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INTERVISTA AD ANTONIO ALOI

Il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq è un evento storico senza precedenti, cosa ha voluto dire per una comunità tra le più martoriate?

“Per la minoranza cristiana non solo dell’Iraq ma di tutto il Medio Oriente la visita del Papa è sicuramente un fatto di grande rilevanza. Da anni questo viaggio apostolico era atteso, già si lavorava per questo evento nel 2014 quando ero a Duhok nel Kurdistan occidentale, ma lo “scompiglio” creato dall’ISIS prima e dalla pandemia da COVID19 poi hanno rallentato il processo.

Oserei dire però che la rilevanza è solo per i cristiani, dubito che al di là della cortese ospitalità, qualche cosa muti nella mentalità mussulmana. Noi cristiani, finalmente o per fortuna abbiamo smesso di difendere o propagandare la nostra Dottrina a fil di spada (gli interessi “occidentali” non hanno più bisogno di mascherarsi dietro un crocifisso) dubito sia così per la mentalità mussulmana. Mi spiego: ho vissuto a lungo in Medio Oriente ed ho visitato, per lavoro, tutto il mosaico dei Paesi che lo compongono, e come sempre ed ovunque, la maggioranza delle persone è pacifica ed accogliente, ma le ferite inferte dallo strapotere militare e coloniale prima e dalla mentalità agnostica ed affarista ora, continuano ad alimentare una totale diffidenza verso il nostro mondo. Questa diffidenza è ben sfruttata da chi, per i propri affari, è interessato ad alimentare divisioni e conflitti. Questa situazione crea un blocco, un nodo molto difficile da dipanare! Per cui questo tentativo di “pulizia” etnica e culturale, iniziato anni fa violentemente in Libano, proseguito in Jugoslavia e via via in Medio Oriente temo proprio non sia ancora finito.

Ricordo, tanto per dare un’idea, un episodio che mi raccontò molto tempo fa Sua Eccellenza Fuad allora vescovo a Tunisi e poi Patriarca a Gerusalemme. Lui da piccolo viveva con la sua famiglia in un villaggio della Giordania, cristiani, mussulmani, ebrei condividevano la stessa vita, gli stessi giochi, l’unica evidente differenza di quella popolazione unita e pacifica era il giorno in cui si recava a pregare; fino a quando il Governo giordano dichiarò la religione cristiana una religione protetta. Quel giorno cominciò la discriminazione…

Ritornando, dunque, alla domanda: i patimenti della minoranza cristiana in M.O. volgono al termine? Direi di no! Una cosa è certa però da credente so che alla base c’è un disegno buono della Provvidenza che sa volgere al bene anche il male non voluto. Questa certezza o meglio speranza genera nel popolo cristiano un perfuso senso d’ottimismo che rimane insieme alla Fede la struttura portante della sua resilienza (tanto per usare una parola che va di moda)”.

Anche dal punto di vista della stabilità politica nella regione il dialogo interreligioso promosso dal pontefice rappresenta un aspetto non di poco conto, l’incontro con l’ayatollah al-Sistani può servire a cambiare qualcosa?

“Al di là delle visite un po’ folkloristiche di tutti i Rappresentanti delle religioni del mondo che si sono svolte ad Assisi, direi che fino a quando rappresentanti dell’Islam non contraccambieranno in Vaticano le visite papali, recando effettive novità al rapporto interreligioso, temo che queste visite apostoliche servano quasi esclusivamente alle comunità cristiane. Temo infatti che, al di là della cortesia ed ospitalità offerta, la mentalità mussulmana interpreti queste visite come un tributo, un omaggio a sé dovuto o poco più. La cultura del perdono è un patrimonio cristiano, oserei dire cattolico, questa virtù, veramente difficile, alberga poco tra le altre religioni specialmente se dovesse essere esercitata verso “estranei”.

L’altro risultato cercato è un’autentica crociata, l’affermazione dell’esistenza di un Dio! Ciò certo accomuna i capi religiosi contro il dilagante agnosticismo, ma sappiamo quanto gestione politica e religione siano una cosa sola per l’Islam e quanto tutto ciò non esista più nel mondo occidentale”.

L’ascesa che pareva irrefrenabile del Califfato è un incubo passato, ma a quale prezzo?

“Il Califfato dell’Isis ha spadroneggiato dove e fino a quando ha fatto comodo a chi veramente muove i pezzi sulla scacchiera degli inconfessati interessi mondiali, quando non è servito più è stato spazzato via, e questo si sapeva fin dall’inizio, con la buona pace delle innumerevoli vittime innocenti.

Fatta questa premessa, si apre un capitolo a parte sui Curdi. Sono stati gli unici capaci di difendere ed osteggiare l’apparente strapotere Isis in Iraq, per difendere la propria entità etnica. Duhok è a 45 Km da Mossul, dei tre governatorati curdi è quello che ha sostenuto il confronto più ravvicinato con l’Isis, praticamente vivevamo nelle retrovie di uno scontro quotidiano tra i Peshmerga e le bandiere nere dell’Isis, eppure la vita in quella città ha continuato a svolgersi come prima, la compattezza della popolazione non ha permesso nessuna infiltrazione, nessun attentato. Per l’ennesima volta il popolo Curdo è stato ingannato dall’Occidente e così per vari interessi e convenienze le promesse fatte, una volta spazzato via l’Isis, sono state disattese. Un popolo di 45 milioni di persone diviso tra quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, continua a vivere, bistrattato e non riconosciuto. Tutto ciò aprirebbe un discorso a parte, ma come accennavo poc’anzi, anche le profonde divisioni interne, una volta scampato il pericolo Isis, hanno minato le legittime aspettative curde”.

