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IL SULTANO E LA SFIDA DELLE URNE

È quanto mai incerto l’esito delle prossime elezioni parlamentari e presidenziali in Turchia. Occhi puntati su cosa accadrà il 14 maggio. Manca veramente poco all’apertura delle urne e la partita elettorale è entrata nel vivo. La sfida tra Erdoğan e il leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu è aperta, lo scarto tra i due, secondo gli ultimi sondaggi, è minimo.
Molto potrebbe dipendere da due fattori, a chi andranno le preferenze dei giovani e per chi voteranno i curdi (circa il 20% della popolazione). Se i secondi da tempo non rappresentano una base di consenso da cui pesca il presidente, i primi invece sembrano fluidi nell’indicazione di voto. Comunque vada, per la prima volta le opposizioni hanno mostrato di avere una concreta possibilità di sconfiggere il Sultano di Istanbul e destabilizzare la sua immagine da eterno vincitore. Per l’opposizione l’aver sottoscritto un accordo di larghe intese e scelto quale candidato Kilicdaroglu, soprannominato il “Gandhi turco”, si è dimostrata una mossa competitiva, che ha mandato in tilt la macchina della propaganda di Erdoğan.
Il ventennio di potere ininterrotto, da parte del partito AKP e del suo padre padrone, rischia di essere al tramonto. Nessuna ombra di dubbio sul fatto che queste elezioni siano oramai un vero e proprio referendum nei confronti dell’attuale presidente. L’uomo forte del Bosforo è oggi probabilmente al livello più basso di popolarità. Disamore e disincanto da parte di una larga fetta del suo popolo, che gli rimprovera di non aver saputo affrontare la crisi economica e finanziaria, in cui è precipitato il paese nel 2018. E da cui non riesce a risollevarsi. In aggiunta alla lentezza nella gestione degli aiuti del recente tragico sisma, che a febbraio ha colpito Turchia e la vicina Siria, oggetto di diffuse critiche. Che hanno costretto sempre di più Erdoğan a rincorrere l’avversario nei sondaggi di gradimento, che lo danno in leggero svantaggio.
L’essersi buttato a capofitto nella campagna elettorale gli ha comportato un notevole stress. Il malore in diretta televisiva, seppure le immagini sono state tagliate dalla regia, hanno scatenato notizie sulle sue condizioni di salute. Convincendo il longevo politico turco a prendersi una breve pausa, prima di tornare in pista nel cruciale rush finale, al suono di allettanti promesse. Per farsi rieleggere punta tutto su: costruzione di 650.000 nuove case nella zona colpita del terremoto; sfruttamento del gas nel Mar Nero e transizione al nucleare con la centrale appena inaugurata; lotta all’inflazione e al terrorismo.
Con queste elezioni la Turchia è chiamata a decidere il suo futuro di potenza internazionale: partner di Bruxelles o tormento dell’Europa? Chi domani prenderà alloggio nel palazzo presidenziale di Ankara avrà il compito di chiarire definitivamente quale posizione tenere nella guerra ucraina. Il ruolo di mediazione diplomatica tra Kiev e Mosca fino ad oggi non ha prodotto molto. Se non un rafforzamento delle relazioni tra Russia, Turchia e Iran.

