dove unire idealmente i musulmani bosniaci e turchi nella conquista non delle mura di Vienna ma dei palazzi di Bruxelles. L’offensiva balcanica di Erdogan è da tempo in atto, miliardi di investimenti hanno riguardato Albania e Macedonia. Ha fatto costruire moschee e aprire scuole coraniche, seguendo un modello (quello dei centri culturali imam hatip dove si è formato lui stesso) che vorrebbe esportare dall’Italia alla Norvegia.
Cresciuto a Kasimpasa in un quartiere difficile di Istanbul, i residenti della zona sono comunemente associati ad un caratteristico comportamento spavaldo, ha sempre mostrato un atteggiamento arrogante: prima nel disprezzo per la èlite kemalista, laica e benestante, poi nel deridere i richiami dell’Europa ai diritti fondamentali e infine, nell’odio per Israele.

BUS NUMERO 12

Gerusalemme ancora una volta piomba in una angosciante sciagura. Alla vigilia della Pesach, la Pasqua ebraica, poco dopo le 17.30 di un lunedì pomeriggio in una calda primavera, esplode un bus di linea: 21 persone ferite, alcune in gravissime condizioni. Tra queste il presunto kamikaze palestinese. L’attacco terroristico interrompe settimane di relativa calma, se di calma si possa mai parlare in Medioriente, dopo l’escalation, nei passati mesi, dell’Intifada dei lupi solitari i giovani “martiri” palestinesi ripongono il coltello e indossano le cinture esplosive, copiando l’esempio dei loro coetanei di Bruxelles e Parigi. L’attentato a Gerusalemme segna quello che viene commentato dagli analisti come “un salto di qualità del terrorismo palestinese”, ovviamente in negativo. In realtà è il ritorno ad una strategia “vecchia” che non si vedeva da anni, dalla Seconda Intifada e le bombe nei luoghi pubblici. Bus, bar, ristoranti, pizzerie, discoteche macchiati di sangue innocente, una lunga scia di morti, di lenzuoli bianchi a coprire i cadaveri che giacevano a terra. Ieri come oggi quando Israele è attaccato a Gaza si festeggia con pasticcini e canti. Nella striscia di terra più densamente popolata al mondo regna il fondamentalismo islamico di Hamas, alleato dell’Isis in Sinai nel nome della jihad: la guerra santa globale colpisce il vagone della metropolitana alla fermata del quartiere multietnico di Maelbeek e l’autobus numero 12 a Talpiot, periferia meridionale della città Santa. Luogo di centri commerciali, meccanici e carrozzerie dove quotidianamente palestinesi ed israeliani lavorano fianco a fianco e dove dividono la fila nei supermercati. “Dopo l’esplosione non si vedeva più niente era buio, c’era fumo ovunque. Mi sono messa a cercare mia figlia, l’ho trovata sdraiata a terra aveva tutto il corpo ustionato. Tra un mese avrebbe compiuto 16 anni, ora è sedata da farmaci e attaccata ad un respiratore. Adesso prego che sopravviva”. È il ritorno ad una triste cronaca: il boato, un rumore sordo che ti entra dentro, un brivido che ti scuote. E poi un istante di silenzio innaturale, il fumo, le grida, le sirene delle ambulanze in una corsa contro il tempo, i paramedici con i lettini e le flebo, i poliziotti che transennano l’area, gli elicotteri, il caos e la paura che si diffondono ovunque. Quando finirà tutto questo? C’è chi dice quando ci sarà uno stato palestinese indipendente e c’è chi dice quando non esisterà più uno stato di Israele. È lecito pensare che non finirà mai. A meno che “qualcuno” non decida di porvi fine, a chiare lettere. Dando ascolto, per una volta, alle voci di pace, al lamento e alle lacrime della gente che soffre. “Non ho mai intenzionalmente fatto del male ad un’altra persona. Non mi è mai venuto in mente di maltrattare un altro essere umano solo perché la pensa in modo diverso”. Legge il testo del comunicato in inglese Renana Meir, 17 anni israeliana, spiegando che sua madre è stata uccisa davanti a lei, sotto i suoi occhi: brutalmente accoltellata da due minorenni palestinesi. Parla la giovane Renana, nelle stesse ore in cui a Gerusalemme ancora una volta si salta in aria, e lo fa alla platea di diplomatici del Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro. “È difficile esprimere a parole quanto sia profondo il mio dolore”. Eppure, aggiunge “Io non odio, non riesco ad odiare. Con il cuore a pezzi siamo venuti qui oggi a chiedere il vostro aiuto. Aiutateci a creare la pace attraverso l’amore e a trovare il buono che è in ciascuno di noi”.

