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BIDEN IN TOUR

Il viaggio in Europa del presidente Joe Biden segna il ritorno prepotente degli USA sullo scacchiere internazionale. Tre le tappe significative. Il G7 in Cornovaglia è stato forse il momento più rilassante per il presidente statunitense, tra vecchi amici e le rituali foto di gruppo. Molta allegria e tanta convergenza, almeno nel puntare il dito contro il grande pericolo che incombe: “il rafforzamento militare della Cina, la sua crescente influenza e il suo comportamento coercitivo pongono sfide alla nostra sicurezza”.
Il problema dell’impero del Dragone è stato posto senza sotterfugi al centro della discussione tra i capi di stato. In conclusione si è tracciata una marcata linea rossa per Pechino. Poi la risposta a questo nuovo confronto Biden l’ha delineata al summit NATO di Bruxelles, nel cuore dell’eurocentrismo, strigliando con tatto e diplomazia qualche “discolo” alleato, che ultimamente aveva dato segnali non proprio conformi allineamento del blocco atlantico: pace fatta, almeno così sembra, tra il sultano Erdogan e la Casa Bianca.
Con un patto che prevede il supporto logistico turco al ritiro statunitense dall’Afghanistan. E infine l’incontro a Ginevra con Putin, il faccia a faccia con il nemico numero due e un potenziale futuro partner. A differenza di quanto accadde nel 2018 a Trump, a Helsinki, Biden ha evitato di fare la figura del pupazzo manovrato dallo zar di Mosca. Uscendo indenne da un delicato confronto.
Nel complesso, questi tre eventi concatenati hanno certificato come proprio l’era Trump sia un capitolo chiuso della gestione della geopolitica internazionale. Fine delle pagliacciate, gli USA di Biden hanno rispetto per gli alleati. C’è tuttavia bisogno di ricomporre alleanze e imporre nuove strategie collettive. Il successo della NATO sull’Unione sovietica ha messo in evidenza la capacità dell’organizzazione di adattarsi su larga scala ai mutevoli cambiamenti che si sono susseguiti da Yalta ad oggi.
Fin dall’inizio la NATO è stata molto di più di una semplice alleanza militare, ha rappresentato uno spazio comune con una sua identità politica. E una forza in grado di operare in tutti i continenti. Il Medioriente, resta però il teatro più complesso. Il non intervento in Siria ha spalancato la porta alla Russia nella regione. Lo scontro tra Turchia ed Egitto è motivo di particolare allarme, perché ha assunto un livello che va ben oltre il controllo del suolo libico. Equilibri del mondo arabo che direttamente mettono in causa altri due attori cari a Washington, Arabia Saudita e Qatar.
Mentre, la questione israelo-palestinese è ancora un labirinto inestricabile. Infine, il dilemma Iran, la strada imboccata in questo caso è la riapertura delle trattative. L’esito, scontato nel risultato, delle elezioni presidenziali, pur segnando la vittoria dell’ultraconservatore Raisi, lascia un filo di speranza al processo di dialogo con gli Stati Uniti per il rilancio dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, che ha il sostegno della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Un dossier caldo sul tavolo di Biden.

IN SIRIA LE ELEZIONI FACILI, TROPPO FACILI

Le immagini del dittatore siriano Bashar al-Assad mentre, sorridente davanti alle telecamere, ripone la scheda elettorale nell’urna, è la rappresentazione della farsa tragicomica andata in scena in Siria. Non stupisce che a fare da sfondo alla sua apparizione pubblica, come nella migliore tradizione dei regimi, il presidente abbia trovato una folla festante che lo ha accolto all’arrivo al seggio, dove si è recato guidando la sua auto privata. Nel tentativo di mostrarsi come un cittadino qualunque, un politico amato dal suo popolo e non un uomo cinico, che in questa ultima decade ha ordinato bombardamenti, arresti, torture e uccisioni.

