Nella nostra storia contemporanea abbiamo già avuto modo di scrivere pagine tragiche ricordando coloro che sono caduti durante missioni di pace, compiendo gesti di solidarietà e umanità. La loro memoria è entrata nella cultura di intere generazioni come del resto i luoghi lontani dove hanno perso la vita, da Nassiriya a Gaza, da Farah a Beirut. E infine Kanyamahoro, nella Repubblica Democratica del Congo, dove sono morti l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista. Vittime del fanatismo e di forti interessi economici e geopolitici internazionali. Nel Novembre del 1961 la notizia dell’avvenuto massacro nel Congo di tredici militari dell’Aeronautica Militare italiana scosse l’Italia. Si trattava di un gruppo di aviatori appartenenti alla 46ª Brigata Aerea in missione per conto dell’Onu, in un area devastata dai conflitti. Era la prima volta, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, che partecipavamo come Caschi Blu ad un incarico sotto il vessillo internazionale. Tra l’11 e il 12 Novembre mentre viaggiavano disarmati e trasportando generi alimentari, furono fatti prigionieri e giustiziati, perchè ritenuti mercenari. Nei giorni a seguire sulla stampa molti i dettagli atroci sulla sorte dei cadaveri che non rispondevano tuttavia al vero. Di quanto fosse accaduto poco o nulla si sapeva. I corpi vennero ritrovati mesi dopo in fosse comuni nel villaggio di Tokolote. Nel 1962 le salme furono finalmente rimpatriate. Oggi riposano nei pressi dell’aeroporto di Pisa in uno sacrario a loro dedicato che porta il nome di Kindu, la città congolese dove perirono. Le circostanze precise e l’identità degli assassini non sono mai state appurate pienamente. Testimoni hanno raccontato che l’ufficiale medico Francesco Paolo Remotti sarebbe stato il primo ad essere ucciso. La mediazione per liberare gli altri fallì. Due mesi prima il segretario generale al Palazzo di Vetro, il diplomatico svedese Dag Hammarskjöld, era morto in circostanze misteriose mentre, tentava di negoziare la pace nella regione. Allora, il Congo era appena diventato indipendente, ma aveva perso (dopo essere stato destituito) l’uomo che stava guidando il cambiamento, Patrice Lumumba, il primo e, per molti anni, unico leader congolese ad essere stato eletto democraticamente nel 1960. Nel fragile stato africano tra spinte secessioniste e lotta per il controllo delle risorse minerarie, la guerra incombeva nella sua totale drammatica opacità. Poco è cambiato in questi lunghi anni in quella parte d’Africa. Nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) la guerra è oggi una quotidianità. Il jihadismo si è sovrapposto ai conflitti tribali esistenti. Bande armate senza un centro di comando, sigle del franchising di Al Qaida che saccheggiano, razziano e stuprano. Piccoli eserciti di profughi hutu che spadroneggiano indisturbati. Decine di differenti gruppi di miliziani che fanno di quella parte del mondo un luogo oscuro e pericoloso. Dove anche un convoglio umanitario è una preda.
Archivi del mese: febbraio 2021
IL SULTANO CHE L’UNIVERSITA’ CONTESTA
In Turchia si allarga la protesta. La scintilla che ha fatto scattare le manifestazioni studentesche è stata la nomina di Melih Bulu a rettore dell’Università Boğaziçi. Bulu è un noto esponente del partito AKP del presidente Erdogan, tra le cui fila si è più volte candidato. Figura molto vicina al Sultano che ha voluto personalmente caldeggiare l’incarico nella prestigiosa Università del Bosforo, ateneo famoso per essere considerato trai i più progressisti del Paese. Il conferimento a Bulu è stata una scelta imposta dall’alto, decisione che però non è piaciuta al mondo accademico e tantomeno agli studenti. L’onda del movimento contro l’evidente intromissione della politica negli “affari” universitari è montata propagandosi anche ad altre università. Cortei, disordini e centinaia di studenti arrestati in pochi giorni nelle principali città. Sintomi di un malcontento generale, che serpeggia sia tra i giovani – il tasso di disoccupazione sfiora il 30% – che tra le famiglie della classe della media borghesia, quella su cui ha pesato maggiormente la recente crisi economica e finanziaria con la perdita di posti di lavoro e riduzione del potere d’acquisto. Svalutazione della moneta ed aumento del debito pubblico, con il calo di consensi per un logorato Erdogan. Indebolito nei sondaggi e battuto nella precedente tornata di elezioni amministrative. Dal post golpe del 2016 ad oggi l’uomo solo al comando ha tracciato un percorso di governo poco incoraggiante: meno libertà e