Primo giorno alla Knesset

Oggi è stata inaugurata la XX Knesset. Primo giorno di scuola per la classe politica israeliana. I 120 parlamentari, emozionati e rigorosamente quasi tutti accompagnati da parenti, hanno preso posto nei rispettivi scranni. Invece della cartella e del grembiule indossavano vestiti firmati e portavano in mano cellulare o tablet. Nel 2015 le matricole che per la prima volta varcavano da “onorevoli” le porte del palazzo legislativo sono 49. Un vento di novità per il parlamento di Gerusalemme. Mentre le donne elette salgono a 28. La Knesset è un parlamento dove la destra è maggioranza e la sinistra opposizione insieme alla lista araba. Il discorso di apertura è toccato al presidente della repubblica Reuven Rivlin che ha ricordato: “siete emissari del pubblico.” E poi ha puntualizzato: “I cittadini sono importanti non voi”. È un chiaro invito ai parlamentari di non montarsi troppo la testa e restare con i piedi per terra. Sulla stessa linea l’intervento del portavoce del parlamento il laburista Amir Peretz: “le parole sono come una freccia scoccata da un arco, non possiamo riportarla indietro e nemmeno cancellarne l’effetto.” Baffone Peretz, storico sindacalista ed ex candidato premier della sinistra, ha lanciato una stoccata al vincitore delle elezioni. Netanyahu dal canto suo è l’uomo politico che possiede una faretra piena di frecce che scaglia contro palestinesi, arabi e iraniani, non solo durante le campagne elettorali. Comunque in attesa del 34° governo della storia d’Israele prediamo atto che il nuovo parlamento si è insediato.

IL PAPERINO ISRAELIANO

Le elezioni israeliane della scorsa settimana hanno un vincitore, è sempre il solito inossidabile Bibi Netanyahu: il politico più fortunato di tutto Israele e dell’intero pianeta. L’uomo che non perde mai, o quasi. Nella ricerca di qualcuno da paragonare al falco israeliano abbiamo scomodato il personaggio immaginario dei fumetti Gastone Paperone, il fortunatissimo. La storia insegna che per ogni Gastone c’è sempre un Paperino a fare da contraltare. Il nostro Paperino si chiama Mossi Raz, è un politico israeliano ed è noto per essere particolarmente sfortunato. È il primo degli esclusi del partito Meretz in queste elezioni. Mossi è un ufficiale riservista alla soglia dei cinquantanni. La peculiarità della carriera politica di Mossi è di essere eternamente perdente, escluso, trombato dalle urne. Per quanto impegno ci possa mettere riesce solo ad arrivare ad un passo dall’entrare in Parlamento e poi, all’ultimo secondo, vede sfumare il suo sogno. È successo nel 1999 quando il partito gli aveva assegnato l’undicesima posizione nella lista e il Meretz ottenne 10 seggi. È accaduto nelle elezioni del 2003 quando il suo partito raggiunse la quota di sei parlamentari eletti, lui era il settimo e non passò. Ci riprovò nelle elezioni del 2009, questa volta con un ticket praticamente sicuro, blindato, gli avevano assegnato il quinto posto nella lista che però ne ottenne solo quattro. Lo sfortunato Mossi non si arrese e decise di riprovarci ancora, ma anche questa volta identico risultato: il Meretz esce sconfitto dal voto e con una risicato numero di parlamentari eletti, ben sei. Ebbene il simpatico Mossi, forse non c’è nemmeno bisogno di dirlo, era settimo. E se vorrà entrare alla Knesset lo dovrà fare da turista. Comunque, la tenacia di Mossi, prima o poi, sarà ripagata, almeno questo è il nostro sentito augurio a questo Paperino della politica e alla sua prossima candidatura.