PALESTINA E IL LAVORO DELLA COOPERAZIONE

In Terra Santa il mese di Agosto è stato caratterizzato da un clima di feroce intolleranza, l’ennesima escalation di violenza e terrorismo, nel nome del fondamentalismo più cupo. Lo scorso anno gli occhi del mondo erano puntati sulla orribile guerra di Gaza che volgeva al termine. Ad un anno esatto di distanza nella Striscia la vita scorre tra un blocco paralizzante, il dominio di Hamas, la paura di una nuova guerra, gli effetti mortali degli ordigni inesplosi e il lancio di razzi in Israele. Gaza 2015 è segnata dalle cicatrici della guerra, ferite che non si rimarginano, ma lasciano un segno fin troppo visibile. Nel 2020 Gaza sarà un posto non più vivibile e allora il problema sarà evacuare oltre 3 milioni di persone, questo secondo uno studio pubblicato recentemente. “Ad oggi è in atto una vera e propria emergenza idrica, senza precedenti, siamo al livello di carenza assoluta.” A parlare è Vincenzo Racalbuto direttore dell’ufficio per la cooperazione allo sviluppo a Gerusalemme (UTL), medico e una lunga esperienza in questo campo. Racalbuto è a capo di un team tecnico con uno staff che varia tra le 15 e le 20 persone: consulenti, espatriati e personale locale. “Mettiamo in pratica gli impegni che l’Italia ha preso.” Decine di milioni di euro in aiuti internazionali dell’Italia alla Palestina. La cooperazione allo sviluppo riveste una funzione centrale nell’elaborazione di riforme, processi e programmi per alleviare la povertà, sviluppare l’economia, migliorare i servizi sanitari e promuovere il dialogo tra i popoli: Il coordinamento con gli altri donatori internazionali avviene su due livelli: uno è il cluster settoriale e l’altro è un coordinamento europeo tra i vertici della cooperazione. È uso incontrarsi ogni due settimane, l’obiettivo è raggiungere per l’inizio del 2017 una programmazione congiunta. È una bella sfida da realizzare.” Intanto a Gaza la macchina della ricostruzione manifesta una certa lentezza dovuta anche ad un processo di riconciliazione tra le due principali fazioni politiche palestinesi mai realmente avvenuto: Ramallah e Gaza sono lontane, non solo geograficamente. Dire che lo Stato della Palestina è diviso in due entità autonome e indipendenti è una mezza verità, la cartina della Cisgiordania è una mappa amorfa, una superficie senza continuità territoriale, con un muro di separazione che avvolge i grandi centri urbani palestinesi e li separa dalle aree denominate C, che in base agli accordi di Oslo sono sotto la completa autorità israeliana. Le comunità palestinesi in area C sono tra le più vulnerabili della West Bank. Demolizioni e sgomberi forzati privano le persone delle loro case e dei mezzi di sussistenza, creando un contesto di povertà radicata e una sempre maggiore dipendenza dagli aiuti. A partire dal 2008 la cooperazione italiana in collaborazione con il Ministero della Salute palestinese porta gli aiuti in tali zone con il progetto dal titolo “Miglioramento della qualità della vita delle fasce più vulnerabili della popolazione nell’area meridionale del Distretto di Hebron”. Stefania Caratti è a capo del progetto. È una cooperante italiana e lavora per la Ong Disvi. “L’obiettivo del nostro intervento è di offrire alla popolazione residente nell’area C servizi sanitari di base di cui erano totalmente privi.” I villaggi coperti dal progetto sono 19, i beneficiari diretti sono circa 30 mila. Il progetto utilizza tre cliniche mobili complete di personale sanitario palestinese e di attrezzature. In piccoli ambulatori o in tende, vengono erogate le cure sanitarie e farmacologiche: somministrando le vaccinazioni d’obbligo, eseguendo il controllo delle gravidanze anche con esami strumentali, fornendo le cure pediatriche, promuovendo l’educazione sanitaria. La Caratti racconta: “Osservare i disagi di questa popolazione è sempre molto doloroso, ma quello che mi ha veramente sconvolto è stato un episodio capitato recentemente. Mentre mi dirigevo ad un villaggio ho incontrato un convoglio di ruspe e mezzi militari. Erano di ritorno dalla distruzione di un poverissimo villaggio nel deserto. Avevano demolito tutto, rasando al suolo scuola, moschea, case e ambulatorio. Non potrò dimenticare i volti della gente. Erano seduti per terra ai bordi delle macerie, accanto i fagotti delle poche cose che avevano potuto salvare. Nei loro occhi si leggeva l’impotenza, l’umiliazione.” In questo quadro il sistema della cooperazione rappresenta un esperienza unica nel suo genere, non solo per le risorse economiche convogliate nei vari settori ma, soprattutto, per il suo volto umano atto a ridurre le sofferenze. Incontrando, conoscendo, parlando con i palestinesi si ha “la percezione di una popolazione che comunque sa sfruttare al meglio le poche risorse disponibili, che saprebbe creare migliaia di imprese, posti lavoro e sono sicuro che possono farcela.” La speranza di Racalbuto nasce dall’obiettivo della cooperazione ovvero creare una prospettiva di normalità per i palestinesi.