Come si è mossa la cooperazione italiana in questi difficili anni?

“La Cooperazione italiana, è presente in Iraq dalle guerre del Golfo, prima per sostenere le popolazioni provate dal conflitto e per aiutare la ricostruzione del paese, successivamente, a Nord nel Kurdistan, per contribuire all’organizzazione della concessa autonomia (prima della guerra con l’Isis) ai tre Governatorati Erbil, Sulaymaniyah e Duhok. Personalmente ho prestato servizio nel lasso di tempo prima e durante il conflitto con l’Isis. Il nostro lavoro è consistito nel supporto alla Sanità del Governatorato di Duhok. In una prima fase offrendo il know how alla riorganizzazione e modernizzazione del servizio sanitario, quando i dividendi del mercato del petrolio parevano offrire al Kurdistan la necessaria disponibilità finanziaria, poi, svanita questa risorsa, a sostenere con personale e mezzi il servizio sanitario e l’assistenza ai numerosissimi profughi siriani ed iracheni. Il Governatorato di Duhok non ha lesinato aiuti ai profughi inserendoli gratuitamente nell’assistenza del proprio servizio sanitario, e permettendo, a differenza degli altri governatorati, la libera circolazione dei profughi nel proprio territorio. Appena fuori dalla città di 250.000 abitanti c’era un campo profughi di 80.000 persone…”

* Antonio Aloi. Medico chirurgo. Già direttore UTL di Gerusalemme e della sede di Kampala. Ha svolto incarichi di prestigio quale delegato presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, referente all’UNAIDS e presso l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA. In Iraq è stato rappresentante per l’AISPO.

TRUMP ACCUSA LA LOTTERIA

La reazione di Donald Trump all’attacco terroristico a New York ha diviso l’opinione pubblica americana. A poche ore dalla tragedia di Manhattan il vulcanico presidente apre sull’immigrazione una nuova polemica politica. Destinata a durare, probabilmente per l’intero mandato. Nelle scorse settimane impietosi sondaggi avevano dato la popolarità dell’attuale capo di stato in caduta libera, ad un anno dalla sua, per molti versi inaspettata, vittoria elettorale la stella del tycoon chiomato ha perso splendore. La strategia comunicativa dell’istrionico presidente di scegliere un bersaglio e martellarlo di tweet violenti ha perso mordente. La fiducia nella gestione di Trump è scemata nel tiepido consenso. Dopo un’estate trascorsa a punzecchiare, ricambiato, il dittatore Nord coreano Kim Jong-un e a lanciare accuse alle politiche multilaterali del suo predecessore Obama, Trump in queste delicatissime ore è tornato a mettere al centro del dibattito la questione migranti. Lo spunto di partenza delle invettive presidenziali è il terrorista uzbeco Sayfullo Saipov, l’uomo che ha compiuto la strage nelle strade della Grande Mela e che Trump vorrebbe “giustiziare come un animale”. La retorica trumpiana ha puntato il dito prima contro il sistema di giustizia penale statunitense, “una barzelletta”, e poi contro quello dei permessi di soggiorno. Critiche feroci che l’inquilino della Casa Bianca ha rivolto alle modalità di immigrazione in USA. Nello specifico vittima della campagna di Trump è il permesso di soggiorno ottenuto grazie alla lotteria, la “Green Card Lottery”, lo stesso che possedeva Saipov. Lo scorso anno i biglietti vincenti per il sogno americano sono stati 55mila, distribuiti in modo “casuale”. La lotteria dei visti è stata introdotta nel 1990 con la ratifica del repubblicano George Bush senior. Alla base del programma l’idea di garantire la diversità dei cittadini stranieri presenti sul suolo americano. La legge, e il computer che estrae, esclude automaticamente i candidati di stati che hanno superato il tetto prefissato di presenze. I fortunati sorteggiati per ottenere la Green Card devono quindi passare alcune fasi che possono richiedere anche anni, incluse attente interviste. Se si pensa che nel 2016 sono stati approvati circa un milione di permessi tramite le normali procedure è evidente come la lotteria incida in maniera irrisoria. Un falso problema. Il teorema di Trump è ridisegnare l’approccio dei visti d’ingresso in USA, abolendo l’attuale che poggia sul ricongiungimento familiare, introducendo il criterio del punteggio e del merito. La linea dura di Trump ha riguardato persino l’ipotesi estrema di vietare l’immigrazione musulmana sul suolo statunitense. Poi c’è stata una più contenuta lista di cittadini provenienti da determinati regioni, al bando Iraq, Iran, Yemen, Libia, Somalia e Siria. Mentre mancavano Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Libano, da cui arrivarono i terroristi dell’11 settembre 2001. Ed era assente persino l’Uzbekistan, paese d’origine di Saipov. In questi mesi l’amministrazione Trump ha avanzato alcune proposte che sono state rimbalzate dalle aule dei tribunali federali, altre invece sono impantanate al Congresso, dove il presidente non è in grado di amalgamare una maggioranza che lo segua devotamente. La sicurezza nazionale è un argomento “nuovo” per il pubblico americano anche se la percezione è cambiata dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Un evento drammatico che ha lasciato una ferita profonda. Per punire i mandanti, i soldati a stelle e strisce scesero in terreno afgano con l’obiettivo di portare e impiantare la democrazia tra quelle montagne. Una guerra che continua. In questi anni il terrorismo islamico di stampo qaedista è stato soverchiato prepotentemente dall’ideologia dell’Isis. Il nuovo cartello del terrore opera su scala globale. La radicalizzazione non ha confini e tantomeno può essere contenuta con la chiusura di una lotteria.

