VARIABILE LIBICA

Nel vertice con Francia, Spagna e Germania, l’Italia ha raccolto plausi e consensi: cooperazione decentrata con gli enti locali libici e lotta ai trafficanti. Non sono mancate pacche sulle spalle e vigorose strette di mano. Tuttavia, il sentore è che non c’è un reale interesse ad operare in perfetta e piena sinergia per risolvere il caos libico. Nei fatti Macron pensa ad aprire hotspot (centri di accoglienza e detenzione) in giro per l’Africa, peccato ne esistano già e siano dei lager. La cancelliera tedesca è intenzionata a rivedere gli accordi di Dublino, e stravincere così le imminenti elezioni. Mentre, l’Italia vorrebbe evitare di restare isolata.
Comunque, per affrontare la questione libica nella sua interezza c’è prima da risolvere la variabile Khalifa Haftar. In questi mesi il generale libico ha ripreso la lunga marcia di conquista, occupando o liberando città e villaggi della costa. Ha scatenato quella che è la più grande campagna militare nel nord Africa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’Operazione Dignità. Una lotta spietata e durissima purtroppo non solamente contro il terrorismo. Fonti delle organizzazione per i diritti umani presenti sul territorio accusano gli uomini di Haftar di compiere metodicamente uccisioni di massa e di essere responsabili di “crimini contro l’umanità”: il tribunale dell’Ajia ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mahommud Al-Werfali, fedelissimo di Haftar, carnefice nell’assedio di Bengasi.
Il capo di stato maggiore della Cirenaica, tra propaganda e ostilità nei confronti di Roma, in un paese attraversato e devastato da odi tribali promette di mettere fine all’anarchia con l’uso della repressione. Gheddafiano pentito e collaboratore stimato della CIA, pretende dall’Europa un credito, economico e logistico, illimitato per schierare la sua milizia lungo la frontiera meridionale: respingendo i profughi, disarmati e alla fame, che vi transitano. Elucubrazioni dell’uomo oggi più potente in Libia.
Nel contesto della guerra civile libica contano, comunque, le alleanze internazionali. Haftar è legato da doppio filo al presidente egiziano Al-Sisi. Esercito e servizi segreti egiziani sono un fattore determinante dell’ascesa del generale libico. Ufficialmente il Cairo appoggia entrambi i governi: Tripoli e Tobruk. Una strategia di comodo per dimostrare alla comunità internazionale che ogni tipo di soluzione deve passare dalle rive del Nilo oppure è destinata a fallire: è il diritto di prelazione sul futuro assetto geopolitico della regione a prescindere da dove si sposterà l’ago della bilancia. Sul campo di battaglia Al-Sisi è spalla a spalla con l’Esercito nazionale libico (LNA) di Tobruk e di Haftar. Nell’emiciclo di New York parla la stessa voce del Governo di Unità nazionale (GNA) di Tripoli e di al-Serraj. Ambivalente? No, scaltro e freddo calcolatore. La partita nel Maghreb è talmente complessa che il rischio di esserne fagocitato è alto. Al-Sisi ha sfruttato le ambizioni napoleoniche di Macron tessendo, in parte segretamente, la rete che ha portato al vertice di Parigi del 25 luglio dove al-Serraj e Haftar hanno siglato la tregua di La Celle Saint Cloud. Un accordo precario che difficilmente verrà rispettato dalle parti, ma che se dovesse palesarsi disastroso e inconcludente avrebbe come unico capo espiatorio il giovane inquilino dell’Eliseo, e non il nascosto manovratore egiziano.
Intrighi e intrecci all’ombra dei quali si compie il dramma dei migranti. Sfruttati, torturati e schiavizzati, costretti in condizioni disumane a sopravvivere sulle dune del Sahel, nella speranza di un imbarco. Tappare l’imbuto della Libia alla migrazione può alla fine risultare proficuo, remunerativamente, a chi oggi gode d’impunità. La Turchia del sultano Erdogan, pagata profumatamente per bloccarli in un’altra sponda del Mediterraneo, insegna. Eppure, tutti vorrebbero aiutarli, a parole.