LA DIPLOMAZIA E LA LEGGE DEL SULTANO

In Turchia nel 2023 si svolgeranno le elezioni generali. Il grande banco di prova di Recep Tayyip Erdoğan. Nel Bosforo rispetto alle passate elezioni il clima politico che aleggia è decisamente cambiato. 
Il referendum del 2017 e la vittoria nelle urne l’anno seguente sono oramai solo lontani ricordi dei successi incamerati da Erdoğan, in una lunga carriera politica. Il rischio che venga sconfitto nel voto è una eventualità che prende campo, tanto da convincere lo stesso premier turco ad esortare con toni allarmistici i membri del suo partito Giustizia e Sviluppo (AKP), invitati recentemente a: “lavorare duramente per essere rieletti”. 
Il ticket con gli alleati di governo del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) è, al momento, l’unica certezza. Negli ultimi anni la trasformazione della Turchia è andata avanti imboccando una deriva autocratica ma non riscuotendo un ritorno in termine di consensi. Da un lato Erdoğan ha forzato la mano attraverso il cambio di sistema della repubblica, da parlamentare a presidenziale, e dall’altro ha introdotto politiche di riduzione dei diritti. In un contesto dove la pandemia ha solo accentuato le crepe di un modello economico sotto evidente stress. 
Ankara, oggi, affronta la peggiore crisi economica dal 2002. L’inflazione è balzata al 36,1%. La lira turca si è deprezzata. Il presidente islamista resta inamovibile nel voler tagliare i tassi d’interesse, per abbassare i prezzi di consumo, che invece salgono. Scelta economica decisamente azzardata in un quadro internazionale come quello attuale. Rimane innegabile che l’ex sindaco di Istanbul ha un problema di fondo sia con i curdi che con la libertà di stampa. 
Nel tentativo di silenziare l’opposizione non risparmia nessuna voce. Arrivando persino a situazioni che scadono nel tragicomico, come l’arresto della giornalista Sedef Kabaş. Colpevole di aver twittato ai numerosi follower il seguente proverbio: “Quando il bue giunge a palazzo, non diventa un re. Ma il palazzo un fienile”. Frase che Erdoğan ha ritenuto talmente lesiva da non poter rimanere “impunita”. Per la Kabaş, già in passato incriminata per aver espresso dissenso e critica, potrebbe presto arrivare una condanna.
L’offensiva lanciata da Erdoğan per imbavagliare l’informazione è identica a quella messa in atto sistematicamente da Putin, due leader che nel loro cammino hanno scoperto di avere molti interessi in comune. Lo storico riavvicinamento tra Mosca e Ankara, che pone tuttavia un problema oggettivo alla NATO, è allo stesso modo fragile. Il sodalizio ha retto su scenari internazionali come la Siria e la Libia, dove sono schierati su fronti opposti. I rapporti tuttavia si potrebbero complicare a causa della crisi tra Russia ed Ucraina nel Donbass. Nel caso il conflitto dovesse acutizzarsi il presidente turco sarebbe costretto a prendere la decisione su quale carro stare: quello di Mosca o quello Kiev. Nel mezzo questa volta difficilmente c’è spazio per barcamenarsi. Erdoğan ci proverà con la mediazione diplomatica, ma non è detto che funzioni.

IL SULTANO DELUDENTE

Il presidente turco Erdogan non gradisce il manifesto ambientalista firmato dagli ex ammiragli e li fa arrestare per golpismo. Un gruppo di ufficiali della marina in pensione ha criticato la realizzazione di un faraonico canale tra il Mar Nero e il Mar di Marmara e sono finiti con le manette ai polsi. Il mega progetto alternativo alla rotta del Bosforo è definito “ecocidio” da insigni accademici. E andrebbe, tra le tante ricadute dirette o indirette per la stessa Istanbul, a mettere in discussione la convenzione di Montreux del 1936, che prevede il libero passaggio attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli delle navi civili, anche in periodo di guerra. Un’imponente infrastruttura che liscia la grande cantieristica edile nazionale, ma vede l’alzata di scudi di ecologisti ed opposizione al governo.
Nell’aprile 2015 quando Bruxelles sollecita Ankara a riconoscere il genocidio armeno la risposta di Erdogan è: “Quello che dicono mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro”. Oggi, il problema del “sultano” a forza di non ascoltare nessuno è che le fila dei suoi estimatori si sono decisamente assottigliate. L’uomo forte dell’Anatolia ha perso carisma, iniziando il declino di popolarità. In Turchia l’onda di protesta cresce di giorno in giorno e guarda al voto del 2023. I timori che possano essere elezioni non libere trova conferma soprattutto nei continui proclami di Erdogan, che risuonano come pericolosi passi indietro per la fragile democrazia turca. Inoltre, il boom economico, cavallo di battaglia del leader del partito AKP, si è sgonfiato e l’inflazione galoppa al 16%. Mentre, i diritti civili sono costantemente umiliati e sfigurati. L’uscita dalla convenzione contro la violenza sulle donne – trattato di cui Istanbul era primo firmatario – è solo l’ultimo capitolo di un romanzo cinico.
Nell’anno della pandemia in Turchia sono stati commessi oltre 300 femminicidi. Alla base della decisione di Erdogan ci sarebbero sia calcoli politici che diplomatici: ennesimo caso di avvicinamento a Putin, a cui non è mai piaciuta, e allo stesso tempo un messaggio di propaganda interna per ingraziarsi l’elettorato islamico conservatore. In contemporanea al criminale abbandono di uno strumento giuridico particolarmente sensibile, il “sultano” mandava anche un altro segnale al popolo turco, licenziando in tronco il governatore della Banca centrale, Naci Agbal. Atto sbrigativo che non è piaciuto agli investitori, crollo dei titoli e sospensione delle negoziazioni in Borsa. Dubbi anche sulla tenuta delle riserve valutarie che sarebbero stimate «vicine allo zero». Erdogan, tuttavia, pare intenzionato a non voler desistere dalla campagna contro i tassi d’interesse elevati.
Sul fronte internazionale resta accesa invece la polemica con Macron, dopo le questioni nel mar Egeo e in Libia, il contenzioso si è spostato alla realizzazione della moschea di Eyyub Sultan a Strasburgo, ad opera di una controversa associazione filo-turca. Per l’Eliseo l’evidente richiamo neo ottomano che si propaga in Europa non è assolutamente da sottovalutare.