DIPLOMAZIA TRUMPIANA IN MEDIORIENTE

La crisi del Golfo non si placa. Il Qatar tende la mano in un gesto di distensione ma l’Arabia Saudita, alla guida della coalizione contro Doha, rimane su posizioni intransigenti. Sul campo il Segretario di stato statunitense Rex Tillerson è stato impegnato in una vana mediazione. Lo spiraglio per una ripresa del dialogo tra gli stati arabi è flebile. La diplomazia di Trump ha fatto un sonoro buco nell’acqua. Con Tillerson costretto ad ammettere pubblicamente il fiasco: “Non possiamo forzare colloqui tra persone che non sono disposte a parlarsi”.

Il prodromo alla questione Mediorientale lo scorso 5 giugno, quando Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein hanno tagliato i legami diplomatici con il Qatar e imposto pesanti restrizioni, incluso l’embargo aereo, marittimo e dei confini terrestri, al piccolo stato della penisola araba: accusato di finanziare il terrorismo internazionale e di essersi pericolosamente avvicinato all’Iran. In una alleanza strategica che mette a rischio gli equilibri fragili nella regione, un “tradimento” al blocco sunnita. Doha in questi mesi ha negato con forza le accuse senza tuttavia ottenere dai vicini un disgelo. Il pessimismo mostrato da Tillerson la dice lunga. Il braccio destro di Trump prima di giungere in Qatar aveva riportato un successo mettendo allo stesso tavolo i governi di Riyadh e Baghdad, una pacificazione storica sottolineata dal comune sentimento anti-Isis. Mentre, nelle stesse ore a Washington, Trump usava toni trionfalistici per commentare la conquista di Raqqa da parte delle milizie curde con il sostegno dell’aviazione americana. “La fine del Califfato è prossima”, ha annunciato il capo supremo della prima potenza mondiale, rimarcando che nella lotta all’Isis da quando è in carica sono stati compiuti sforzi, e vittorie, superiori rispetto al passato. E avvisando che la sconfitta dei jihadisti coincide con l’inizio di una “nuova fase” per la Siria: offrire supporto alle forze curde e consentire agli sfollati di far ritorno nelle loro case. L’inquilino della Casa Bianca non ha tuttavia nascosto che la transizione verso la stabilità politica di Damasco non è imminente. La ritirata delle milizie del Califfato dalle roccaforti lungo l’Eufrate ha significato un ritorno dell’autorità di Assad e l’espansione delle aree d’influenza dei suoi fedeli alleati, siriani e russi. Non meno rilevante il fatto che i curdi siano sul piano militare in grado di fronteggiare gli avversari e allargare la sfera egemonica nella regione. Inoltre, come i vertici della CIA da giorni tentano di spiegare al proprio presidente: gli USA restano un potenziale bersaglio. I circa settemila combattenti, tra cui molti foreign fighters, sparsi a cavallo tra Siria e Iraq sono una minaccia anche fuori dei confini mediorientali. La guerra su scala globale non è ancora finita. E i futuri assetti sono molto incerti: la mappa disegnata da Sykes e Picot che un secolo fa dette vita alla definizione degli stati del Medioriente novecentesco è carta straccia. Nello scenario attuale la Turchia di Erdogan non può rimanere estranea a quanto gli accade intorno, un Iraq frantumato e debole è facile preda di chiunque, il nazionalismo curdo è in movimento verso l’indipendenza, l’Iran ha la possibilità di creare un cuscinetto territoriale che si estende da Teheran sino al Libano, elementi che messi in gioco possono repentinamente alterare la situazione e trasformarla in esplosiva. Il tacito accordo tutti contro un unico nemico, l’effetto collante della guerra all’Isis rimandando le divergenze a dopo, potrebbe ben presto scadere e riportare i vari attori in lotta fra loro. A quel punto un confronto USA, da una parte, e Iran, dall’altra, diventerebbe quasi inevitabile. Gli occhi sono puntati alle strade di Al Tanf dove da settimane non mancano episodi di “autodifesa” tra filoamericani e filoiraniani.

