GERUSALEMME, SANTA E VIOLENTA

Il miraggio di re Salomone, figlio di David, era che edificando il Tempio avrebbe portato pace e prosperità a Gerusalemme, e al suo popolo. Conferendo eterna santità alla città, dove sia gli “israeliti che gli stranieri provenienti da paesi lontani” avrebbero condiviso quella casa da lui voluta, dedicata alle offerte e al nome di Dio (Primo libro dei Re capitolo 8). L’imponente tempio che accoglieva la sacra arca dell’alleanza secondo l’esegesi biblica venne distrutto nel 576 a.C, per poi essere ricostruito e quindi nuovamente raso al suolo. Al suo posto la storia ha collocato il terzo sito per importanza dell’islam. Tuttavia, una componente del profetismo ebraico alimenta il sogno che un giorno in quel luogo tornerà a sorgere l’antico santuario. Quella piccola rettangolare porzione della città Vecchia è stata spesso epicentro delle tensioni del conflitto israelopalestinese. Dalla fine della guerra dei Sei Giorni nel 1967 è consentito ad ebrei e cristiani di visitare la Spianata, ma gli è vietato pregare. L’attuale status prevede che Israele gestisca il controllo della sicurezza, e la fondazione islamica Waqf amministri le attività religiose al suo interno. Chi non riconosce l’accordo (oltre ovviamente alle sigle del fondamentalismo islamico da Hamas a Hezbollah) sono in particolare alcune organizzazioni dell’estrema destra israeliana, che in questi anni hanno portato a segno più di una provocazione sul posto. L’ultima, che non hanno potuto attuare perchè fermati ed arrestati in tempo dalla polizia, prevedeva di svolgervi il sacrificio dell’agnello pasquale. L’iniziativa era stata lanciata alla vigilia di Pesach sui social dal gruppo Chozrim LaHar (Ritorno al Tempio del Monte), che nel promuovere l’evento si era fatto carico di eventuali spese giudiziarie per i partecipanti, un risarcimento aggiuntivo in caso di arresto nel tentativo di introdurre l’animale sacrificale e un bonus di tremila dollari se si fosse riusciti a completare il rito. Il rabbino Shmuel Rabinovitch ha ammonito contro un tale gesto, ribadendo il divieto di compiere sacrifici sul Monte del Tempio, in quanto contrario ai dettami del Gran Rabbinato di Israele ed irrispettoso della giurisdizione della Waqf. Appello che altre volte è andato inascoltato. Soprattutto da parte degli aderenti al Chozrim LaHar, che regolarmente organizza incursioni nella Spianata. Dove per non sollevare sospetti entrano travestiti da musulmani osservanti e sfidano le regole recitando i salmi. Bravate molto pericolose, con un alto grado di infiammabilità. Come lo dimostrano gli scontri divampati tra polizia israeliana e giovani palestinesi nella mattina di Venerdì. La notizia della possibile presenza di “indesiderati” nella Spianata aveva portato migliaia di ragazzi palestinesi a trascorrervi la notte, per “proteggerne l’inviolabilità”. Con il sorgere del sole alla stanchezza ha prevalso la brutalità. E il cielo si è riempito di sassi, petardi e lacrimogeni. Battaglia andata avanti per 6 lunghissime ore, lasciando evidenti segni di devastazione. Immagini già viste. Una storia che si ripete ciclicamente. Al costo di centinaia di feriti ed arresti. Dopo che da giorni il clima in Israele è nuovamente piombato nella spirale del terrore. Paura e sangue nel tormentato Medioriente, durante quelli che teoricamente dovrebbero essere giorni di festa per le tre religioni monoteistiche, dovute alla coincidenza “astrale” di Ramadan-Pesach-Pasqua.

L’episodio, come era da aspettarsi, ha innescato il valzer della politica. Sul fronte palestinese Hamas e Jihad gettano benzina sul fuoco, incitando alla rivolta. Condanna per l’ingresso dei militari nel sito è stata espressa anche dal presidente Abu Mazen. A cui si sono aggiunte quelle dei partiti arabi israeliani. Il leader Mansour Abbas, che appoggia esternamente il primo esecutivo della storia recente senza Netanyahu, ha avvisato di possibili ripercussioni sugli assetti della coalizione, minaccia non velata ad una imminente crisi. Mentre, il governo Bennett perde pezzi e naviga instabile.