IL SULTANO CHE L’UNIVERSITA’ CONTESTA

In Turchia si allarga la protesta. La scintilla che ha fatto scattare le manifestazioni studentesche è stata la nomina di Melih Bulu a rettore dell’Università Boğaziçi. Bulu è un noto esponente del partito AKP del presidente Erdogan, tra le cui fila si è più volte candidato. Figura molto vicina al Sultano che ha voluto personalmente caldeggiare l’incarico nella prestigiosa Università del Bosforo, ateneo famoso per essere considerato trai i più progressisti del Paese. Il conferimento a Bulu è stata una scelta imposta dall’alto, decisione che però non è piaciuta al mondo accademico e tantomeno agli studenti. L’onda del movimento contro l’evidente intromissione della politica negli “affari” universitari è montata propagandosi anche ad altre università. Cortei, disordini e centinaia di studenti arrestati in pochi giorni nelle principali città. Sintomi di un malcontento generale, che serpeggia sia tra i giovani – il tasso di disoccupazione sfiora il 30% – che tra le famiglie della classe della media borghesia, quella su cui ha pesato maggiormente la recente crisi economica e finanziaria con la perdita di posti di lavoro e riduzione del potere d’acquisto. Svalutazione della moneta ed aumento del debito pubblico, con il calo di consensi per un logorato Erdogan. Indebolito nei sondaggi e battuto nella precedente tornata di elezioni amministrative. Dal post golpe del 2016 ad oggi l’uomo solo al comando ha tracciato un percorso di governo poco incoraggiante: meno libertà e laicità, più accentramento monopolistico. Ha silenziato le voci di dissenso, attuando una repressione indiscriminata. Ha introdotto misure di stampo conservatore e religioso, chiuso decine di facoltà e purgato quasi diecimila docenti. Aprendo una netta frattura generazionale, in una Turchia polarizzata e indirizzata verso le prossime cruciali elezioni politiche, previste per il 2023, quando i nodi verranno al pettine. Le possibilità di Erdogan di restare eternamente sul trono tendono a diminuire. Le urne che avevano incoronato la sua ascesa potrebbero invece segnare il suo declino di popolarità, mettendo fine al sogno di re-instaurazione imperiale. In politica estera Erdogan ha mostrato un atteggiamento non meno sfrontato di quella interna, alleandosi con Putin e minacciando l’Europa. Nell’estate 2020 non è stata solo la pandemia a preoccupare. Le tensioni tra Ankara ed Atene sono state sul punto di degenerare in un conflitto. Il Mar Egeo solcato da fregate pronte alla battaglia, evitata grazie alla mediazione di Berlino. Qualcosa di quella crisi lampo è stato in parte ricucito in questi mesi, i leader dei due stati si sono seduti al tavolo e stretti la mano. Un primo passo importante per tentare di diramare le tante dispute esistenti: status delle isole, diritti sull’estrazione di gas, sovranità sulle acque e spazio aereo. Resta da placare tuttavia il pesante scontro diplomatico con Macron. Se il Sultano intende avvicinarsi al Continente deve prima chiedere scusa all’inquilino dell’Eliseo.