NO TENGO MIEDO

Poche ore di distanza e il grido Allah Akbar echeggia dalla Catalogna alla regione di Turku. Una serie di attentati a catena che se non orchestrati nel dettaglio sono sicuramente sponsorizzati Isis. Persino il web si tinge di nero con frasi farneticanti: “La Spagna è la terra dei nostri avi e noi la riprenderemo con la forza”. Agghiaccianti parole che non piegano gli spagnoli scesi in piazza: “No Tengo Miedo”, “Non ho paura”. Per capire a fondo la natura dell’Isis non è sufficiente fermarsi alla sua ideologia di morte e distruzione. Il terrorismo di matrice jihadista è il risultato degli effetti della crisi internazionale e dei conflitti localistici che imperversano nel Medioriente da anni. L’Isis non è solo una costola “impazzita” di Al Qaeda, è la sua metamorfosi strutturale. È un salto di qualità rispetto ad una visione che personificava il culto di Bin Laden. È il passaggio da un sistema che ruota intorno ad un sole a quello di una galassia di stelle sparse nello spazio infinito. Per questo anche se i seguaci del Califfato perdono terreno e sono sconfitti sul campo di battaglia mantengono un forte ascendente e ingrossano le fila nei quattro angoli del pianeta. Il regno del terrore muore lentamente tra le dune del deserto in Siria e Iraq ma il sogno resta, e nuove ondate sono pronte ad immolarsi per la causa. Alla vigilia dell’11 settembre 2001 al Qaeda contava su una forza di poche centinaia di unità, oggi lo stato islamico possiede nella penisola araba qualcosa come 40mila miliziani, un’armata imponente. Fanatici provenienti, in maggioranza, dal mondo arabo o reclutati nei paesi occidentali.Tuttavia il numero di forze impiegato nella difesa dei confini del pseudo Califfato, da Mosul a Raqqa, o nella conquista dei villaggi nell’est della Siria è solo la punta di un iceberg. Una rete ramificata si espande in Afghanistan, nel nord Africa e lungo la fascia Subsahariana, in Asia e nel Caucaso. Con cellule nelle città europee e in quelle statunitensi. Plotoni di uomini o lupi solitari pronti all’azione suicida. Impegnati in una guerra asimmetrica per definizione. Per spiegare l’ordine di grandezza del fenomeno jihadista in Siria ed Iraq è necessario partire dal disfacimento del partito d’ispirazione socialista e panarabo Baath, con la caduta di Saddam Hussein e lo sgretolarsi del regime di Assad. Vendette e odi, ufficiali fedeli ai regimi che cambiano casacca e, armi alla mano, passano con l’Isis. Affiliazioni frutto di scelte politiche legate a logiche tribali, non a rivendicazioni religiose sul diritto e la teologia islamica. E una tipologia di organizzazione mutuata dal franchising commerciale. L’aspetto fondamentalista è determinante nell’indottrinamento dei foreign fighters. Idealizzando il valore dell’ortodossia come unica strada per la redenzione, in una lotta senza confini agli infedeli “crociati”. Chi nel 2014, all’insorgere dell’Isis con la proclamazione della nascita del Califfato di Al Baghdadi, ha pensato che sarebbe di li a poco imploso, ha commesso un grave errore di sottovalutazione: non ha tenuto conto che in Turchia il sultano Erdogan pur di arginare i curdi sarebbe sceso a patti con i peggiori delinquenti, aprendo di fatto le frontiere. Resta oscuro e ambiguo il ruolo dei servizi segreti, tanto di quelli sauditi quanto della CIA, nella fase embrionale di Daesh. Invece, è stato trascurato il fatto che nelle prigioni di mezzo mondo una fascia generazionale lasciava la microcriminalità e abbracciava il credo fondamentalista: una sottocultura giovanile dedita allo spaccio dell’hashish che diventa ossessionata dalle cinture esplosive. È mancato anche il blocco alle casse, milionarie, che sostengono economicamente l’organizzazione. Mentre la comunità internazionale dava la caccia al nemico pubblico numero uno, un esercito silente attraversava continenti, montagne e deserti pronto a combattere nel nome di un islam distorto, diffondendo l’idea di un regno dei cieli in terra, portando caos, sangue, terrore e paura ovunque.

 

Russia e Siria nella spirale del terrore

Russia e Siria ancora nella spirale del terrore. Tritolo nella stazione della metropolitana di San Pietroburgo e bombe chimiche sulla cittadina di Idlib. A mietere civili inermi nell’estremità orientale dell’Europa è stato un kamikaze di origine kirghisa mentre, nel Medioriente sono gli aerei di Damasco a disseminare morte. Il denominatore in comune ai due eventi è il presidente siriano Assad e la sua alleanza con Mosca: Putin è al fianco del dittatore nella guerra civile con armi e soldati. Il terrorista che ha colpito la città natale dello zar Putin tuttavia non è nato e cresciuto in Siria, non proviene nemmeno dalla Cecenia ma da una sperduta ex provincia dell’Unione Sovietica. Dunque l’indottrinamento dell’attentatore andrebbe imputato, con molta probabilità, alla radicalizzazione dei giovani in quella remota regione. L’ondata di terrore che ha colpito la Russia a partire dagli anni ’90 è, in particolar modo, legata alle richieste indipendentiste cecene. Negli ultimi anni altri gruppi di ispirazione jihadista hanno aderito al terrorismo nel nome di un emirato Caucaso conforme al Califfato dell’Isis. Tra le file dei foreign fighters che combattono in Siria o in Iraq per l’Isis c’è una presenza cospicua di miliziani reclutati nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Brigate di assassini senza pietà, persone di estrazione povera, cresciuti in regimi autocratici, con trascorsi in prigionia tra torture e indottrinamento fondamentalista. Figli di un malessere generalizzato, vittime di società oppresse sia economicamente che culturalmente, giovani che sognano in qualche modo una rivincita con l’uso della forza e della bestialità. L’attentato di San Pietroburgo, gli attacchi in Turchia ed in Europa, come del resto tutti quelli di questi ultimi anni a partire dal 11 settembre 2001 pongono sistematicamente la questione di come confrontarci con l’Islam fondamentalista: la condanna è unanime mentre le soluzioni proposte sono varie e spesso contrastanti, a seconda della visione sociopolitica dei vari interlocutori e soprattutto (e questo è un guaio) degli interessi confessabili ed inconfessabili. Militarmente siamo sufficientemente “agguerriti” per far fronte e sconfiggere, sul campo, manipoli di combattenti fanatici che hanno come vero autentico culto solo la morte, lo dimostrano le varie campagne lanciate in questi mesi contro il Califfato dall’Iraq alla Libia, oppure gli esiti del conflitto ceceno e di molte altre guerre poco conosciute. Due distinti fattori, geografico e geopolitico, alimentano il persistere di questo dilemma del nostro secolo. Il teatro principale del conflitto è una striscia di terra che include Mediterraneo, Medioriente, ex repubbliche sovietiche asiatiche e nord Africa. Tutti paesi a maggioranza mussulmana privi di democrazia reale. Dove però i giochi, il controllo, l’influenza sono sostanzialmente riconducibili al blocco occidentale, alla sfera di Mosca e all’espansione turca. Nella crisi siriana questi elementi sono venuti alla luce con effetti deleteri e ripetuti. In Siria assistiamo ad un massacro giornaliero, le scuole e gli ospedali bombardati dall’aviazione siriano-russa, le violenze dei ribelli al regime di Assad, i rastrellamenti, le torture nelle carceri. Lo scontro frontale al fondamentalismo ha finito per alimentarlo e dittature destinate a crollare resistono solo grazie ad aiuti internazionali. Spesso la soluzione è più semplice di quanto si possa pensare, ma fare la cosa giusta non è così facile: esportare la democrazia ha un prezzo, invadere un altro. Il secondo assicura un serbatoio enorme di miliziani per lo Stato Islamico e per tutte le sigle jihadiste.