Il falco dispiega le ali, anche controvento

In Israele vince Benjamin Netanyahu, contro tutti i pronostici che lo davano per sconfitto. Il leone della politica israeliana ha, durante gli ultimi giorni e le ore del voto, movimentato le acque e compiuto un vero e proprio colpo da campione, smentendo tutti i sondaggi che lo davano sconfitto. Netanyahu non risulterà simpatico ma indubbiamente è stato ancora una volta assolutamente gaon, geniale. Quella di Netanyahu è una vittoria a 360°. Perché ha raccolto 30 seggi, la metà di quelli necessari per governare; portato di nuovo il Likud, un partito sempre più “personale”, ad essere la prima forza del paese; demolito il fronte di centrosinistra e oscurato la stella nascente di Herzog; ridimensionato gli storici alleati di governo, in particolar modo i nazionalisti di Bennet e il partito dell’ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman; ed infine, cosa non da poco, ha convinto gli elettori israeliani a non disertare le urne, la percentuale dei votanti è stata alta, oltre il 70%. A questo punto Netanyahu non avrà il vincolo di formare un governo di coalizione nazionale, come chiede il capo dello Stato, Reuven Rivlin, può allearsi con le forze politiche di destra a lui più vicine, riportandole al governo. Ha poi nei fatti, enfatizzando nell’opinione pubblica il pericolo, “ghettizzato” il voto arabo, terza forza in Israele. Il futuro Primo Ministro ha inoltre, mandato un chiaro messaggio ad Obama e ai paesi europei: è con lui che devono trattare nei prossimi anni, nolenti o dolenti. Ha con questo risultato azzittito le critiche dei vertici dell’esercito, dimostrando che il loro peso nell’influenzare la società è inferiore al suo carisma politico. Domani Netanyahu non dovrà ascoltare i suggerimenti di nessuno, tranne quelli della vicina, anche politicamente, moglie Sara. Il falco è libero di volteggiare, il problema di fondo è dove volerà? Verso il riconoscimento internazionale della sua figura di grande statista, come è stato in passato per due storici primi ministri, Yitzhak Rabin e Ariel Sharon, oppure spiccherà il volo verso nuove guerre e una politica che isolerà ancor di più Israele? Come trasformerà il consenso ricevuto in una proposta complessiva di governo, che dia risposte ai problemi economici e sociali di una grande parte della popolazione ed insieme costruisca la convivenza con i paese vicini? Sono tutte domande che a breve avranno una risposta. A riguardo abbiamo raccolto l’opinione di Itzhak Rabihiya, giornalista e portavoce del partito laburista israeliano ai tempi di Ehud Barak: “Oggi è una pessima giornata per il fronte progressista, per chi è convinto della necessità di aprire un dialogo costruttivo con i palestinesi. La vittoria di Netanyahu è schiacciante, senza ombra di dubbio. Ha vinto puntando ancora una volta sulla paura degli israeliani, evocando la minaccia palestinese e quella iraniana. Magistralmente, ahimè, ha saputo convincere gli elettori della necessità di una leadership forte, la sua. Mentre il centrosinistra ha fallito sotto questo aspetto, non ha saputo capitalizzare il vantaggio iniziale e aggregare l’elettorato. C’è da anni nel centrosinistra una deficienza di leadership che diventa palese il giorno dopo il voto. Vedete io, dopo questo risultato, mi auguro che Netanyahu dimostri coraggio, che non scelga la via di un governo di destra pura ma che apra anche al centro, che bilanci le tendenze dell’estrema destra con i liberali di Lapid e forse anche con il centrosinistra di Herzog e Livni. Per il bene di Israele dovrà trovare un partner palestinese con cui dialogare in maniera diretta, altrimenti agire attraverso la mediazione europea o di Obama.” A Zoughbi Zoughbi, politico, pacifista e fondatore del Palestinian Conflict Resolution Centre, abbiamo chiesto di commentare il voto visto dal lato palestinese. Nelle sue parole c’è rassegnazione e poca speranza: “Le elezioni sono sempre un beneficio alla democrazia. Nel caso israeliano la vittoria di Netanyahu è l’affermazione di una destra che si pone in contrasto aperto con la Comunità Internazionale, una politica che non cerca soluzioni al conflitto israelopalestinese. La politica e le parole di Netanyahu buttano acqua sul fuoco del processo di pace. E annunciano nuove catastrofi.”