NO TENGO MIEDO

Poche ore di distanza e il grido Allah Akbar echeggia dalla Catalogna alla regione di Turku. Una serie di attentati a catena che se non orchestrati nel dettaglio sono sicuramente sponsorizzati Isis. Persino il web si tinge di nero con frasi farneticanti: “La Spagna è la terra dei nostri avi e noi la riprenderemo con la forza”. Agghiaccianti parole che non piegano gli spagnoli scesi in piazza: “No Tengo Miedo”, “Non ho paura”. Per capire a fondo la natura dell’Isis non è sufficiente fermarsi alla sua ideologia di morte e distruzione. Il terrorismo di matrice jihadista è il risultato degli effetti della crisi internazionale e dei conflitti localistici che imperversano nel Medioriente da anni. L’Isis non è solo una costola “impazzita” di Al Qaeda, è la sua metamorfosi strutturale. È un salto di qualità rispetto ad una visione che personificava il culto di Bin Laden. È il passaggio da un sistema che ruota intorno ad un sole a quello di una galassia di stelle sparse nello spazio infinito. Per questo anche se i seguaci del Califfato perdono terreno e sono sconfitti sul campo di battaglia mantengono un forte ascendente e ingrossano le fila nei quattro angoli del pianeta. Il regno del terrore muore lentamente tra le dune del deserto in Siria e Iraq ma il sogno resta, e nuove ondate sono pronte ad immolarsi per la causa. Alla vigilia dell’11 settembre 2001 al Qaeda contava su una forza di poche centinaia di unità, oggi lo stato islamico possiede nella penisola araba qualcosa come 40mila miliziani, un’armata imponente. Fanatici provenienti, in maggioranza, dal mondo arabo o reclutati nei paesi occidentali.Tuttavia il numero di forze impiegato nella difesa dei confini del pseudo Califfato, da Mosul a Raqqa, o nella conquista dei villaggi nell’est della Siria è solo la punta di un iceberg. Una rete ramificata si espande in Afghanistan, nel nord Africa e lungo la fascia Subsahariana, in Asia e nel Caucaso. Con cellule nelle città europee e in quelle statunitensi. Plotoni di uomini o lupi solitari pronti all’azione suicida. Impegnati in una guerra asimmetrica per definizione. Per spiegare l’ordine di grandezza del fenomeno jihadista in Siria ed Iraq è necessario partire dal disfacimento del partito d’ispirazione socialista e panarabo Baath, con la caduta di Saddam Hussein e lo sgretolarsi del regime di Assad. Vendette e odi, ufficiali fedeli ai regimi che cambiano casacca e, armi alla mano, passano con l’Isis. Affiliazioni frutto di scelte politiche legate a logiche tribali, non a rivendicazioni religiose sul diritto e la teologia islamica. E una tipologia di organizzazione mutuata dal franchising commerciale. L’aspetto fondamentalista è determinante nell’indottrinamento dei foreign fighters. Idealizzando il valore dell’ortodossia come unica strada per la redenzione, in una lotta senza confini agli infedeli “crociati”. Chi nel 2014, all’insorgere dell’Isis con la proclamazione della nascita del Califfato di Al Baghdadi, ha pensato che sarebbe di li a poco imploso, ha commesso un grave errore di sottovalutazione: non ha tenuto conto che in Turchia il sultano Erdogan pur di arginare i curdi sarebbe sceso a patti con i peggiori delinquenti, aprendo di fatto le frontiere. Resta oscuro e ambiguo il ruolo dei servizi segreti, tanto di quelli sauditi quanto della CIA, nella fase embrionale di Daesh. Invece, è stato trascurato il fatto che nelle prigioni di mezzo mondo una fascia generazionale lasciava la microcriminalità e abbracciava il credo fondamentalista: una sottocultura giovanile dedita allo spaccio dell’hashish che diventa ossessionata dalle cinture esplosive. È mancato anche il blocco alle casse, milionarie, che sostengono economicamente l’organizzazione. Mentre la comunità internazionale dava la caccia al nemico pubblico numero uno, un esercito silente attraversava continenti, montagne e deserti pronto a combattere nel nome di un islam distorto, diffondendo l’idea di un regno dei cieli in terra, portando caos, sangue, terrore e paura ovunque.