 

LE VICENDE TURCHE

La Turchia è attraversata da un’ondata di violenza inaudita, una catena di attentati che minano la coesione sociale, e dimostrano una pericolosa fragilità dello stato. La fredda mano del giovane folle attentatore che colpisce alle spalle il plenipotenziario di Putin è l’ennesima dimostrazione della fragilità di Ankara. L’enigmatico scenario ha una spiegazione nell’ascesa di Recep Tayyip Erdogan. L’uomo forte di Istanbul salito al potere nel 2003 ha saputo allargare e radicare il proprio consenso in particolare tra la classe media del paese, proponendosi agli occhi e alle tasche della gente come garante incondizionato e soprattutto incontestabile. E così il liberismo islamizzante di Erdogan ha corretto il percorso democratico e laicizzante che avrebbe dovuto portare la Sublime Porta dentro i confini di una nuova Europa. Deviando dagli obiettivi di una grande unione per il progresso e la civiltà: il ponte strategico tra Occidente e Oriente rischia di non essere inaugurato, almeno a breve. Il governo turco ha mostrato al mondo il vero volto di un sultano vendicativo e con lo sguardo al passato: deciso a consolidare il potere personale e allo stesso tempo impegnato a sopprimere il dissenso interno in modo drastico. Mentre il Bosforo sprofondava nel caos tipicamente mediorientale, il terrorismo insanguinava i luoghi pubblici e i militari occupavano i ponti, Erdogan adottava la repressione autoritaria ed estendeva le sue ingerenze sulla regione. Il fallito golpe del 15 luglio, per quanto ingiustificabile, ha avuto l’effetto di rendere la preda a sua volta uno spietato cacciatore. La vittoria schiacciante del leader turco, dovuta sostanzialmente alla discesa in campo del popolo, ha avuto una portata maggiore di un successo elettorale. Gli argini della democrazia e dei diritti umani sono stati spazzati via non con voto plebiscitario ma per acclamazione della piazza. Il giro di vite, il governo che ordina di imprigionare decine di migliaia di presunti golpisti e persone vicine a colui che sarebbe secondo Erdogan il vero ispiratore delle manovre di destabilizzazione, la guida spirituale Fethullah Gulen. La drammatica epurazione tra le fila dell’esercito e della burocrazia, il sistematico arresto di giornalisti non allineati, la sospensione di accademici e insegnanti, sono state le risposte di Erdogan ai propri nemici. E la fine di vecchie amicizie.  Una cosa che ancora oggi sfugge è il fatto che, alla vigilia del colpo di stato, nessuno abbia potuto prevedere che la Turchia sarebbe scivolata nel dramma del Medioriente, assorbita dal vortice di violenza. Il senso comune era che in fondo Ankara è sempre stato un fraterno alleato politico e militare dell’Occidente, un muro all’espansione russa, un affidabile referente nelle tribolate questioni arabe. In pochi sospettavano che Erdogan volesse realmente costruire uno stato islamico sunnita e che tentasse di portare in vita il sogno del ritorno dell’Impero Ottomano, la convinzione più diffusa era che avrebbe preservato l’ordine sociale, con scelte conservatrici ma mantenendo in piedi la struttura dello stato turco costruito da Kemal Ataturk. Così non è stato. Ed oggi la Turchia è un concentrato pronto ad implodere. Con un parlamento senza opposizione e gli effetti della crisi siriana oramai dentro casa. Con la morsa del terrorismo, vuoi per mano dei fondamentalisti dell’Isis o per quella della minoranza curda del PKK e delle sue cellule più o meno affiliate. Le recenti stragi di Istanbul e in Cappadocia rafforzano ulteriormente l’impressione che la Turchia isolandosi è diventata sempre più debole, insicura e instabile, e che le geopolitiche di Erdogan, spinte sino all’alleanza con l’ex nemico Putin, non sono in grado di riportare tranquillità, sviluppo e pace. Il sultano dovrà presto decidere se dispiegare le armate dei giannizzeri ai quattro venti del Vicino Oriente oppure avere una numerosa rappresentanza al parlamento europeo. Le due strade oggi sono incompatibili. E le minacce all’Europa non sono più ammesse.