Molte nubi sul governo di Israele

Israele al voto. In una giornata serena e primaverile gli elettori in coda ai seggi per eleggere i 120 deputati che siederanno alla Knesset, il Parlamento. È la ventesima elezione dal 1948 ad oggi (in Italia ne abbiamo avute 17) per lo Stato d’Israele. Il meteo politico all’apertura dei seggi prevede nubi sparse sul futuro governo. Il dato elettorale chiarirà meglio gli assetti e i meccanismi della coalizione che nascerà, tenendo conto che sono 25 le liste al voto (un quadro complesso in Israele che ci fa ricordare la nostra prima Repubblica) e che in un sistema elettorale proporzionale solo alcuni di questi, 11 o 12 liste, supereranno lo sbarramento del 3,25%: partiti religiosi, laici, liberali, nazionalisti, sinistra e lista araba sono tutti potenzialmente papabili partner per il governo. Parlarne ora è pura fantascienza, tenendo conto che al momento le principali liste sono accreditate di 23/25 seggi ciascuno e che gli indecisi sono circa il 15% dei 6 milioni di votanti. Intanto il neo presidente d’Israele Rivlin incoraggia, ma non forza la mano, per raggiungere la formazione di un governo di unità nazionale. Alla luce degli ultimi sondaggi la sfida tra Netanyahu e Herzog andrebbe al secondo, in vantaggio con una forbice di 3-8 punti. Il centrosinistra si presenta al voto con una lista dove la ex ministra della giustizia estromessa da Netanyahu, Livni è co-leader con Herzog della lista Unione Sionista, tra i due, infatti, c’è un accordo che prevede la rotazione alla guida del Paese in caso di vittoria. Herzog, il politico israeliano che parla inglese con accento democratico, raccoglie consensi nell’arena politica dove è giudicato e stimato quale persona molto concreta. Intelligentemente, il giovane politico cresciuto nelle file del partito laburista, ha impostato l’ultima parte della campagna elettorale spostando al centro del dibattito non tanto l’introduzione di nuove politiche economiche ma bensì paventando il pericolo della riconferma di Netanyahu. Che questo voto rappresenti un giudizio sull’operato dell’ex premier è cosa nota. Che lo stesso Netanyahu abbia tentato l’azzardo del colpo grosso sciogliendo a dicembre il Parlamento e indicendo nuove elezioni con lo scopo di rafforzare la sua posizione è un dato di fatto. Che la sua scommessa preveda un cambio “costituzionale” per il Paese e una politica estera aggressiva nei confronti dell’Iran sono dati oggettivamente riscontrabili. Che non abbia la benché minima idea di risolvere la questione israelo-palestinese è inoppugnabile. Tutto ciò premesso, Netanyahu è consapevole di attraversare un momento negativo di popolarità e credibilità. Ha tentato di provocare gli avversari interni ed esterni sui temi della sicurezza e del sionismo, ma non è servito a molto: secondo molti analisti il punto debole del Likud è proprio l’arroganza del suo candidato premier. Auto proclamatosi re del popolo israelita nella speranza di risalire la china e ribaltare i sondaggi ha dovuto fronteggiare la reazione e l’opposizione dei vertici militari, a partire dai servizi segreti, si è inimicato mezza Europa e tutta l’amministrazione del presidente Obama. E così il suo sogno da monarca, e forse la sua carriera politica, sono ad un passo dal baratro. Nella lunga notte di martedì sapremo se Netanyahu è capace ancora di volare, padroneggiando il cielo d’Israele oppure se il “razionale” Herzog ha definitivamente abbattuto il ”falco”. Nelle prossime ore, dunque, si decide la storia d’Israele, proprio come ci ha ricordato, Etgar Keret, celebre scrittore israeliano, il suo futuro è un’incognita: “Le prossime elezioni in Israele sono solo la variabile più immediata da cui dipenderà la compagine politica che guiderà il paese nei prossimi anni, ma gli sviluppi geopolitici nell’area non hanno certo meno influenza e significato.” In Israele la speranza per un cambiamento è forte, almeno alla vigilia del voto, almeno nelle parole di Keret: “Posso solo esprimere la fondata speranza che la leadership israeliana che verrà eletta nelle prossime elezioni, sia in grado di trarre le giuste conclusioni dalla guerra avvenuta nella scorsa estate e di porre al centro della propria responsabilità la vita dei propri cittadini ma anche dei civili dell’altra parte, che dia ancor più peso ai diritti delle minoranze e del diverso e alla libertà di espressione, rafforzandosi come democrazia. Nonostante tutte le difficoltà, la democrazia è nei geni di questa nazione.”