Se queste elezioni – caldamente sconsigliate dalle Nazioni Unite ma “monitorate” da stati che non brillano certo per libertà, democrazia e diritti – dovevano mostrare il ritorno alla normalità beh scordiamocelo. La Siria è di fatto un paese diviso in tre zone: un’area, la più estesa, sotto il governo di Damasco, una enclave nel nord in mano ai ribelli e infine una porzione controllata dai curdi. Il recente processo elettorale ha ovviamente riguardato i lealisti a Damasco. E alla fine il risultato, non accettato da Europa e USA, è stato emblematico ed esaustivo: Assad ottiene il 95% dei voti scrutinati (nelle precedenti aveva preso “solo” l’88,7%). Un plebiscito, bulgaro. Alla cerchia di potere alawita, che non vuole perdere la propria rendita, piace vincere facile, e per sfidanti si sono scelti due figure minori, che non impensierissero troppo il partito Baath del presidente. Il candidato Abdullah Salloum Abdullah aveva già ricoperto ruoli ministeriali in passato e la sua formazione socialista è nella coalizione di governo. Abdullah ha ottenuto una manciata di voti, 1,5%. Poco meglio ha fatto l’altro sfidante Mahmoud Mar’i, raccogliendo il 3,3% delle schede a suo favore. L’avvocato Mar’i, membro dell’opposizione interna ad Assad, è delegato alla Commissione costituzionale per la Siria di Ginevra. Secondo quando annunciato ufficialmente l’affluenza è stata del 78% e i partecipanti 14 milioni. Numeri dubbi, per un voto che di giusto non ha niente.

Assad inizia così il suo quarto continuativo mandato e un nuovo settennato, con una guerra civile lunga e dolorosa non ancora completamente alle spalle. Si stima i deceduti dal 2011 ad oggi siano più di mezzo milione. 11 milioni sono gli sfollati, la metà rifugiata in Turchia, centinaia di migliaia un po’ in tutto il mondo. L’altra metà di coloro che hanno abbandonato la propria casa continua a vivere in territorio siriano, un terzo sono bambini. Quasi il 90% della popolazione è in condizioni di povertà cronica. Le speranze di ripresa economica per il 2021 non sono rosee, le sanzioni statunitensi e gli effetti della crisi finanziaria del Libano potrebbero incidere pesantemente. Inoltre, la pandemia ha colpito le rimesse dei siriani all’estero, e l’invio di aiuti si è ridotto. Assad avrà vinto le elezioni confezionate su misura per lui, ora però ci sono due creditori che aspettano alla porta, Russia ed Iran.

IL MEDIORIENTE E IL VIRUS

Politica, religione e il coronavirus in Medioriente. A Gerusalemme al Santo Sepolcro è permesso l’ingresso solo ai “custodi” rappresentanti delle diverse dottrine cristiane, che “mantengono” lo status quo del luogo. Saltata la tradizionale processione della domenica della palme sul Monte degli Ulivi e rinviata la messa crismale, a Pasqua le porte della Basilica,che secondo la tradizione ha ospitato le spoglie di Cristo, resteranno chiuse. Intanto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, è di nuovo in quarantena.
La decisione del primo ministro in carica è stata presa dopo che il ministro della Sanità, il rabbino ortodosso ed uomo di punta del partito Yahadut Ha Tora Yaakov Litzman, è risultatopositivo al virus. Israele conta 42 morti e si sfiorano 7.600 casi. I dati del ministero della Sanità parlano di 115 pazienti in condizioni gravi e di 427 israeliani guariti dopo aver contratto la Covid19. Ma i numeri continuano inesorabilmente a salire. L’isolamento del leader della destra cade proprio nel momento di frenetiche consultazione per formare un governo di unità nazionale in l’ex rivale Benny Gantz. E l’introduzione di misure di contenimento più stringenti (incluso l’impiego dei servizi segreti nel tracciamento dei contagiati) trova l’opposizione, anche violenta, della comunità degli ebrei ortodossi, restii a rinunciare alle proprie abitudini.
Nelle città e nei quartieri degli haredim, Covid19 cresce tre volte di più rispetto al resto di Israele. Intanto è stata sigillata dai militari Bnei Brak. In questa città con 200mila abitanti, poco distante da Tel Aviv, la cui stragrande maggioranza dei residenti osserva rispettosamente le leggi talmudiche, è stato riscontrato il più diffuso contagio: il 38% dei cittadini testati è risultato positivo a Covid19. Mentre, a pochi chilometri di distanza, nella Striscia di Gaza,la dittatura di Hamas impone di posticipare i matrimoni. E l’Autorità Nazionale palestinese, che governa in Cisgiordania, ha imposto la chiusura dei territori: Betlemme, culla della Natività, è sigillata da giorni.
In Medioriente il primo focolaio è esploso ai margini della regione, in Iran. L’epicentro del contagio è stata la città santa sciita di Qom, cuore della rivoluzione dell’Ayatollah Khomeyni. Probabile che il virus sia stato veicolato da addetti alla costruzione della moderna rete ferroviaria ad alta velocità, oppure tramesso da un pellegrino: il santuario di Fatimah al-Masumah attira fedeli musulmani da tutto il mondo, inclusa la Cina. Teheran ha ufficialmente confermato i primi decessi da coronavirus il 19 febbraio scorso. Una settimana dopo casi erano segnalati in 24 delle 31 province. L’onda del contagio si era estesa anche fuori dal territorio nazionale. Similmente anche in Bahrein, Oman, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita gli infetti avevano trascorso un periodo in Iran.
Attualmente, in Giordania è esploso il caso delle mascherine non a norma. Mentre, in Iraq il personale medico protesta per la mancanza di medicinali e ventilatori. E in Libano, dove il primo paziente positivo è stata una donna appena rientrata da Qom, sono i camionisti a criticare il governo. Il Kuwait ha “richiamato” 17mila insegnanti egiziani che hanno lavorato nel Paese, in passato. L’Arabia Saudita ha posto in quarantena l’area di Qatif, dove gli sciiti sono la maggioranza. E il ministero della Sanità ha invitato coloro che si erano recati in Iran a dichiararlo alle autorità. Pur avendo violato la legge che vieta di visitare l’Iran, decine di persone hanno risposto fornendo le generalità, e di fatto autodenunciandosi.