LE PRIGIONI SIRIANE

Abbiamo tutti visto gli occhi persi nella paura del piccolo Omran, immobile e scalzo su quel sedile arancione di un’ambulanza ad Aleppo, un pulcino fragile, incenerito e macchiato di sangue. Nella storia di quel bambino c’è il simbolo della guerra civile siriana. Poi c’è quello che non vediamo e che ci viene svelato solo in parte, è la fotografia della vita nelle prigioni: fame, senza cure mediche, confessioni estorte con la tortura. È sufficiente il sospetto di far parte dell’opposizione al regime di Damasco per aprirti le porte di un calvario. Amnesty International pochi giorni fa ha diffuso sulla Siria dati allarmanti: 17.723 i carcerati morti nelle prigioni governative dall’inizio della rivolta ad oggi. 10 persone ogni giorno hanno perso la vita tra le sbarre. Il nuovo rapporto del movimento per i diritti umani fondato negli anni ’60 dall’attivista britannico Peter Benenson porta alla luce inquietanti dettagli sulle sevizie, sull’uso sistematico delle violenze corporali ai prigionieri da parte delle guardie carcerarie: frustate, bruciature con sigarette, acqua bollente versata sul corpo, scosse elettriche. Il governo siriano ha ripetutamente negato tutte le accuse. Chi è passato per le prigioni della dittatura racconta: «Le feste di benvenuto consistevano in percosse con barre di metallo e cavi elettrici».

Celle sovraffollate, sporche. Poca aria. «Mi hanno bendato prima di consegnarmi ad un ufficiale che ha iniziato ad insultarmi, quando mi ha detto che non avrei mai più rivisto la luce del sole gli ho creduto». Decine rinchiusi nella stessa stanza. Obbligati a dormire a turno. Costretti a bere l’acqua del gabinetto. Racconti raccapriccianti di costrizioni ad abusi sessuali tra detenuti. Sotto le minacce delle pistole. Picchiati a sangue dalle aguzzine guardie per giorni. «Abbiamo visto il sangue colare fuori dalla cella. Dentro erano tutti morti». Il luogo peggiore si chiama Saydnaya, carcere militare a 25 km al Nord di Damasco. È un carcere di massima sicurezza invalicabile. Un buco nero dei diritti umani: «Riconosci le persone dal suono dei passi. Avverti che stanno distribuendo il cibo dal tintinnio delle ciotole. Le urla annunciano nuovi detenuti. Durante le punizioni cala il silenzio, qualsiasi lamento prolunga l’agonia». Nelle carceri di Assad si annienta l’essere umano nello stesso modo di quelle degli insorti: “Un Inferno senza diavoli e fiamme” la definizione del giornalista italiano Domenico Quirico rapito in Siria nel 2013. La denuncia delle organizzazioni umanitarie chiama in causa anche i rivoltosi. Le crudeltà commesse dai miliziani del Califfo sui civili sono una piaga: crocifissioni, amputazioni di arti, lapidazione e fustigazioni. Massacri di massa, individuate almeno 17 fosse comuni. Uccisioni sommarie e guerriglieri liberi di compiere efferatezze senza limiti. Un genocidio dove villaggi vengono sistematicamente ed interamente sterminati. La popolazione che vive nel terrore, persone trattenute per lunghi interrogatori solo a causa delle loro opinioni politiche o culto religioso. Nelle zone in mano ai gruppi armati di matrice fondamentalista sono state create delle istituzioni amministrative e semi-giudiziarie. Un sistema processuale parallelo, basato sull’applicazione, più o meno rigida, della legge islamica (shari’a). Giovani portati in cella perchè: trovati a fumare in pubblico, indossavano abiti troppo aderenti oppure avevano avuto la malaugurata idea di radersi la barba. «Russia e Stati Uniti dovrebbero pretendere la fine dell’uso della tortura nelle carceri. Fermiamo le sofferenze di massa, è una vergogna». Le parole di Philip Luther direttore di Amnesty per le aree del Medioriente e del Nord Africa rinnovano il dibattito e le polemiche. In Siria fa paura ciò che si vede, ma non è meno terribile di quanto non vedremo mai.