EPTACAIDECAFOBIA

Correva l’anno 1999. Era il 17 maggio. E in Israele si tenevano le elezioni per eleggere il Primo Ministro e il nuovo parlamento. Il premier uscente e candidato in pectore era il leader della destra Benjamin Netanyahu. Lo sfidante invece era il laburista Ehud Barak. Dallo scrutinio delle schede uscì vincitore Barak con il 56% dei consensi. La sua lista One Israel raccolse il 20%, comprendeva oltre ai laburisti anche esponenti centristi. Il Likud rispetto alle precedenti elezioni ebbe un clamoroso tracollo, perdendo ben 13 seggi nella Knesset. La disfatta politica segnò per Netanyahu un declino politico e l’ascesa di Ariel Sharon. Ci volle quasi un decennio prima che il falco Netanyahu tornasse di nuovo al potere. L’esperienza di governo di Barak non fu molto fortunata, per formare una maggioranza di governo fu costretto ad allargare la coalizione a partiti minori, inclusi quelli religiosi, e il suo mandato si contraddistinse per frizioni interne che portarono in breve tempo a nuove elezioni. E alla fine del centrosinistra. Marzo 2015 Netanyahu è ancora in corsa per la poltrona di premier. Ricorsi storici e scaramantici, in Israele si vota il 17. Superstizione? Nei sondaggi il Likud è dato sfavorito contro il centrosinistra. Al posto di Barak oggi c’è Herzog. Per Netanyahu il 17 non è un numero fortunato, pare.

LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LA KNESSET APPRODA AL CONGRESSO DI OBAMA