GUERRA NEL CAUCASO

Erdogan e Putin sono i classici due galli in un pollaio. Due leader arroganti e dispotici. Che prima o poi si troveranno a battibeccare l’uno con l’altro, contendendosi lo spazio vitale oramai entrato in aperta sovrapposizione. Hanno evitato di scontrarsi in Siria, grazie ad un accordo di collaborazione nel segno della pax di Mosca: affari a saldare le relazioni. Si sono tenuti a debita distanza di fuoco in Libia, dove sono schierati su fronti contrapposti, ciascuno con un proprio uomo: il generale Haftar per la Russia, l’architetto al Serraj per la Turchia. Ma nel Caucaso, nella guerra trentennale tra Baku e Yerevan uno dei due player internazionali è effettivamente di troppo.
In questi anni gli eccessi del Sultano sono stati sia interni, con la repressione alla libertà di stampa e l’avvio di un sistema di governo sempre più autocratico, che esterni: le invasioni militari nel Kurdistan siriano alla caccia dei “terroristi” indipendentisti. Mercenari e droni per coprire l’avanzata del governo islamico di Tripoli nel Sahel libico. Le truppe in Qatar. L’appoggio ad Hamas a Gaza. La flotta schierata nell’Egeo in assetto di guerra. Dove rivendica diritto e interessi allo sfruttamento nelle acque di Grecia e Cipro. Pattugliate in via precauzionale dalla marina greca, francese ed italiana. Parte di una larga alleanza geopolitica insieme ad Egitto ed Israele, cuscino alle mire di espansione imperialistica di Ankara nel Mediterraneo. La controversia con Atene è frutto anche di un deliberato calcolo politico di Erdogan. Il sultano di Istanbul, archiviato il golpe, appare oggi debole nei consensi, nel bel mezzo di una doppia crisi: quella finanziaria e quella della pandemia. Non potendo risolvere nessuna delle due guarda fuori dal Bosforo alla ricerca di riconoscimenti e di nuove aree di influenza. Trump gli ha lasciato mano libera nella regione avvisandolo di non esagerare troppo. Biden, in caso di vittoria, potrebbe correggere l’approccio della Casa Bianca.
Erdogan non perde occasione per proclamarsi condottiero dell’islam, arrivando persino a invocare la liberazione dei luoghi santi di Gerusalemme. Lo zar Putin invece è in campagna per legittimare la sua autorità quale difensore della chiesa ortodossa e degli slavi. La vicenda delle ostilità per la contesa della regione del Nagorno-Karabakh tra Azerbaijan e Armenia, tra musulmani e cristiani, è un punto di rottura diplomatico che rischia di incrinare l’amicizia tra Putin ed Erdogan. In un conflitto latente che il Cremlino nel nome della realpolitik ha storicamente fomentato e giostrato con astuzia. Tradizionalmente sostenendo l’Armenia, pur vendendo sotto banco armi ai suoi nemici.
Strategia a senso unico per il leader del partito turco AKP, non può avanzare nel Mediterraneo orientale senza adirare l’Europa e tantomeno può sfondare nei Balcani o nel Caucaso meridionale, dove il protettore di serbi e armeni non è un santo ma Mosca. E ora Ankara deve decidere se restare nel pollaio o tornare sotto l’ala protettiva di Washington.