VIGILIA DI GUERRA PERSICA

La morte di Qassem Soleimani infuoca il Golfo e tutto il Medioriente. L’assassinio a Baghdad, autorizzato dal presidente Trump, del generale pasdaran è l’alba di un conflitto aperto tra gli Usa e l’Iran. È presto per parlare di operazioni convenzionali o campagna di terra, tuttavia, sono queste le probabili evoluzioni di questa escalation senza precedenti tra i due Stati. Con il rischio del coinvolgimento di altri attori. In Israele, che non ha mai nascosto di avere tra i suoi piani l’eliminazione del capo della Brigata Gerusalemme, è scattata l’allerta sicurezza. Ora si guarda con attenzione e apprensione ai vicini teatri dove Soleimani ha ramificato una rete di guerriglieri e fanatici terroristi: Libano, Siria e Gaza. Opposto il caso della Turchia, c’è la quasi certezza della neutralità del sultano Erdogan, l’affidabilità della base logistica statunitense sul Bosforo è alla prova. Ankara si troverà definitivamente a scegliere se confermare il patto con la Nato o l’asse con Mosca e Teheran.
Soleimani è stato una figura chiave dell’espansione iraniana in Medioriente. L’influente ufficiale per anni ha lavorato nell’ombra organizzando milizie paramilitari e appoggiando azioni terroristiche nella regione. Figlio di poveri contadini, la sua ascesa al vertice delle guardie rivoluzionarie è voluta, e “benedetta”, personalmente dall’ayatollah Khomeyni. Ha rivestito un ruolo strategico nella repressione delle proteste interne e nel consolidamento della dittatura. Riservato, parlava poco e quando lo faceva aveva una voce tenue, ha rilasciato pochissime interviste ma la sua fama nel Paese era diffusa, godeva di grande popolarità, elevato ad una sorta di eroe nazionale. Una primula, scampato a diversi attentati, più volte dato per morto e poi “miracolosamente” ricomparso. Grazie ai suoi servigi diplomatici e alle mosse militari, l’Iran ha realizzato una “continuità” territoriale che sbocca nel Mediterraneo: un cordone di alleanze segnate da una lunga scia di sangue. Soleimani è l’artefice di questo piano geopolitico. Non è stato solo la lunga mano del regime iraniano all’estero, è l’architetto dell’attuale potenza bellica. Avversario dell’Arabia Saudita. Protettore nella Damasco di Assad, ha coperto e partecipato alle brutali violenze della guerra civile. Amico fraterno a Beirut di Nasrallah, offre armi e addestramento alle milizie sciite di Hezbollah. Ha ripetutamente “sollecitato” Israele sulle alture del Golan e condotto vittoriosamente la crociata contro l’Isis lungo l’Eufrate. Molto probabilmente aveva ordinato, sicuramente sostenuto, il recente assedio dell’ambasciata americana a Baghdad da parte di manifestanti sciiti. Provocando la fatale reazione della Casa Bianca. Con la morte di questa controversa personalità Teheran perde un brillante ed efficiente generale, il Medioriente invece vede uscire di scena un orchestratore astuto e pericoloso. Per taluni è un martire, per altri un ingiustificabile criminale assassino. La vendetta in suo nome è l’ultimo capitolo della sua storia, e purtroppo ce ne ricorderemo a lungo.