Nei giorni scorsi il Congresso americano ha dichiarato amore incondizionato al leader israeliano Benjiamin Netanyahu. Una dimostrazione d’affetto smisurata, ben oltre i solidi legami storici tra i due paesi: un gesto d’amore incurante di rompere i protocolli diplomatici della Casa Bianca, persino sgarbato e offensivo nei confronti del Presidente Barack Obama. Invitato a Washington dai repubblicani e boicottato dai democratici, non tutti, il Primo Ministro ha tenuto, la scorsa settimana, un lungo discorso ai membri del congresso statunitense riuniti in seduta congiunta. Nell’aula dell’organo legislativo più importante al mondo Netanyahu è stato accolto calorosamente, osannato, coperto da applausi e da standing ovation. Il succo del suo lungo discorso era la minaccia iraniana e l’accordo sul nucleare. L’obiettivo era frenare la trattativa in corso in queste ore. Alzare un polverone su Teheran. Mettere l’amministrazione Obama in un angolo. C’è riuscito. Grazie a quello che molti hanno definito il discorso perfetto, un monologo teatrale recitato convintamente e appassionato, proprio come piace alla platea anglosassone. Ha parlato di terrorismo, di bomba atomica, di geopolitica nella regione e di nazionalismo, sia ebraico che statunitense. Ha giocato le carte anche quelle più ovvie e quelle politicamente più scorrette. Ha paventato di raccontare i segreti di Obama. Non ha tralasciato di lanciare l’accusa di antisemitismo all’Ayatollah, per un suo tweet. Ha sapientemente scaldato gli animi della platea facendo rullare i tamburi di guerra: “ … anche se Israele dovesse restare solo noi non ci piegheremo. Ma so che Israele non è da solo. So che voi siete con Israele.” E ha concluso il suo intervento con tanto di citazione biblica. Il sermone di Netanyahu, che ha convinto gli americani non ha tuttavia avuto l’effetto sperato in patria: convincere l’elettorato israeliano. Le reazioni della stampa israeliana sono state negative e le critiche pesanti: chutzpa. Insolente. Arrogante. Alla fine i sondaggi, ad una settimana dal voto non hanno portato nulla di più, il viaggio americano non ha avuto l’effetto sperato. La coalizione di centrosinistra mantiene di qualche punto il primato. Il piccolo divario è stabile e solido. Dopo aver pestato i calli a Obama e a metà dei capi di stato europei al falco della politica israeliana non resta altro da inventarsi in questa campagna elettorale. Dove è stato costretto ad inseguire gli avversari. Dove si è procurato nemici su nemici. Dove ha perso credibilità. Nel tentativo di recuperare voti e consenso Netanyahu ha buttato acqua sul fuoco del dibattito tra sionismo e post sionismo, ha posto al centro della questione il ruolo d’Israele per gli ebrei nel mondo: “Israele è la casa di tutti gli ebrei.” E poi ha pronunciato un accorato invito agli ebrei ad una migrazione in massa verso le coste meridionali del Mediterraneo. Il no all’appello di Netanyahu è stato ripetuto con forza a più livelli. Le dichiarazioni del leader israeliano lasciano tuttavia ampio spazio alle interpretazioni. E’ innegabile che al momento in Europa il livello di guardia è stato superato, il fondamentalismo islamico ha lanciato la sua guerra santa al cuore del continente. Attacchi terroristici, profanazione di luoghi di culto, attentati alla stampa. Gli ebrei, ma non solo, sono purtroppo vittime del neo fanatismo islamico. In questo contesto l’invito lanciato da Gerusalemme a migrare in Terra Santa suona come un mantra per esorcizzare la paura e non una vera e propria strategia, lo stesso ragionamento vale per il nucleare iraniano. Il problema è che al momento non solo le comunità ebraiche ma tutti noi abbiamo la stessa paura e dobbiamo affrontare il medesimo pericolo. Per questo il messaggio di Netanyahu è in realtà fuorviante: lascia adito all’idea che l’unica alternativa possibile alla crisi attuale sia “fuggire” in un altro luogo, lontano da Parigi o Londra. Inoltre, le parole di Netanyahu introducono nella discussione il concetto che l’Europa non appartiene agli ebrei. Una tesi che è un falso storico, una bugia dalle gambe corte e pericolosa. Non ci può essere futuro per l’Europa senza la presenza ebraica, è nei fondamenti della nostra società e cultura. Molti di noi forse ignorano di aver avuto antenati israeliti, in ebraico sono chiamati anusim. Nello scorso secolo gli ebrei europei che non seguivano l’ortodossia dei dettami religiosi erano identificati come assimilati. Oggi, nell’era della globalizzazione parlare di assimilazione è un controsenso, alla stregua della definizione di razza. Insomma, l’appello di Netanyahu non risponde alle esigenze e necessità del momento, è pura propaganda elettorale. E soprattutto non indica la prospettiva di un percorso di pace con i palestinesi, non chiarisce il modus operandi per una soluzione politica che stabilizzi la regione e che resta il principale problema irrisolto di questo secolo.