IL REPORTER E GAZA

Per chi avesse interesse a capire il dramma che vivono i civili a Gaza, vi invitiamo a cercare in rete i video di Simone Camilli. Giornalista italiano morto nella Striscia di Gaza il 13 agosto 2014 per lo scoppio di un ordigno bellico durante il tentativo maldestro di disinnesco. Sono documenti di grande attualità, che dimostrano il talento del reporter prematuramente scomparso all’età di 35 anni. Simone aveva le radici a Pitigliano, la piccola Gerusalemme della Toscana, dove proprio l’anno scorso si svolse l’ultimo commosso saluto al rientro del feretro dalla Terra Santa. In Medioriente lavorava da qualche anno, nel 2011 Camilli con Pietro Bellorini aveva realizzato il documentario About Gaza, 21 minuti di vita quotidiana nel tratto di terra palestinese bagnata dal Mediterraneo e coperta dalle dune del deserto, uno sguardo nel regno di Hamas e nel conflitto con Israele. Tra povertà e rassegnazione. Il trascorrere dei giorni dentro la più popolata prigione a cielo aperto al mondo, paragonata ad un Inferno, sicuramente non è un Paradiso terrestre come dimostrano le immagini raccolte in quel viaggio. Vivere a Gaza era ed è difficile. L’emergenza è cronica. La mortalità infantile oggi raggiunge il 22,4%. A settembre c’è il rischio che l’UNWRA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, per mancanza di fondi non sia più in grado di aprire le scuole. A Gaza le risorse idriche scarseggiano e lo spettro di un nuova guerra è dietro l’angolo. L’ultima quella dello scorso anno, ha distrutto case e provocato morte, degli oltre duemila cadaveri un quarto sono donne e bambini. In quella parte del mondo il calendario segna solo due stagioni: guerra e tregua. Scordatevi la pace, il clima politico non lo permette. Per ricostruire Gaza, rimarginare le ferite ci vorranno anni e soldi, miliardi di dollari. Ma sopratutto ci vorrà la volontà politica di costruire un nuovo futuro per la Palestina, per la sua gente. Fino a quel giorno nei cieli della Terra Santa imperverserà una bufera di follia e violenza, la morte non risparmierà nessuno, nemmeno i giornalisti disposti a rischiare la vita, non per uno scoop sensazionale ma semplicemente per presentare la realtà dei fatti: “cartoline” dal Medioriente. Raccogliendo lo spaccato inquietante della normalità dei gazawi e il loro convivere amaramente senza pace. Negli scatti di Camilli c’è la passione per il giornalismo, alla ricerca dell’umanità e della disumanità della storia, elementi che ritroviamo nell’altro interessante documento che il giornalista ci ha lasciato. Il titolo è Gaza 22 sono pochi minuti di filmato, l’obiettivo della camera di Simone ci porta dove infiamma la battaglia, nel conflitto che ferisce il Medioriente da anni: bombardamenti, carri armati, esplosioni, giovani con la kefiah al volto che affrontano l’esercito israeliano e poi la devastazione, le macerie degli edifici rasi al suolo. È la tragedia ricorrente e interminabile di una striscia di terra che scorre lungo il mare ma da dove per uscire la cosa più semplice è scappare sotto terra, come una talpa, attraverso i tunnel che portano in Egitto. In tutti i contesti di estrema povertà, di totale alienazione, c’è chi approfitta della situazione per speculare, lucrare. A Gaza lo fanno i miliziani che nascondono le armi nelle scuole o negli ospedali. E lo fanno coloro che introitano somme esorbitanti con il contrabbando di armi, droga e beni di prima necessità. Ma la maggioranza della popolazione, quella silenziosa e spesso dimenticata dalla cronaca è obbligata ad un mondo molto diverso dal nostro, un contesto che Simone Camilli ha saputo mostrare con correttezza d’informazione, in una Terra Santa dove le notizie obbligano a riflettere profondamente. Ma proprio per questo Gaza deve essere raccontata al mondo, non si possono spegnere le telecamere e abbandonarla, facendo finta che quel lembo di terra non esista. Perché Gaza c’è, esiste ed è vera nel suo dramma umanitario e sociale, nella consapevolezza che ad un anno dall’ultimo conflitto, dove ha perso la vita un bravo e giovane giornalista italiano, continui a non esserci una prospettiva, la vita.