LIBANO, LA PIAZZA E LA CASTA

La piazza di Beirut affonda il primo ministro Saad Hariri e ora chiede di più. Il premier incapace di gestire il caos politico di un Paese sul baratro del default finanziario (il debito nazionale è al 150% del PIL con un quarto della popolazione sotto la soglia di povertà) e con lo spettro del deflagare di una nuova guerra civile ha alzato bandiera bianca: “sono in un vicolo cieco” ha ammesso nel messaggio trasmesso alla nazione. Legato a triplo filo alle monarchie saudite, appoggiato dall’Eliseo di Macron e dalla Casa Bianca di Trump. Per ora Hariri, di religione sunnita, miliardario e discendente di una delle famiglie più potenti del Libano, rimane in carica, in attesa della decisione presidenziale. L’analisi è che si è lasciato trascinare dall’onda di cambiamento, che ha considerato maggioritaria, e tratte le dovute conseguenze ha dato le dimissioni, aprendo una crisi politica già acuta. Le grandi proteste che hanno attraversato il Libano, in queste due settimane, chiedono “rivoluzione”; rivendicano un cambiamento totale a livello istituzionale: la fine di un sistema “corrotto e dispotico”. Manifestano accusando i vertici dei partiti al potere: cristiano maroniti, islamico sunniti e affiliati ad hezbollah. È una rivolta pacifica, transreligiosa, che fa paura alle oligarchie, anche queste trasversali, che governano e destabilizzano da anni questo lembo di terra. Sono voci di malcontento inaccettabili tanto dal leader politico e spirituale, filo iraniano e sciita, Hassan Nasrallah quanto dai maroniti, non falangisti e pro siriani, del presidente cristiano ed ex generale Michel Aoun. È un movimento che monta di giorno in giorno, composto da tanti giovani, aggregato dalla lotta alla finanziaria e che ha trovato nell’opposizione all’introduzione di una tassa per le chiamate di Whatsapp la scintilla della battaglia social. Non chiamatela “rivoluzione dei cedri” e tantomeno “primavera araba”, siamo difronte a qualcosa di diverso, meno politicizzato e più pragmatico nelle richieste, che guarda alla libertà di comunicazione e allo stesso tempo al proprio portafoglio, un dissenso di cui è difficile predire il destino. Come prima vittoria, e forse unica, la gente nelle strade ha fatto cadere la pedina più fragile dello scacchiere di quella che è stata la Svizzera del Medioriente, Hariri. Il “debole” politico era l’unico elemento che potenzialmente destabilizzava l’alleanza tra Damasco e Beirut, accordo che di fatto lascia mano libera ai terroristi di Hezbollah sul controllo del Paese in cambio della tacita presidenza di Aoun. Dietro gli squadristi mandati alla caccia dei manifestanti nelle strade c’è ovviamente la lunga mano di Damasco, di Assad e degli iraniani. Mentre, il braccio armato è sempre quello riconoscibile del partito di Dio. Sono loro, a questo punto, il vero ostacolo al rinnovamento.

TRUMP PREPARA LA GUERRA PERSIANA

Sale la tensione ad Oriente. Le compagnie aeree internazionali in via cautelativa si tengono lontane dalle rotte dello stretto dell’Oman in vista di uno scontro prossimo tra Iran e USA. Intanto, il populista Trump ha indossato la divisa da comandante in capo dell’esercito più potente del mondo e approvato un attacco punitivo nei confronti di Teheran, per poi all’ultimo secondo del countdown sospendere temporaneamente l’operazione. Il casus belli scatenante è l’abbattimento del drone a stelle e strisce (valore 130 milioni di dollari) sui cieli del Golfo Persico, da parte della contraerea iraniana. Dopo una lunga e drammatica riunione nello studio Ovale il presidente avrebbe dato il via libera ad un intervento militare destinato, con molta probabilità, a colpire obiettivi sensibili: radar e batterie missilistiche. Comunque, l’ordine supremo è stato di fatto messo in stand by.

Per mesi abbiamo descritto imprevedibile e incostante l’approccio in politica estera del presidente Donald Trump. Nei tweet presidenziali toni minacciosi e offensivi verso leader mondiali nemici si sono alternati a quelli concilianti, in una sorta di balletto, uno spettacolo dove al centro più che una strategia geopolitica sembrava esserci l’umore dell’inquilino della Casa Bianca. Ma questa volta non è una questione personale e siamo ad un passo dall’irreparabile.