LA PACE IN SIRIA PER PAPA FRANCESCO

Siria. Per fare le guerre servono tre cose: soldati, armi e denaro. Per fare la pace una sola: la volontà. “La pace è possibile!” Ripete instancabilmente Papa Francesco e inaspettatamente, in queste ore, anche Ankara apre uno spiraglio: “Stabilità in Siria”. È stata la dichiarazione rilasciata dal neo premier turco Binali Yildirim che ha aggiunto: “sono certo che arriveremo alla normalizzazione delle relazioni con la Siria.” Il governo di Erdogan, dopo il recente attentato di Istanbul, stende per la prima volta la mano a Bashar Al Assad, in un gesto di disgelo che potrebbe avere rilevanti ricadute. Intanto però nel paese dopo 5 anni di guerra non c’è tregua che regge. Esplosioni nel mercato di Idlib, bombe a Homs mentre, ad Aleppo si combatte di nuovo nei quartieri della città vecchia e lungo l’arteria principale per l’entroterra del paese. La Siria oggi, di fatto, non esiste più, quello che rimane è una cartina geografica con tante bandierine colorate che si spostano come il vento. Zone sotto il controllo delle forze governative e quelle in mano agli eserciti antigovernativi, aree che si allargano e poi si restringono nella quotidianità più totale, terre dove spadroneggiano i signori della guerra. Formazioni “rivoluzionarie buone e cattive”, partigiani e fascisti islamici: giovani ragazze curde che combattono per difendere la casa e incappucciati jihadisti con l’obiettivo di portare il mondo sul baratro. Spazio vitale del peggiore fondamentalismo di matrice terroristica: Isis e Al Qaeda. Interessi più o meno velati di mezzo mondo:. In un conflitto che da locale ha assunto il livello di uno scontro globale. In mezzo stretti in una morsa di morte milioni di profughi, ai quali la storia, come ricorda Papa Francesco, ha provocato una “indicibile sofferenza”. Vittime della catastrofe siriana “costretti per sopravvivere alla fuga verso altri Paesi”. E per loro il Vescovo di Roma ha lanciato un nuovo accorato appello, chiedendo una sensibilizzazione nelle parrocchie nella diffusione di un messaggio di unità e speranza: “sostenere i colloqui di pace verso la costruzione di un governo di unità nazionale”. L’azione diplomatica della Santa Sede è in piena attività da mesi, la Caritas internazionalis ha ufficialmente aperto una campagna umanitaria, l’operazione prevede oltre all’invio di generi di prima necessità anche rifugio e protezione alla popolazione stremata. Il pensiero di Bergoglio è per la comunità araba cristiana: vittime dell’odio e delle discriminazioni. Più volte la minoranza cristiana è stata al centro delle parole del Santo Padre che in queste ore invoca un salto di qualità, il passaggio dalle preghiere alle opere concrete: negoziati tra i principali attori di questo eccidio. “Affinché prendano sul serio gli accordi e si impegnino ad agevolare l’accesso agli aiuti umanitari”. In 50 anni di storia la Siria ha avuto due rivoluzioni: la presa del potere del partito Ba’th nel ’63 e la primavera araba nel 2011. Entrambe degenerate in due controrivoluzioni: la prima nel ’70 con l’ascesa del gruppo Alawita e l’instaurazione della dittatura, la seconda con l’attuale massacro civile. Un conflitto intestino drammatico che come crede Francesco potrà terminare solo “con una soluzione politica”, spezzando il nodo gordiano degli opportunismi. Mutuando Ernest Hemingway “in una lotta tra cani non è la stazza ma la ferocia che spesso decide le sorti della sfida”. Per placare le belve che popolano la Siria c’è da mettere molte museruole, rilanciare il ruolo della diplomazia e applicare una risoluzione Onu mai rispettata. Congelata in attesa di un dialogo realistico basato su condizioni etiche.

TOGLIERE LA MASCHERA ALL’ISIS

Sul nostro pianeta c’è qualcuno che è di troppo. E non stiamo parlando di prospettive demografiche o economiche bensì di modelli di vita e ideologie. Dopo l’ennesimo attentato ad una capitale europea ci siamo ricordati, più o meno tutti, che la guerra è globale e alla fine ci sarà un solo vincitore o l’Europa o l’Isis. Non può essere diversamente in un mondo che è troppo stretto per averci entrambi. Preso atto degli infruttuosi tentativi di trovare soluzioni rapide ed efficaci a contrastare il terrorismo, è quanto mai urgente rimodulare la politica mondiale. La superiorità della forza militare dei paesi occidentali sul Daesh è schiacciante, se i due eserciti si affrontassero apertamente in un campo di battaglia le sorti sarebbero scritte. Quando però la minaccia nasce nei quartieri delle nostre città, nel cuore dell’Europa, allora la capacità di prevenzione è minore, l’esito meno scontato. Il «terrorismo molecolare» messo in atto dai seguaci del Califfato è una strategia difficilmente arrestabile, basta vedere, con le dovute differenze del caso, la seconda e in particolare la “terza” Intifada palestinese in Israele, quella dei lupi solitari. Aumentare il livello di sicurezza è un passaggio logico, come prendere consapevolezza che la lotta al caos riguarda direttamente la collettività, il popolo europeo e l’umanità. Per questo sradicare il pensiero fondamentalista islamico alle radici è indispensabile. Fermare il proselitismo è il primo passo per vincere la partita. Interrompere l’interazione dei terroristi con il web e l’attrattiva mediatica del movimento terroristico sui giovani “occidentalizzati”. Uno dei network di propaganda dimostratosi più attivo nel reclutamento in questi anni è Sharia4, ne fanno parte gruppi che utilizzano un nome con variabile geografica e filiali ovunque: Sharia4Belgium, Sharia4UK, Sharia4France, Sharia4Italy e così via. Il Belgio è stato il primo paese a prendere delle misure contro questa organizzazione “anfibia”. Nel Maggio 2015 i magistrati di Bruxelles hanno portato a processo il maggior numero di presunti militanti jihadisti che si sia mai visto in Europa, infliggendo pene severe. Non è bastato ad evitare la strage di Bruxelles, ma sicuramente è servito. Prima di tutto perché ha dimostrato all’opinione pubblica la pericolosità di questa organizzazione. Ha fallito sostanzialmente per il fatto che molti degli imputati e condannati sono tutt’ora latitanti. Tra le tante “primule rosse” anche Yassine Lachiri condannato in contumacia, arrestato lo scorso anno in Turchia mentre attraversava il confine con la Siria e poi scambiato dal governo di Ankara con ostaggi dell’Isis. Invece di essere estradato in Belgio dove avrebbe dovuto scontare una pena di 20 anni. Difficile non ipotizzare un suo ruolo negli attentati di Bruxelles.
La delocalizzazione e prolificazione in mezza Europa delle organizzazioni terroristiche è una formula, purtroppo di successo, del franchising del marchio jihadista: un sistema che ha il “core business aziendale” in Medioriente, in regioni dove regna la frantumazione sociale e infiammate da guerre civili devastanti. Siria, Yemen e Iraq ospitano scuole d’indottrinamento per futuri kamikaze. Nel vuoto politico libico si diffonde la bandiera nera dello Stato Islamico. Nel Sinai e a Gaza, tra dune e tunnel, Hamas “fraternizza” con gli uomini del Califfo. Anche tra le mura della Città Vecchia di Gerusalemme spuntano le prime cellule affiliate al Daesh. Africa e Medioriente sono nascondigli sicuri, basi logistiche per foreign fighters dove oltre alle armi, alle tecniche di guerra e alle lezioni di sharia islamica girano ingenti somme di denaro necessario per finanziare una struttura che altrimenti collasserebbe in poco tempo. Senza ombra di dubbio un sistema economico alimentato da un intricato groviglio di canali con diramazioni e giochi di potere internazionali. E questo ultimo aspetto resta ad oggi quello più spinoso: riuscire a tagliare i fondi al terrorismo e smascherare chi si nasconde dietro il Califfato. Dando una volta per tutte un volto ai responsabili di questo demone.