laicità, più accentramento monopolistico. Ha silenziato le voci di dissenso, attuando una repressione indiscriminata. Ha introdotto misure di stampo conservatore e religioso, chiuso decine di facoltà e purgato quasi diecimila docenti. Aprendo una netta frattura generazionale, in una Turchia polarizzata e indirizzata verso le prossime cruciali elezioni politiche, previste per il 2023, quando i nodi verranno al pettine. Le possibilità di Erdogan di restare eternamente sul trono tendono a diminuire. Le urne che avevano incoronato la sua ascesa potrebbero invece segnare il suo declino di popolarità, mettendo fine al sogno di re-instaurazione imperiale. In politica estera Erdogan ha mostrato un atteggiamento non meno sfrontato di quella interna, alleandosi con Putin e minacciando l’Europa. Nell’estate 2020 non è stata solo la pandemia a preoccupare. Le tensioni tra Ankara ed Atene sono state sul punto di degenerare in un conflitto. Il Mar Egeo solcato da fregate pronte alla battaglia, evitata grazie alla mediazione di Berlino. Qualcosa di quella crisi lampo è stato in parte ricucito in questi mesi, i leader dei due stati si sono seduti al tavolo e stretti la mano. Un primo passo importante per tentare di diramare le tante dispute esistenti: status delle isole, diritti sull’estrazione di gas, sovranità sulle acque e spazio aereo. Resta da placare tuttavia il pesante scontro diplomatico con Macron. Se il Sultano intende avvicinarsi al Continente deve prima chiedere scusa all’inquilino dell’Eliseo.
BURMA GOLPE
Ieri Birmania, oggi Myanmar. Una storia contemporanea scritta per gran parte dai militari. Almeno fino al 2015, quando il partito dell’opposizione guidato da Aung San Suu Kyi vinse in modo schiacciante quelle che sono considerate le prime elezioni libere nel Paese. Il regime militare vedeva definitivamente incrinato il proprio potere, la giunta dei generali sembrava sul punto di tramontare definitivamente. Il palcoscenico e le luci erano tutte per la donna che aveva reso possibile questo sogno di democrazia. Ma la realtà era ben diversa dalle aspettative di cambiamento in cui tanti avevano riposto la propria speranza.
Il Myanmar è uno stato attraversato da una miriade di guerre intestine, focolai di rivolta presenti nelle regioni al confine con l’India e in quelle a Nord verso la Cina. Aree dove ciascun gruppo etnico rivendica ampi spazi di autonomia, sfoggiando milizie armate. Contenziosi e violenza. Interminabili guerre civili. Guerriglia e terrorismo. Attentati a cui il governo centrale ha risposto con il pugno duro, lanciando rappresaglie che hanno colpito indiscriminatamente anche la popolazione civile appartenente alle minoranze.
San Suu Kyi agli occhi di molti sembrava l’unica figura in grado di mediare le diverse anime in conflitto, riportare la pace, dare stabilità. È stata frettolosamente elevata a garante del percorso di riconciliazione tra le parti già prima di vincere la propria battaglia per la libertà. Per l’attività in difesa dei diritti umani, i lunghi anni trascorsi agli arresti, il coraggio dimostrato, è stata insignita del premio Nobel per la Pace. A lei, era stato affidato un compito immane, cambiare il corso della storia. Alla fine però si è dimostrata fragile e facilmente manovrabile, troppo condizionata dalla vecchia casta che orbita nella sfera di Pechino. L’aver abbandonato quella che appariva come l’unica vera opzione politica spendibile, l’introduzione di un sistema federale, è stato forse il maggior errore politico commesso.
A pesare nei rapporti di forza è stato il veto dei vertici militari, aspramente contrari a qualsiasi concessione apparisse come una minaccia all’unità nazionale. Non aver preso una netta posizione di critica sulla questione delle violenze nei confronti della comunità musulmana Rohingya ha ben presto oscurato la sua immagine internazionale. Dalle contestazioni, alle onorificenze ritirate, sino allo spettro dell’accusa di genocidio.
Nonostante i fallimenti il consigliere di stato San Suu Kyi, che non può per legge ricoprire la carica di premier, ha nuovamente portato alla vittoria elettorale il suo movimento. A novembre 2020, in piena ondata pandemica, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) ha ottenuto un plebiscito nelle urne. Il partito dell’esercito ha trumpianamente invocato “brogli” nei seggi, non riconoscendo l’esito finale. E così San Suu Kyi è ancora una volta tornata ad essere una vittima. Mentre sale la voce di condanna per il colpo di stato la Cina tace. Come se la cosa non fosse d’interesse, invece, lo è parecchio.