 

L’ESTATE DEL BIBIGATE

In Israele il governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia di voler oscurare l’emittente televisiva Al Jazeera, perchè fiancheggerebbe il terrorismo. Ma la decisione presa dal ministro delle Comunicazioni di Gerusalemme presenta talmente tante anomalie da risultare pressochè inefficace e quasi certamente fallimentare. Infatti, prassi vuole che la revoca delle credenziali ai giornalisti esteri deve essere motivata, e comprovata, con una informativa delle agenzie di sicurezza. Inoltre, per spegnere la CNN araba occorre il sostegno delle compagnie che mettono sul mercato i pacchetti televisivi via cavo o satellitari, anche in quel caso il provvedimento non avrebbe nessun effetto per il semplice dato che gli arabi israeliani seguono il canale qatariota avvalendosi di antenne paraboliche. Infine, la serrata delle sedi locali dell’emittente di Doha è materia del parlamento (Knesset). E ciò può avvenire solo dopo aver seguito l’iter burocratico: passaggio della  mozione nel gabinetto dei ministri, verifica di costituzionalità dell’atto da parte dell’avvocatura di stato e poi ritorno alla Knesset per il voto finale. Insomma, Al Jazeera resta accesa. Dietrologia vuole che con questa manovra il governo israeliano abbia voluto banalmente mandare un messaggio “distensivo” al blocco dei paesi del Golfo non allineati con il Qatar, emiri sauditi in primis. Intanto, un vero e proprio terremoto politico rischia di demolire la popolarità e definitivamente la carriera di Benjamin Netanyahu. Uno scandalo a catena che riguarderebbe presunti illeciti del primo ministro in questi anni. Lui, che non è digiuno a scalpori e gossip, dalle vociferate relazioni extraconiugali alle critiche per le vacanze lussuose spesate da noti imprenditori, risponde che è vittima di un linciaggio mediatico. Differente lettura danno i magistrati che lo “braccano” oramai da mesi su vari fronti. Prima l’apertura di due fascicoli denominati 1000 e 2000: uno per i regali alla moglie Sara che nasconderebbero tangenti, l’altro per le pressioni ad un editore per “ammorbidire” la linea. E poi, ad inguaiare il leader del Likud il filone d’inchiesta 3000, una presunta frode nella commessa di sottomarini acquistati dal gruppo tedesco ThyssenKrupp. Ad arricchire le ricerche del procuratore generale Avichai Mandelblit c’è la testimonianza dell’ex capo di gabinetto di Netanyahu, Ari Harow. Devoto “servitore”, Harow accusato di molteplici reati, ha preferito aprire una trattativa sulla sua testimonianza con gli inquirenti e ricevere così una pena ridotta, evitando il carcere. Eppure, anche difronte ad un maremoto di questa portata non è da escludere la possibilità che Netanyahu ne esca “brillantemente” pulito. Al momento nel tentativo di sedare dolorose faide interne al suo partito ha scavato una trincea intorno all’esecutivo. Stiamo parlando del più longevo politico israeliano, dopo il padre della nazione David Ben Gurion, che ha dimostrato di essere inossidabile e intramontabile, ma forse oggi è più vulnerabile. Ha estremizzato la sua posizione nel corso delle stagioni e polarizzato l’attenzione pubblica sulle sue “verità”: “con i palestinesi non c’è dialogo e l’Iran è il male”. Convinto antiobamiano e antieuropeista. Amico di Putin. Nemico di Abu Mazen, “confinato” in queste ore a Ramallah nella Muqata, dopo le violenze esplose in Terra Santa nelle passate settimane. Netanyahu ha cavalcato il trumpismo, e come l’inquilino della Casa Bianca attraversa un periodo nero. Populista carismatico, scafato e diffidente, rispettato e odiato. La retorica del re nudo bene descrive la discesa lenta ed inesorabile di questo statista, che ha saputo incarnare i vizi di Israele. Se le prove di Harow dovessero incastrarlo la favola volgerà al termine. Attendiamo nuove sorprese sotto il sole di Gerusalemme: Dimissioni? Crisi di governo? Nuove elezioni? Comunque, la saga del “falco” sembra aver imboccato, una volta per tutte, la lunga strada dell’aula di un tribunale.