DOSSIER KURDISTAN

Erdogan, il sultano di Istanbul, è determinato ad andare avanti nel suo piano di “decurdificazione” della vicina Siria, con un’operazione militare di pulizia etnica della zona a ridosso del confine tra i due stati del Medioriente. Una pagina di guerra nella guerra destinata a modificare la geografia del Paese martoriato da anni di conflitti. In Siria la minoranza curda rappresenta circa il 10% della popolazione, in Turchia sono circa 13milioni. Nella storia contemporanea la prima vera ribellione di stampo nazionalista dei curdi si ebbe nel 1881, una rivolta che la Sublime Porta represse nel sangue, l’Impero Ottomano aveva iniziato a sgretolarsi, tuttavia, il pugno duro contro la minoranza non venne meno. A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo il regime di Hafez al-Assad ha fornito sostegno strategico al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e rifugio al suo leader storico Abdullah Ocalan. L’aver sposato la causa dell’indipendentismo curdo, seppur non ufficialmente, era per Damasco l’arma puntata su Ankara. In quel periodo, per sfuggire all’ondata di repressione del governo turco e l’intensificarsi delle azioni terroristiche, in migliaia di curdi passarono il confine, stabilendosi in Siria, mantenendo così uno stretto legame tribale e politico con coloro che erano rimasti sul suolo turco. Le tensioni tra i due stati ebbero un picco nel 1988 e un conflitto pareva imminente. Il popolo curdo era diventato ancora una volta una pedina, sacrificabile, al tavolo delle trattative diplomatiche. Come era avvenuto nel 1920 con il trattato di Sevres, dove per la prima volta venne disegnata una carta geografica con lo stato del Kurdistan. Ma già tre anni dopo a Losanna le potenze europee avevano stracciato quella mappa, ammainato e calpestato la bandiera del diritto all’autodeterminazione di quel popolo e raggiunto un’intesa con il nascente stato turco. Il dossier curdo finì in un cassetto delle cancellerie e ci rimase sino alla seconda guerra del Golfo. Intanto, nel 1998 la Siria aveva invertito i rapporti e sottoscriveva ad Adana uno storico accordo con la controparte turca. La cooperazione andò ben oltre quanto siglato nel trattato: la polizia dette un giro di vite all’apparato del PKK, smantellando la rete di comunicazione e propaganda dell’organizzazione, vietarono le pubblicazioni anti-turche e proibirono le manifestazioni; escludendo le candidature alle elezioni per i simpatizzanti del movimento. E acconsentendo ai soldati della mezza luna di inseguire i nemici anche nel proprio territorio. L’ascesa in parallelo di Erdogan e Bashar al-Assad fortificò le relazioni, sia sul piano commerciale che sulla sicurezza, entrò in vigore il principio “zero problemi tra vicini”. Il labirinto della guerra civile avrebbe però qualche anno dopo portato alla rottura dell’amicizia, e ad un riavvicinamento con il movimento autonomista curdo. Mentre, all’orizzonte il sultano con giannizzeri e jihadisti manovra per imporre la dottrina dello “zero vicini”.

ERDOGAN E L’OCCUPAZIONE SIRIANA

Il sultano di Istanbul ha ammassato ingenti truppe lungo il confine nel nord della Siria, pronto a lanciare i suoi giannizzeri all’assalto delle roccaforti curde. Il presidente Erdogan ha strappato dopo una telefonata la luce verde da Trump sul via libera all’operazione militare in territorio siriano, per poi ricevere qualche ora dopo quella rossa dai vertici del Pentagono. L’ennesimo corto circuito di un’amministrazione dove il capo agisce istintivamente senza coordinarsi con consiglieri, esperti e subalterni, un caso di bipolarismo istituzionale che ha contrassegnato più volte il cammino di questo mandato dell’inquilino della Casa Bianca, poco avvezzo alle dinamiche della macchina statale, di cui dimostra di non fidarsi, infischiandosene liberamente.

Dal 2016 le forze armate turche hanno sconfinato nel vicino stato per ben due volte, con incursioni pianificate e vigilate attentamente dagli statunitensi, che hanno tracciato l’area d’intervento delle forze di Ankara e di fatto messo in protezione il grosso delle conquiste degli alleati curdi. Questa volta l’obiettivo di Erdogan è di spingersi molto all’interno, sprigionando una vera e propria invasione, destinata a destabilizzare nuovamente la regione. Rimettendo in gioco gli assetti geopolitici, delineando una nuova cartina per uno stato ormai definitivamente compromesso, in balia delle tensioni interne e di quelle esterne. Dove tutti gli attori assumono un proprio ruolo e significato: ideologico, politico, religioso, tra interessi economici, terrore e guerra. L’implosione di Damasco, la frammentazione della Siria sono un’evidente realtà lontana dal trovare una soluzione.

Mentre, le implicazioni dirette di una campagna turca nel nord della Siria sono: cambiamento demografico a scapito della minoranza curda, scacciata e sostituita da profughi siriani di tradizione arabo-sunnita; il rischio di risorgere del Califfato o il prolificare delle sue affiliazioni; due potenziali conflitti di lunga durata, uno contro la resistenza curda e l’altro contro i fedeli di Assad; la Russia che rafforza la sua posizione da “notaio” internazionale, gli USA che dimostrano inaffidabilità, l’Europa vittima di un doppio dilemma: quello dei migranti che Erdogan potrebbe riversare sulle coste della Grecia e quella di un popolo lasciato solo a difendere i propri diritti.