OPERAZIONE ABBATTERE IL FALCO

Il suo nome non è Bond, James Bond ma Dagan, Meir Dagan. È l’ex capo dei servizi segreti israeliani, il deus ex machina dell’intelligence forse più potente al mondo. Dagan è l’ultima personalità in ordine cronologico ad entrare prepotentemente nella campagna elettorale 2015. Il soldato pluridecorato, eroe di guerra, leggenda dei corpi speciali, spia con licenza di uccidere e decidere chi eliminare, è salito sul palco della manifestazione di Tel Aviv e ha pubblicamente sparato a zero contro Netanyahu. La piazza Rabin gremita di sostenitori del “cambiamento” ha ascoltato in silenzio le parole dell’uomo che negli ultimi decenni ha protetto la loro sicurezza e quella del Paese. Calvo, sbarbato, abito scuro, occhiali squadrati e sguardo glaciale, piegato ma non spezzato da una terribile malattia che ha lasciato il segno e con la quale lotta da anni, uomo di cultura e appassionato d’arte, ha raccolto gli applausi della folla, lui abituato a stare in disparte, a muovere le pedine dietro le quinte, si è preso il suo spazio di notorietà e pubblicità. Ha parlato con voce flebile, senza retorica ma con semplicità: “Israele è circondato da nemici. Ma non sono loro che mi fanno paura. Io sono preoccupato della nostra leadership.” È apparso, in alcuni tratti del suo discorso, visibilmente emozionato, anche Bond almeno una volta ha pianto, per poco, ma ha versato lacrime vere. Piangere è umano. Quanto Dagan sia umano non è detto saperlo, la spia nata in Russia anzi in USSR (leggenda vuole che la madre abbia partorito sul treno mentre la famiglia scappava dalla Polonia occupata dai nazisti), ha dimostrato di essere un leader politico e carismatico o almeno non nasconde le potenzialità per poterlo, a breve, diventare. In Israele è cosa assai comune che un militare in carriera possa passare “in prestito” alla politica, non c’è da essere scandalizzati. Fatto sta che Dagan è divenuto un elemento chiave della campagna di discredito verso Netanyahu, le sue dichiarazioni affossano, giorno dopo giorno, la credibilità del premier. Suona strano che proprio lui così schivo ai sensazionalismi, ai riflettori, alla fama, sia diventato l’icona del centrosinistra israeliano e il front man che “sbugiarda” costantemente il capo del governo. Lui che certo non è mai stato uomo dichiaratamente di sinistra, nominato al vertice dell’Istituto da Sharon e poi in passato lodato dallo stesso Netanyahu. La rottura dei rapporti tra i due è legata alle recenti crisi di Gaza e al presunto dossier iraniano. L’ex capo dell’Agenzia è strenuamente critico sul pericolo nucleare paventato dal Primo Ministro israeliano: “Netanyahu ha causato ad Israele il peggior danno strategico.” E nel suo commento, alle parole pronunciate recentemente dal leader israeliano al congresso americano, pare sia stato colorito e caustico: “stronzate”. Ovviamente Netanyahu non ha risposto agli attacchi di Mr Mossad. Offendere, inimicarsi l’uomo che ha raccolto e spulciato nei segreti di tutti non è certo una bella mossa politica, a prescindere dagli scheletri che nascondiamo nell’armadio. Nel 2015 i servizi segreti israeliani sono ancora circondati da un alone di mistero e dalla fama d’infallibilità, al pari dei servizi di Sua Maestà, almeno di quelli cinematografici. “Vorrei ricordarti che questa operazione andava condotta con una certa discrezione…” Ammoniva M, capo del MI6, con queste parole l’agente Bond. Discrezione è sinonimo di servizi segreti. Dagan ha fatto cose che molti di noi ignorano, segreti coperti da un profondo silenzio tombale e dalla ragion di stato. La voce dell’ex 007 resta molto ascoltata e rispettata nella società israeliana.  L’uomo che celava segreti oggi infiamma le piazze e guida il movimento per il cambiamento, vuole sconfiggere Netanyahu. L’operazione “abbattere il falco” è in atto. Parola di Dagan, Meir Dagan.