COLPO A BENNETT DI BIBI

La sera del 17 novembre del 2003 Roma è teatro di una delle più impensabili operazioni diplomatiche del Medioriente contemporaneo. Nelle stanze dell’Hilton Cavalieri viene partorito il piano di disimpegno unilaterale israeliano (Hitnatkut). Fuori tutti da Gaza, settlers e soldati, con i secondi molto più felici dell’idea rispetto ai primi. Artefice, l’allora premier e leader del Likud Ariel Sharon. Il progetto viene esposto a Elliott Abrams, funzionario della Casa Bianca nell’amministrazione Bush jr. In quella circostanza, quasi sicuramente, Sharon aveva già maturato la strategia di manovra nella Knesset, con l’obiettivo di posizionarsi al centro. Tattica che si tramuterà successivamente nella decisione, anche in questo caso dirompente, di uscire dal Likud (dove era esposto agli attacchi della fronda interna guidata dal solito Netanyahu) e creare un suo movimento, Kadima. Partito che risucchierà voti, e volti, dalla destra del Likud e in parte dai laburisti. La linea di Ariel “Arik” Sharon è vincente, la sua creatura ottiene 29 seggi nelle elezioni del 28 marzo 2006. Mentre, Arik però si trova in ospedale a Gerusalemme in coma vegetativo, a prendere il timone di Kadima e dell’esecutivo era intanto giunto Ehud Olmert. Che formerà una coalizione comprendente i laburisti di Avoda, gli ortodossi sefarditi di Shas e il partito dei pensionati Rafi Eitan. In seguito si aggiungerà l’appoggio di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu. Da quello schema di gioco è escluso Bibi Netanyahu, che sceglie di trincerarsi nei banchi dell’opposizione. In attesa di preparare il grande ritorno sulla scena. Avvenuto con arte, ma non con stile, il 31 marzo 2009, data della nascita del Netanyahu bis e inizio del suo lungo regno, che si concluderà ufficialmente il 13 giugno 2021 con il giuramento del governo Bennett-Lapid. Vaso fragile, per due ragioni: numericamente troppo esiguo (nato con un solo seggio di maggioranza alla Knesset) ed ideologicamente eterogeneo (sinistra, arabi, russi, destra nazionale e religiosa e liberali). A saldare anime così distanti politicamente ed incompatibili per natura è solo l’anti-Bibismo. Il collante tiene per quasi 10 mesi. Durante i quali, tra pandemia e guerra in Ucraina, la giovane coppia riesce persino ad incasellare l’approvazione del bilancio. Evitato questo scoglio tutto pare in discesa. E così il duo Bennett-Lapid può dedicarsi con una certa tranquillità a spaziare nella sfera diplomatica, sviluppando piene relazioni con i partner arabi che hanno aderito all’Accordo di Abramo sino a proporsi come mediatore nel conflitto ucraino. Il clima del Medioriente improvvisamente si infiamma, il terrorismo torna nelle strade, la paura aumenta, le tensioni con i palestinesi salgono. C’è allarme. Fatalmente Naftali Bennett si distrae troppo dalla stretta marcatura a Netanyahu. Credendolo forse concentrato nelle vicissitudini giudiziarie che lo riguardano e senza prendere sul serio gli avvisi di pericolo che gli vengono recapitati, commettendo l’errore di lasciare al falco della destra israeliana movimento per erodere pezzi alla risicata maggioranza. L’azione di Netanyahu è martellante da tempo, l’ex premier ci prova prima con Benny Gantz (già rimasto bruciato dalle promesse di Bibi, e quindi molto cauto), alla fine qualche ammiccamento c’è, tuttavia, il “complotto” non si finalizza. Comunque, sono in molti a pensare che il leader di Kahol Lavan può essere il punto debole su cui Netanyahu tenterà di sfondare. La coltellata a Bennett arriva il 6 aprile 2022 alla vigilia della pausa del parlamento, inflitta da chi gli è vicino, la parlamentare di Yamina Idit Silman, che con la sua defezioni produce un terremoto politico. Non è ancora chiaro se la Silman abbia rotto per motivi “religiosi” (non sarebbe stata la prima volta in Israele), dovuti ai dissidi con il ministro della Salute, da cui avrebbe voluto la rassicurazione che durante la Pesach fosse impedito negli ospedali di mangiare cibo chametz. Un’altra ragione alla base della frattura con Bennett potrebbe essere il calcolo politico, il marito della Silman avrebbe chiesto ed ottenuto per la moglie delle sicurezze dal Likud. Oppure, molto semplicemente la decisione è stata motivata dal fatto che non avrebbe retto alla tensione della campagna di critiche di cui era oggetto. Comunque sia andata, è Netanyahu ad averne tratto vantaggio. Raggiungendo nella Knesset la parità tra maggioranza ed opposizione, 60 a 60. “La risposta immediata è che il governo può, almeno per ora, sopravvivere senza una maggioranza, purché non ci siano ulteriori disertori”. Scrive Anshel Pfeffer su Haaretz. Teoricamente anche se zoppicante il governo può andare avanti sino a Marzo 2023, quando ci sarà da votare la legge finanziaria. Se invece la Knesset dovesse optare per lo scioglimento si andrebbe al voto anticipato. E Yair Lapid – secondo le clausole del patto di governo – diventerebbe primo ministro ad interim per il periodo di transizione. Tra i vari incastri possibili c’è persino l’opzione del ritorno di Netanyahu o la formazione di una nuova compagine governativa. Yamina è sempre andata stretta alle ambizioni di Bennett, alla quale non ha mai dedicato troppa attenzione. Con il rischio, appunto, di vedersela sgretolare tra le mani. La lezione di Sharon per battere Netanyahu è che devi anticipare le sue mosse, anche a costo di cambiare la macchina in corsa. Il futuro di Bennett è oggi appeso ad un filo. Per resistere all’assedio lanciato a Balfour street (residenza ancora in ristrutturazione dopo il trasloco della famiglia Netanyahu) deve fare affidamento sulla tenuta degli alleati. Ma per rompere l’accerchiamento non ha scelta che portare la guerra dentro il Likud, in profondità come avrebbe fatto Sharon.