IL GIALLO DI PADRE DALL’OGLIO, UNA VICENDA SIRIANA

La speranza è vedere Paolo Dall’Oglio libero, il prima possibile, non dimenticandolo. Sono passati quattro lunghi anni dal rapimento del padre gesuita in Siria, sequestrato, presumibilmente, da un gruppo islamico di affiliazione qadeista. Dal triste giorno della sua sparizione a Raqqa di lui non si hanno più notizie: ucciso o detenuto in qualche prigione, venduto e passato di mano in mano tra diverse fazioni siriane? Le ultime tracce risalgono alla notte del 29 luglio mentre lavorava, con molta probabilità, alla mediazione per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Una trattativa delicata che forse avrebbe messo il padre gesuita sulla strada della guida spirituale dell’Isis, il califfo al-Baghdadi. Questo, per quanto lacunoso, è quanto sappiamo di Dall’Oglio, poi un lungo inesorabile e pesante silenzio. Servizi segreti e pressioni vaticane, ad oggi, hanno condotte ricerche infruttuose. Senza tuttavia chiudere mai alla speranza di veder tornare tra noi un uomo che ha dedicato la propria vita all’integrazione e amava dal profondo la Siria. Con la sua missione aveva scelto di ritirarsi in un luogo della regione impervio, solitario e mistico. Dove predicava la comunione con le chiese d’oriente e l’incontro tra le fedi che si richiamano ad Abramo. Sulle colline desertiche e incastonato tra le pietre, al nord di Damasco, aveva fondato nel 1991 la comunità monastica di Deir Mar Musa. Una luce di tranquillità e accoglienza dove, nel corso degli anni, migliaia di fedeli sono transitati: “Cercavo un posto per fare 10 giorni di preghiera, di silenzio. Ero interessato al Medioriente, alla pace, al dialogo islamocristiano, e sono venuto qua. Sono arrivato la sera, non c’erano tetti, porte, niente e ogni pietra andava per conto suo. Però questo luogo mi ha stregato e parlato della tradizione cristiana, convissuta nel contesto islamocristiano per quattordici secoli, parlandomi di speranza, bellezza e incontro con dio. E di ospitalità”. Raccontava il prete romano con voce calma ma ferma, barba lunga e ben curata, una kefiah al collo, parole semplici e ispirate al dialogo in una straordinaria testimonianza di pace. In quella intervista è tracciato il percorso ecumenico di padre Dall’Oglio, per raggiungere una sintesi completa con l’islam, attraverso lo scambio interreligioso nella totale affinità delle radici. Al punto da arrivare a definirsi “simbolicamente musulmano”. Conoscitore della lingua araba e studioso del Corano. “Come esiste quella giudeo-cristiana centrata su Sara, così a partire dai simboli biblici prolungati dalla meditazione coranica musulmana, c’è la possibilità di vedere prefigurata la Chiesa nella linea di Agar e Ismaele”. La visione di padre Dall’Oglio è manifestata nella regola che la comunità di Deir Mar Musa si è imposta, l’utilizzo della lingua araba come strumento di comunicazione sociale e liturgico, affiancata nelle preghiere al greco, all’aramaico e al latino. Impegno religioso e politico scandiscono la vita di questo monaco, pronto a sfidare il regime di Assad, schierandosi apertamente al fianco della piazza durante le rivolte della Primavera Araba: democrazia e dignità. Rendendolo un personaggio scomodo, a tanti. Facendo di lui una voce indignata, che protesta per la repressione e il massacro del popolo siriano. Prima che i riflettori delle televisioni si accendessero è testimone diretto della tragedia della guerra civile. È un punto d’informazione ma anche il pulpito di un monito, profeticamente avverte il sopraggiungere del caos. Capisce in anticipo che la violenza innescherà la fuga in massa, l’insorgere del problema dei profughi è prossimo. La Siria del dialogo si eclissa, coperta dalla strumentalizzazione e dal fanatismo religioso, sotto gli occhi di un occidente cinico: “la paura legittima la repressione, che legittima l’estremismo, che legittima la paura”. È il ciclo vizioso di un Medioriente senza pace e futuro, la frontiera “estrema” del Mediterraneo dove continuare a cercare padre Paolo Dall’Oglio.