Nell’escalation attuale hanno influito in modo determinante due fattori: le ripetute provocazioni iraniane e i falchi della squadra di Trump. Il segretario di stato Mike Pompeo e John R. Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, sono entrambi schierati apertamente per dare una risposta forte all’Iran, opzione a cui il presidente è in realtà ostile. Alla base della reticenza di Trump il fatto che in campagna elettorale aveva promesso, e in parte mantenuto, la volontà di tirar fuori dalle zone di guerra i propri soldati. Invece, “obtorto collo” è stato catapultato al fronte di una potenziale nuova guerra. Inevitabile? Forse.

DIPLOMAZIA TRUMPIANA IN MEDIORIENTE

La crisi del Golfo non si placa. Il Qatar tende la mano in un gesto di distensione ma l’Arabia Saudita, alla guida della coalizione contro Doha, rimane su posizioni intransigenti. Sul campo il Segretario di stato statunitense Rex Tillerson è stato impegnato in una vana mediazione. Lo spiraglio per una ripresa del dialogo tra gli stati arabi è flebile. La diplomazia di Trump ha fatto un sonoro buco nell’acqua. Con Tillerson costretto ad ammettere pubblicamente il fiasco: “Non possiamo forzare colloqui tra persone che non sono disposte a parlarsi”.

Il prodromo alla questione Mediorientale lo scorso 5 giugno, quando Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein hanno tagliato i legami diplomatici con il Qatar e imposto pesanti restrizioni, incluso l’embargo aereo, marittimo e dei confini terrestri, al piccolo stato della penisola araba: accusato di finanziare il terrorismo internazionale e di essersi pericolosamente avvicinato all’Iran. In una alleanza strategica che mette a rischio gli equilibri fragili nella regione, un “tradimento” al blocco sunnita. Doha in questi mesi ha negato con forza le accuse senza tuttavia ottenere dai vicini un disgelo. Il pessimismo mostrato da Tillerson la dice lunga. Il braccio destro di Trump prima di giungere in Qatar aveva riportato un successo mettendo allo stesso tavolo i governi di Riyadh e Baghdad, una pacificazione storica sottolineata dal comune sentimento anti-Isis. Mentre, nelle stesse ore a Washington, Trump usava toni trionfalistici per commentare la conquista di Raqqa da parte delle milizie curde con il sostegno dell’aviazione americana. “La fine del Califfato è prossima”, ha annunciato il capo supremo della prima potenza mondiale, rimarcando che nella lotta all’Isis da quando è in carica sono stati compiuti sforzi, e vittorie, superiori rispetto al passato. E avvisando che la sconfitta dei jihadisti coincide con l’inizio di una “nuova fase” per la Siria: offrire supporto alle forze curde e consentire agli sfollati di far ritorno nelle loro case. L’inquilino della Casa Bianca non ha tuttavia nascosto che la transizione verso la stabilità politica di Damasco non è imminente. La ritirata delle milizie del Califfato dalle roccaforti lungo l’Eufrate ha significato un ritorno dell’autorità di Assad e l’espansione delle aree d’influenza dei suoi fedeli alleati, siriani e russi. Non meno rilevante il fatto che i curdi siano sul piano militare in grado di fronteggiare gli avversari e allargare la sfera egemonica nella regione. Inoltre, come i vertici della CIA da giorni tentano di spiegare al proprio presidente: gli USA restano un potenziale bersaglio. I circa settemila combattenti, tra cui molti foreign fighters, sparsi a cavallo tra Siria e Iraq sono una minaccia anche fuori dei confini mediorientali. La guerra su scala globale non è ancora finita. E i futuri assetti sono molto incerti: la mappa disegnata da Sykes e Picot che un secolo fa dette vita alla definizione degli stati del Medioriente novecentesco è carta straccia. Nello scenario attuale la Turchia di Erdogan non può rimanere estranea a quanto gli accade intorno, un Iraq frantumato e debole è facile preda di chiunque, il nazionalismo curdo è in movimento verso l’indipendenza, l’Iran ha la possibilità di creare un cuscinetto territoriale che si estende da Teheran sino al Libano, elementi che messi in gioco possono repentinamente alterare la situazione e trasformarla in esplosiva. Il tacito accordo tutti contro un unico nemico, l’effetto collante della guerra all’Isis rimandando le divergenze a dopo, potrebbe ben presto scadere e riportare i vari attori in lotta fra loro. A quel punto un confronto USA, da una parte, e Iran, dall’altra, diventerebbe quasi inevitabile. Gli occhi sono puntati alle strade di Al Tanf dove da settimane non mancano episodi di “autodifesa” tra filoamericani e filoiraniani.