CALIFFO E SULTANO IN LOTTA

In Turchia non c’è pace, il 2015 si è chiuso con un bilancio molto pesante, si sono susseguiti attentati e forti fibrillazioni politiche. Il 2016 si è aperto con un nuovo attentato nel quartiere culturale di Istanbul. La strage è un messaggio all’Occidente: il terrorismo fondamentalista vuole uccidere i turisti europei, danneggiando l’industria del viaggio. Ha colpito le spiagge della Tunisia e recentemente quelle di Hurghada. Dalla Francia al Maghreb ha versato sangue in teatri, ristoranti, musei e alberghi. Una scia di orrore che giunge fino alle sponde del Bosforo dove nella mattina di martedì un kamikaze di origine siriana si è fatto esplodere in piazza Sultanahmet a pochi metri dalla Moschea Blu e da Santa Sofia, lasciando sul selciato dove si erge l’obelisco di Teodosio una fila di cadaveri, quasi tutti di nazionalità tedesca. La strage al cuore della vecchia Bisanzio porta la firma dei miliziani del Califfato. La Turchia è una delle destinazioni turistiche più visitate del Mediterraneo, il fascino che emana Istanbul incanta ancor oggi i viaggiatori di tutto il mondo. Crocevia di storia e civiltà, dagli antichi Ittiti ai Romani, dall’Impero di Bisanzio a quello ottomano. Un paese moderno forgiato da un solo uomo Ataturk che alla fine della Prima Guerra mondiale, dalle macerie di un’impero multinazionale e multireligioso, ha costruito una nazione laica e protoccidentale. Quasi un secolo dopo l’identità della porta d’ingresso all’Europa è ancora sfuggente e contraddittoria. Un paese in bilico, fragile e conflittuale. Terra di passaggio per coloro che sono in fuga, ospita oltre due milioni di profughi. Ostinatamente rifiuta di ammettere le proprie responsabilità nei confronti dello sterminio degli armeni; continua ad opporsi strenuamente alla nascita di uno stato curdo; è “pesantemente compromessa” nella questione siriana, rappresentando una base logistica sicura per coloro che in Siria combattono nel nome del Califfato. Una relazione pericolosa quella tra Turchia e Stato Islamico che ha esposto il governo di Ankara a forti critiche e pressioni internazionali. Qualcosa però stava cambiando negli assetti geopolitici, pochi giorni fa la polizia turca aveva dichiarato di aver effettuato arresti ed espulsioni di simpatizzanti Isis provenienti dall’Europa, potenziali foreign fighters. E poi l’annuncio, meno di 24 ore prima dell’attentato di Istanbul, di aver scoperto una rete terroristica pronta a colpire su vasta scala le capitali del Vecchio Continente. Ebbene, esaminando gli episodi drammatici degli ultimi dodici mesi è evidente l’evoluzione strategica di un conflitto asimmetrico che l’intelligence non è in grado ancora di prevenire. Significativa la modalità d’azione eseguita negli attentati compiuti: meticolosa programmazione, indice di ricerca, preparazione nei dettagli e nel bersaglio da colpire. Non c’è improvvisazione in questa macchina della morte, ma fredda lucidità. È un salto di qualità del terrorismo islamico. L’obbiettivo finale è diffondere il caos. Non è la prima volta che l’Occidente è attraversato dal terrore, ideologie aberranti hanno reclutato, indottrinato, addestrato e mandato ad uccidere già altre volte. Tuttavia l’Isis ha consolidato in questi mesi la supremazia tra le organizzazioni terroristiche, è arrivata dove altri avevano in passato fallito: toglierci la tranquillità, infondere la paura generale. La guerra santa dell’Isis è globale, ma ha un fondamento politico e militare nell’area siro-irachena. La prossimità con la Turchia allarga il territorio dove girano liberamente i proseliti di Daesh e dove, tra le maglie dei migranti, sono reclutati terroristi per compiere missioni assegnate in altri paesi, inclusa l’Europa. Ecco, quindi, che il terrorismo islamico lega dinamiche regionali a effetti internazionali con risultati devastanti. Dietro a convergenze politiche, accordi da bazar, sfere d’influenza, c’è il disegno per imporre l’egemonia sul futuro Medioriente. Le ambizioni del “sultano” Erdogan di riaffermare il ruolo della Sublime Porta vacillano sotto le ambiguità dei misteri che lo legano al “califfo” Abu Bakr Al Baghdadi. Intanto nel Bosforo risuona la prima esplosione e domani rischiamo di dover commentare una nuova pagina di terrore.