IL SULTANO IN TOUR

La striscia di sangue a Gaza e l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme hanno inasprito le relazioni tra Turchia e Israele. Lo scambio di accuse, il teatrino dell’espulsione dei diplomatici, umiliati ed esposti alla gogna mediatica, lo stallo dell’ONU e la recente riunione d’emergenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica danno il senso dell’agonismo geopolitico in campo. Recep Tayyip Erdogan punta a diventare la sintesi delle diverse anime dell’islam, e fare della Turchia la più grande potenza, non araba, nella regione. Per raggiungere il suo obiettivo sventola la bandiera di Al-Quds, la Gerusalemme araba, ergendosi a difensore dei fratelli sunniti palestinesi con l’obiettivo di isolare Israele. L’ambiziosa strategia del leader turco è tuttavia frenata da Egitto e Arabia Saudita, riguardevoli alle apprensioni, pressanti, della Casa Bianca. Erdogan è convinto di uscire vittorioso dalle prossime elezioni, anticipate a giugno, e a quel punto monopolizzare il potere, presentandosi quale leader supremo del Medioriente, con o senza l’esplicito appoggio di Washington.
Erdogan è un personaggio complesso, repentino nel cambiare gli amici in nemici giurati, come accadde con l’imam Fethullah Gulen e il presidente siriano Bashar al-Assad. Spietato persino con gli alleati, il delfino Davutoglu ha pagato la troppa notorietà ed è finito esautorato. È uno dei leader mediorientali più importanti e controversi, sfrontato nel caso della crisi tra i Paesi del Golfo: mentre offriva le credenziali di mediatore al di sopra delle parti ordinava l’invio di militari in difesa del Qatar. Diffida apertamente della Merkel, ricambiato, e dei paletti dell’Unione europea, posizionati un po’ alla rinfusa e ai quali risponde con la costante minaccia di riversare milioni di profughi alle frontiere. Ambiguo, volutamente, con l’Iran. Fedele, per ora, al matrimonio con Mosca, in un asse saldato da cooperazione energetica e militare. Mai amico dei curdi, impegnato in una pulizia etnica senza confini che dalla Siria potrebbe spostarsi fino all’enclave irachena.
Sul piano interno Erdogan ha prima dato benessere e sviluppo al Paese, quando è stato sul punto di traslocare nel condominio europeo ha buttato all’aria i risultati ottenuti esercitando il suo mandato in modo autoritario e illiberale, dimostrandosi un dittatore democratico e populista. Oggi però l’economia del Bosforo, nonostante i dati rassicuranti sulla crescita del Pil dei primi mesi del 2018, non è più quella del passato. Gli analisti prevedono un trend negativo, dovuto a vari fattori concomitanti: svalutazione della lira turca, inflazione e crescita dei tassi d’interesse, aumento dei costi delle materie prime ed esposizione del sistema bancario ad una fuga degli investitori. In piena campagna elettorale è stato accolto nella Londra della Brexit con il tappeto rosso dalla Lady May, ma bocciato dalla City per l’intenzione di mettere sotto controllo la Banca Centrale. Il Sultano di Istanbul ha sfidato l’Europa anche da dentro, appellandosi ai milioni di turchi che vi vivono. Germania, Belgio, Olanda e Austria hanno bandito i suoi comizi. E lui per rafforzare il tour elettorale ha scelto i Balcani e la piazza di Sarajevo, il cuore esplosivo di tanti conflitti disastrosi, dove unire idealmente i musulmani bosniaci e turchi nella conquista non delle mura di Vienna ma dei palazzi di Bruxelles. L’offensiva balcanica di Erdogan è da tempo in atto, miliardi di investimenti hanno riguardato Albania e Macedonia. Ha fatto costruire moschee e aprire scuole coraniche, seguendo un modello (quello dei centri culturali imam hatip dove si è formato lui stesso) che vorrebbe esportare dall’Italia alla Norvegia.
Cresciuto a Kasimpasa in un quartiere difficile di Istanbul, i residenti della zona sono comunemente associati ad un caratteristico comportamento spavaldo, ha sempre mostrato un atteggiamento arrogante: prima nel disprezzo per la èlite kemalista, laica e benestante, poi nel deridere i richiami dell’Europa ai diritti fondamentali e infine, nell’odio per Israele.