TRUMPISMI ANTI IRAN

La visione globale di Trump prende forma. I nemici, uno ad uno, vengono bersagliati dalla propaganda dell’inquilino della Casa Bianca a partire dalla Corea del Nord e dal suo dittatore. Sfortuna vuole che il tycoon si sia scaraventato con veemenza anche contro i trattati di Parigi sul clima e l’agenzia dell’Unesco, minacciando di ritirarsi da entrambi. Poche ore prima che Audrey Azoulay ex ministro della Cultura francese venisse nominata a capo dell’organizzazione dell’ONU per la tutela del patrimonio ambientale e culturale, sparigliando le carte del candidato qatariota, non gradito da Israele. La svolta di Azoulay è una vittoria non solo francese ma di una parte del mondo arabo che guarda con timore all’espandersi dell’egemonia iraniana in Medioriente. Dal canto suo Trump quotidianamente e con metodicità sfida le politiche del suo predecessore, scavando un solco profondo con la geopolitica di Obama. Il neo presidente a stelle e strisce sposa le tesi dell’amico e alleato Netanyahu, alzando il livello di tensione con il “diavolo” iraniano. Non certifica l’intesa sul nucleare e rimanda al Congresso la decisione su nuove sanzioni. Indica a grandi linee, senza entrare troppo nei dettagli, gli obiettivi: isolare Teheran. All’orizzonte si delineano quattro possibili scenari: l’introduzione su larga scala di nuove sanzioni. La guerra. Il rovesciamento del regime degli Ayatollah. La definizione di un nuovo programma distensivo.
Forse la vera intenzione trumpiana è trasformare gli stati sunniti limitrofi in un muro di contenimento, in grado di sopportare, anche autonomamente, un conflitto bellico con il mondo sciita. Per rendere concreto l’isolamento dell’antica Persia è indispensabile il totale appoggio dei Paesi del Golfo. Purtroppo per Trump qualche scricchiolio si è fatto sentire nelle relazioni tra Qatar ed Arabia Saudita, con una crisi diplomatica che stenta a trovare una soluzione. E con Doha che guarda con sempre maggiore attenzione alle lusinghe turche e iraniane. La cooperazione e la solidarietà tra stati arabi non sono un modello di affidabilità, bensì un limite. Un elemento di frizione nella regione è anche la questione curda, dove aleggia l’incognita e la paura. Erdogan non accetterà l’indipendenza del Kurdistan e nemmeno l’Iran è disposto a lasciare spazio vitale al nazionalismo curdo. Turchia e Iran hanno sviluppato un’interazione simbiotica, i secondi forniscono gas e petrolio, il primo è la porta d’accesso all’Europa, interrompere questi canali di scambio è al momento impraticabile. Inoltre, i sauditi, recentemente armati di tutto punto da Trump, sono impantanati in una guerra in Yemen che non riescono a risolvere, dimostrando che le loro forze armate non sono assolutamente preparate ad interventi militari esteri. La difesa è una cosa, l’invasione un’altra.
L’attuale guida iraniana Hassan Rouhani è considerata da gran parte della Comunità internazionale riformista e moderato, rispetto ovviamente all’indirizzo dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad: l’uomo che voleva possedere la bomba. Rouhani è stato accolto e riverito durante i suoi viaggi d’affari nel Vecchio Continente. Un muro contro muro tra il leader iraniano e Trump (coadiuvato da Netanyahu) non è ben visto dall’Europa. Non è un caso che l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Federica Mogherini ha immediatamente preso le distanze dall’amministrazione statunitense, rimarcando centralità e necessità dell’accordo sul nucleare con l’Iran. I dissapori tra USA e Iran hanno una lunga storia, e qualche pagina nera di troppo. Questo non vuole dire che sono due realtà inconciliabili, Obama e Kerry infatti dettero prova del contrario. È vero tuttavia che il monolitico controllo, politico e religioso, esercitato dal supremo leader l’Ayatollah Ali Khamenei avvicina il paese ad una dittatura e non certo ad una democrazia. Troppo spesso chierici e militari iraniani hanno fatto uso della retorica bellicosa accostandola all’antisionismo. Ideologie e approcci sbagliati per un Medioriente in pieno caos.