Palestina: un conflitto dai molteplici approcci

La questione palestinese tra ginepraio e labirinto. Il conflitto che da anni incombe in Terra Santa si presta, per la sua natura, a molteplici approcci. Non aiuta il fatto di essere attenti spettatori esterni. Districarsi in un dedalo intricato e complesso, lastricato di odio e sangue, è pericolosamente sdrucciolevole per la politica e per il lettore. E così l’Italia ha deciso di andare avanti con proposte contraddittorie e ambivalenti, senza pestare troppo i piedi. È stato chiaro la scorsa settimana quando il Parlamento ha approvato due risoluzioni sul riconoscimento dello Stato palestinese discordanti. Con una mozione è stato votato il riconoscimento della Palestina, con un altra è stato posticipato a tempi migliori. Della serie vogliamo in Terra Santa due popoli due stati ma non oggi, forse domani ma solo quando ci sarà, se ci sarà, la pace. A dimostrazione che la politica italiana nei confronti del conflitto israelopalestinese naviga nella più totale confusione, in queste ultime settimane, ci sono stati molti esempi oltre lo “storico” voto di Montecitorio. La risoluzione sullo stato della Palestina è stato un passaggio votato a larga maggioranza. 300 i si alla Camera dei Deputati per una decisione non vincolante, puramente simbolica e con il contorno del pasticcio. Un pasticcio di diplomazia internazionale e politica interna. Dove a rischiare il danno peggiore era il governo che intenzionato a non dare un’indicazione chiara ha dovuto inventarsi una via d’uscita equilibrista: il riconoscimento ma anche no. Dovevamo accontentare tutti, palestinesi, israeliani, Parlamento Europeo, PD, Alfano e ci siamo “miracolosamente” riusciti. È bastato lasciare il bicchiere a metà, non troppo pieno e nemmeno mezzo vuoto. Insomma, una linea politica attendista che non disturbasse la sensibilità di nessuno. In generale ci pare che il problema delle due risoluzioni non è se conti più la prima o la seconda, oppure se la seconda smentisca la prima. Il doppio voto del Parlamento ha di fatto lasciato campo libero al ministro Gentiloni nel definire la prossima agenda per il Medioriente, indirizzo di cui oggi è arduo immaginare minimamente i risvolti e le complicanze. Comunque, i partiti in perfetto stile Ponzio Pilato si sono lavati le mani. E la coscienza. Vale per quelli di governo come per quelli dell’opposizione. Nemesi storica per la Lega Nord, che un tempo, nemmeno troppo lontano, rivendicava il diritto alle autonomie dei popoli dalla Padania alla Palestina, entrambe messe celermente nel dimenticatoio dalla nuova Lega di Salvini diventata paladina d’Israele e dell’Italia. L’ambiguità vale per il Movimento 5 stelle che a Livorno, città tradizionalmente legata alle proprie radici ebraiche, dallo spirito laico e aperto, ha deciso di gemellarsi con Gaza dove governa e “regna” Hamas. Al contrario in Forza Italia prevale ancora il pensiero di Silvio Berlusconi, grande amico di Netanyahu, e unico leader europeo che in visita ufficiale in quei luoghi martoriati non si accorse del muro di separazione, venendo, a suo dire, magicamente teletrasportato a Ramallah e Betlemme. Anche nel Partito Democratico è palesata una certa discontinuità d’intenti, con le anime provenienti dalla tradizione dei partiti della sinistra, per un pronto riconoscimento palestinese e quelle anime invece più di tradizione centrista, concilianti con NCD e soprattutto con le richieste del governo di Gerusalemme. In conclusione la sfera politica italiana in materia di conflitto in Medioriente è un grande labirinto e un ginepraio allo stesso tempo. Segno che in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo è irrealistico trovare l’uscita senza farsi del male.