UN ANNO DALLA CONGIURA AL SULTANO

La lunga notte del 15 luglio 2016 sulle sponde del Bosforo ha fatto calare le tenebre sulla democrazia turca. Le prime notizie televisive arrivarono alla rinfusa, parlavano di una orchestrazione ad opera di alcuni vertici dell’esercito: “In Turchia è in corso un tentativo «illegale» di assumere il potere da parte di alcun militari”. Carri armati nelle strade di Ankara mentre i jet F16 sorvolavano la capitale a bassa quota. Bloccati i media e i social network. Altre azioni dell’esercito in tutta la Turchia. La Cnn turca riferiva che i principali ponti ad Istanbul erano chiusi, occupati da reparti militari. Poche ore di dubbio su quanto stava realmente avvenendo: Erdogan arrestato, ucciso, in fuga? E poi lo stesso presidente compare sullo schermo di un cellulare e chiama in difesa la popolazione civile, la reazione è immediata: migliaia di persone salgono sui ponti dell’Anatolia, minacciate da colpi d’arma da fuoco, mettendo a rischio la propria incolumità. Il popolo turco assedia i golpisti che si arrendono, impauriti. Erdogan ha vinto e può sprigionare con forza tutta la sua rabbia.

Di congiure naufragate tragicamente la storia è piena, si sono abbattute su tutti i continenti in tutte le epoche. La sobillò Catilina nell’antica Roma di Cicerone e il cattolico Guy Fawkes nell’Inghilterra della dinastia Stuart. L’ultima in ordine cronologico è quella dello scorso luglio. Allora, a salvare la poltrona dell’ex calciatore salito al trono di Istanbul fu la sollevazione popolare, e un pizzico di “fortuna” dovuta al fatto che i militari rivoltosi, durante i momenti cruciali del golpe, restarono numericamente un gruppo esiguo, minoritario e mal organizzato. Una oscura trama di commistione tra la burocrazia che ruota intorno al palazzo e le alte cariche dell’esercito che stando alla versione di Erdogan sarebbe stata disegnata dal ricco predicatore Fetullah Gulen. Il quale, in esilio in USA, tuttavia ha sempre negato di essere l’architetto del complotto. Ma che molti, sotto interrogatorio, e presumibilmente anche tortura, avrebbero direttamente indicato come il vero mandante.

Il ripristino della “legalità”, post attentato alle istituzioni, ha innescato un processo antidemocratico, caratterizzato da purghe e arresti indiscriminati. Con lo strumento dello stato d’emergenza prolungato sono state oscurate le libertà, a partire da quella di stampa. La spirale degli eventi ha portato ad una “incrinatura” diplomatica tra Ankara e Bruxelles, allo stesso tempo ha segnato un divario storico tra Ankara e Washington, mettendo una pietra tombale nelle relazioni tra Erdogan e Obama. Dalle ceneri del golpe ha preso corpo uno spostamento degli assetti geopolitici: il patto di ferro con Mosca, per arginare il terrorismo jihadista, e la saldata alleanza strategica nella regione con il Qatar, in chiave di protezione alla fratellanza musulmana e alle sue emanazioni.
Il Sultano di Istanbul dopo aver sventato il pericolo ha “legittimato” il proprio potere attraverso lo strumento referendario, aprendo le porte, a scenari di una possibile deriva dittatoriale. Spaccando la società e facendo risorgere l’opposizione laica e democratica.

Il weekend appena trascorso ha visto celebrazioni ufficiali in tutta la Turchia per il primo anniversario del fallito golpe. Un tripudio di bandiere e slogan, cerimonie imponenti, retorica populista e nazionalista. Per ricordare l’epopea di quelle ore travagliate e convulse, di cui ci resta il dramma delle oltre duecento vittime e delle migliaia di persone finite nelle maglie della rete dell’epurazione senza fine. Ai morti l’onore dell’eroica narrazione della propaganda. Ai secondi l’accusa infamante e imperitura del vigliacco tradimento della patria, un’onta sprezzante che merita il “taglio della testa”. Questo ha promesso il Sultano dal palco alla folla, ad una Turchia euforica e cieca, diventata una insidia per l’Europa e per i suoi ideali.