Nucleare iraniano, diplomazia di vasta proporzione

L’accordo sul nucleare iraniano è arrivato alla sua conclusione o maturazione. Un risultato diplomatico di vaste proporzioni, raggiunto dopo un’estenuante tavolo delle trattative: una patata bollente dagli esiti incerti per oltre 60 mesi. La quadratura diplomatica grazie alla mediazione del Commissario europeo Federica Mogherini, in splendida luce. Nella tarda mattina viennese di una calda estate si accende il semaforo verde alla fine delle sanzioni nei confronti di Teheran. Nemmeno il tempo per le delegazioni ufficiali di stringersi la mano per la foto di rito che da Gerusalemme si alzano le voci di protesta. E Washington risponde. Mentre Teheran canta vittoria con la folla in piazza. È il classico teatrino della politica internazionale, in scena tanti attori ma tre veri protagonisti: il presidente iraniano, Netanyahu neo confermato capo di governo israeliano ed infine Obama il presidente in scadenza degli USA. L’ultimo ha fortemente spinto per una soluzione positiva alla trattativa iraniana, che riaprisse il dialogo interrotto nel ’79 con il paese degli Ayatollah, nella speranza, nemmeno troppo segreta, di poter un giorno definire un nuovo Medioriente senza Califfi: “E’ un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica. Se l’Iran violerà l’accordo tutte le sanzioni saranno ripristinate e ci saranno serie conseguenze. Nessun accordo avrebbe significato nessun limite al programma nucleare iraniano. Gli Stati Uniti manterranno le sanzioni contro l’Iran collegate alla violazione dei diritti umani”.

Occhi puntati. Scadenze da rispettare per l’Iran e per il presidente Hassan Rouhani che nella dichiarazione alla stampa non ha tralasciato di uscire dal seminato, cadendo nel grottesco: “Non abbiamo chiesto la carità. Abbiamo chiesto negoziati equi, giusti e senza sconfitti. Oggi la gente di Gaza, del Libano, di Gerusalemme e della West Bank sono felici perché gli sforzi del regime sionista sono stati sconfitti. Paesi vicini! Non lasciatevi ingannare dal regime sionista”. In Medioriente, almeno la parte ostile alle politiche di Teheran quella che teme il potere sciita e le milizie dei pasdaran, non accetta di buon grado il risultato di compromesso siglato in Austria. Arabia Saudita e Israele, nemici giurati dell’Iran, sono rigidamente contrari. Temono per propri i confini, per la sicurezza di una regione votata all’instabilità e alla violenza.

Il primo ministro israeliano, dal canto suo, esprime condanna accesa, con toni funesti: “Adesso l’Iran avrà un patto sicuro per sviluppare le armi atomiche. Molte delle restrizioni che avrebbero fatto in modo di prevenire ciò sono state revocate. L’Iran avrà in mano un jackpot, una miniera d’oro in contanti centinaia di miliardi di dollari, che le consentirà di continuare a perseguire le aggressioni e il terrore nella regione e nel mondo. Si tratta di un grave errore di proporzioni storiche.”

Netanyahu parla, allo stomaco e alla testa, della comunità internazionale ma soprattutto ai repubblicani americani, al Congresso dove sono in maggioranza e lui, il falco, potrebbe trovare fedeli alleati in una nuova battaglia politica al democratico afroamericano presidente della Casa Bianca. Un match rischioso per la tenuta delle relazioni sodali tra i due stati. Obama appare rilassato, al fianco il suo vice, insieme per il monito al Congresso e per delimitare il campo di gioco: “Sarebbe irresponsabile allontanarsi da questo accordo. Porrò il veto a qualsiasi legge che si opporrà alla sua attuazione”. Netanyahu è fuori dalla porta …. con la palla in mano.

LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LA KNESSET APPRODA AL CONGRESSO DI OBAMA