IL VASSALLO DI PUTIN

L’esito del voto in Ungheria rischia di condizionare le future risposte dell’Unione alla Russia. La riconferma di Viktor Orbán, alla quarta vittoria consecutiva nelle urne, è uno schiaffo a Bruxelles, calpestata dalle politiche, e dalla propaganda, del leader magiaro. Ma è anche, purtroppo, il pericoloso segnale del successo di Putin nel fare breccia nel cuore dell’Europa, nel momento più complesso delle relazioni. Nonostante, alla vigilia i sondaggi avessero previsto una corsa serrata così non è stato, e per il partito del primo ministro Fidesz è stata invece una comoda passeggiata. Cocente l’umiliazione per lo sfidante Peter Marki-Zay, moderato, espressione della larga e variegata coalizione di opposizione, che non è riuscito nemmeno ad imporsi nel suo distretto, dove era stato sindaco. Il clima elettorale è stato dominato dagli echi della vicina guerra in Ucraina. Orbán ha promesso di rimanere fuori dal conflitto, ad ogni costo. A concesso meno del minimo sindacale in materia di sanzioni a Mosca. Non ha rinnegato i legami con il Cremlino e non ha teso la mano della solidarietà all’Ucraina, tantomeno a Zelensky. Indicativo a riguardo il commento rilasciato a caldo: “Abbiamo conquistato il potere contro tutti… perfino contro il presidente ucraino Zelensky”.

L’uomo forte di Budapest (tra le pochissime città ad avergli voltato le spalle in questa tornata), è stato chiamato a quello che tutti hanno giustamente interpretato come un referendum sulla sua persona. E lui ha dato prova di aver plasmato una nazione e di non essere pronto a lasciare il potere agli avversari. Orbán è un personaggio scomodo, non solo perché autoritario e amico personale di Putin. Con cui ha siglato nell’arco degli anni un forte sodalizio, saldato da 12 incontri durante la passata campagna elettorale, se mai ci dovesse essere stato qualche dubbio sulla sua equidistanza nel conflitto ucraino. Infatti, è principalmente sul piano internazionale che la figura di Orbán crea oramai pesante imbarazzo. L’ostentato pacifismo di maniera in realtà nasconde altri interessi. In primis la dipendenza energetica dell’Ungheria da Mosca, che fornisce circa il 90% del gas e il 65% del petrolio. Nel caso di un eventuale taglio di forniture si stimano ricadute potenzialmente devastanti per l’intera economia ungherese. La sfacciata posizione di “neutralità” ha tuttavia un costo, l’isolamento. La prima crepa della rete diplomatica di Orbán è la diffusa freddezza mostrata da storici partner. L’invasione dell’Ucraina ha fatto cambiare approccio alla Polonia e ad altri “soci” del gruppo di Visegrád, patto di cui proprio Orbán è stato architetto e promotore. E che ora rischia di implodere malamente.

In conclusione. Il risultato elettorale è stata indubbiamente una grande dimostrazione di forza interna dell’ideologo della nuova destra europea, nazional-populista e religiosa, confermata dal controllo dei 2/3 del parlamento. Mentre, esternamente ha perso importanti pezzi. Quanto le distanze tra l’Occidente e l’Ungheria siano un reale problema già lo sapevamo.