LETTURA DEL VOTO TURCO

Il sultano Erdogan avrebbe voluto un plebiscito per cambiare la costituzione e introdurre il presidenzialismo invece, si è salvato per il rotto della cuffia grazie al voto dei turchi all’estero e sopratutto, come denunciato da più parti, a possibili brogli con migliaia di schede elettorali manipolate. Voleva vincere facile, con i media sotto controllo, al punto che la campagna referendaria è stata definita dagli osservatori internazionali “ineguale”. Tutto ciò premesso alla fine il divario di tre punti tra il SI e il NO non è un dato asfittico, ma è un elemento da prendere in seria considerazione. Matematicamente il Paese è profondamente spaccato. Mentre la lettura geografica mostra che Istanbul ha voltato le spalle al suo “capace e onesto” (era il 1994) ex sindaco. Smirne ha confermato la vocazione kemalista. La capitale Ankara ha “tradito” il palazzo del potere. Politicamente il rais non può crogiolarsi sugli allori di questa mezza vittoria. Erdogan ha reagito affrettandosi a rinnovare lo stato d’emergenza, negando ancora una volta ogni soluzione conciliante con l’opposizione, sino a promettere un nuovo referendum per riportare la pena di morte. Insomma se la corte del sultano pensava che il referendum potesse avallare gli eccessi di questi mesi qualcosa gli è andato storto. Il leader turco ha peccato di superbia nei confronti di quell’elettorato molto pragmatico che in questi anni è stata la base del suo successo. Nel segreto dell’urna la fedeltà al rais è venuta meno. Una fetta abbondante della popolazione ha fatto capire che è in atto una lunga e diffusa resilienza al regime erdoganista. Hanno preso le distanze da un indirizzo politico che apertamente spinge per ridurre la libertà e la laicità, chiedendo di rimanere nei confini del riformismo dettati da Ataturk un secolo prima. Mostrando che la credibilità del leader ha un limite pesante che nemmeno la propaganda di regime può mistificare. I risultati del voto in questo senso ridimensionano l’Akp (un tempo in Italia definita “una DC islamica”) e il suo capo, responsabilizzando sempre di più il governo di Ankara. Sul piano internazionale lo spettro di un confronto aperto con l’Europa sulla questione migranti non può essere scorporato da un rapporto economico privilegiato per l’economia turca: accordo di unione dogale per i prodotti turchi ancora in vigore; migliaia di aziende europee presenti nel territorio; i fondi Ue per lo sviluppo piovuti a pioggia; il maxigasdotto diretto in Italia, gli investimenti massicci per l’industria e il turismo. Se Erdogan decidesse di tirare la corda andrebbe prima di tutto contro gli interessi nazionali, e in molti casi anche quelli stessi della cerchia finanziaria che lo sostiene. Con i suoi interventi a gamba tesa l’ex calciatore (che per studiare rifiutò un’offerta del Fenerbahce) si è preso un cartellino giallo dall’arbitro di Bruxelles. In passato altre strigliate gli erano giunte da Obama. Nell’era di Barack i rapporti tra i due leader erano freddi. Allora però poteva contare sull’appoggio della Merkel. Ma le fila degli amici europei del sultano si sono rapidamente assottigliate. E se un amico si vede nel momento del bisogno, Trump non si è fatto smentire e ha chiamato, congratulandosi, il presidente turco. Una telefonata con lo scopo di mandare un messaggio all’Europa: il populismo di Erdogan è apprezzato dalla Casa Bianca. Anche se viene imposto con metodi antidemocratici. Inoltre Trump, e la sua famiglia, hanno interessi commerciali in Turchia mai negati. Nel colloquio del presidente americano quindi passione per l’emulo d’Oriente e un occhio al portafoglio degli affari. Analisti internazionali spiegano che il fervore trumpiano per il sultano in realtà nasconde obiettivi strettamente militari: il ruolo di Ankara è cruciale nella battaglia contro il Califfato, nel frenare l’Iran e per l’esistenza della Nato. Un alleato vitale a cui perdonare tutto, o quasi, in uno scenario di guerra permanente. E Trump per convincere Erdogan a rimanere dalla sua parte potrebbe offrirgli una sponda contro l’Europa e forse la testa dell’acerrimo nemico Gulen. Il sultano è convinto di aver vinto la sua partita, peccato per lui che ci siano i supplementari da giocare e gli avversari sono ancora in campo.