Nei giorni scorsi il Congresso americano ha dichiarato amore incondizionato al leader israeliano Benjiamin Netanyahu. Una dimostrazione d’affetto smisurata, ben oltre i solidi legami storici tra i due paesi: un gesto d’amore incurante di rompere i protocolli diplomatici della Casa Bianca, persino sgarbato e offensivo nei confronti del Presidente Barack Obama. Invitato a Washington dai repubblicani e boicottato dai democratici, non tutti, il Primo Ministro ha tenuto, la scorsa settimana, un lungo discorso ai membri del congresso statunitense riuniti in seduta congiunta. Nell’aula dell’organo legislativo più importante al mondo Netanyahu è stato accolto calorosamente, osannato, coperto da applausi e da standing ovation. Il succo del suo lungo discorso era la minaccia iraniana e l’accordo sul nucleare. L’obiettivo era frenare la trattativa in corso in queste ore. Alzare un polverone su Teheran. Mettere l’amministrazione Obama in un angolo. C’è riuscito. Grazie a quello che molti hanno definito il discorso perfetto, un monologo teatrale recitato convintamente e appassionato, proprio come piace alla platea anglosassone. Ha parlato di terrorismo, di bomba atomica, di geopolitica nella regione e di nazionalismo, sia ebraico che statunitense. Ha giocato le carte anche quelle più ovvie e quelle politicamente più scorrette. Ha paventato di raccontare i segreti di Obama. Non ha tralasciato di lanciare l’accusa di antisemitismo all’Ayatollah, per un suo tweet. Ha sapientemente scaldato gli animi della platea facendo rullare i tamburi di guerra: “ … anche se Israele dovesse restare solo noi non ci piegheremo. Ma so che Israele non è da solo. So che voi siete con Israele.” E ha concluso il suo intervento con tanto di citazione biblica. Il sermone di Netanyahu, che ha convinto gli americani non ha tuttavia avuto l’effetto sperato in patria: convincere l’elettorato israeliano. Le reazioni della stampa israeliana sono state negative e le critiche pesanti: chutzpa. Insolente. Arrogante. Alla fine i sondaggi, ad una settimana dal voto non hanno portato nulla di più, il viaggio americano non ha avuto l’effetto sperato. La coalizione di centrosinistra mantiene di qualche punto il primato. Il piccolo divario è stabile e solido. Dopo aver pestato i calli a Obama e a metà dei capi di stato europei al falco della politica israeliana non resta altro da inventarsi in questa campagna elettorale. Dove è stato costretto ad inseguire gli avversari. Dove si è procurato nemici su nemici. Dove ha perso credibilità. Nel tentativo di recuperare voti e consenso Netanyahu ha buttato acqua sul fuoco del dibattito tra sionismo e post sionismo, ha posto al centro della questione il ruolo d’Israele per gli ebrei nel mondo: “Israele è la casa di tutti gli ebrei.” E poi ha pronunciato un accorato invito agli ebrei ad una migrazione in massa verso le coste meridionali del Mediterraneo. Il no all’appello di Netanyahu è stato ripetuto con forza a più livelli. Le dichiarazioni del leader israeliano lasciano tuttavia ampio spazio alle interpretazioni. E’ innegabile che al momento in Europa il livello di guardia è stato superato, il fondamentalismo islamico ha lanciato la sua guerra santa al cuore del continente. Attacchi terroristici, profanazione di luoghi di culto, attentati alla stampa. Gli ebrei, ma non solo, sono purtroppo vittime del neo fanatismo islamico. In questo contesto l’invito lanciato da Gerusalemme a migrare in Terra Santa suona come un mantra per esorcizzare la paura e non una vera e propria strategia, lo stesso ragionamento vale per il nucleare iraniano. Il problema è che al momento non solo le comunità ebraiche ma tutti noi abbiamo la stessa paura e dobbiamo affrontare il medesimo pericolo. Per questo il messaggio di Netanyahu è in realtà fuorviante: lascia adito all’idea che l’unica alternativa possibile alla crisi attuale sia “fuggire” in un altro luogo, lontano da Parigi o Londra. Inoltre, le parole di Netanyahu introducono nella discussione il concetto che l’Europa non appartiene agli ebrei. Una tesi che è un falso storico, una bugia dalle gambe corte e pericolosa. Non ci può essere futuro per l’Europa senza la presenza ebraica, è nei fondamenti della nostra società e cultura. Molti di noi forse ignorano di aver avuto antenati israeliti, in ebraico sono chiamati anusim. Nello scorso secolo gli ebrei europei che non seguivano l’ortodossia dei dettami religiosi erano identificati come assimilati. Oggi, nell’era della globalizzazione parlare di assimilazione è un controsenso, alla stregua della definizione di razza. Insomma, l’appello di Netanyahu non risponde alle esigenze e necessità del momento, è pura propaganda elettorale. E soprattutto non indica la prospettiva di un percorso di pace con i palestinesi, non chiarisce il modus operandi per una soluzione politica che stabilizzi la regione e che resta il principale problema irrisolto di questo secolo.