COSA SAREBBE SUCCESSO SE RABIN NON FOSSE STATO ASSASSINATO?

Su tutto ciò che è stato pronunciato o scritto nel ventesimo anniversario della morte di Rabin, tanti sono stati i “cosa sarebbe successo” se fosse rimasto vivo. Certo, non potremo mai saperlo, e ciascuno di noi si avvicina a questo pensiero dal proprio punto di vista o dalle sue idee politiche.

E’ vero, i sondaggi erano contro di lui. Le elezioni, previste per il novembre del ’96, erano le prime che prevedevano il voto disgiunto tra il partito politico e il candidato primo ministro. Nel faccia a faccia tra Rabin, il premier allora settantatreenne, e il giovane leader del Likud Benjamin Netanyahu, i sondaggi oscillavano tra il pareggio e il vantaggio per il candidato più giovane, diretta conseguenza di una recrudescenza della violenza palestinese. Pur non escludendo una possibile debacle elettorale, giova ricordare che Rabin aveva ancora un altro anno di governo del paese, e aveva preso misure significative per far cambiare il vento dei sondaggi.

All’inizio del mandato di Rabin come primo ministro ero il viceministro degli Esteri, mentre verso la fine ero stato nominato ministro per l’Economia e la Pianificazione. In quei due anni condussi negoziati segreti e informali con l’uomo che oggi è il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, allora presidente del comitato esecutivo dell’OLP, per delineare una risoluzione permanente, tra cui una precisa mappa di scambi territoriali sulla base della Linea Verde (le cosiddette Linee 1967).

Sabato 30 Ottobre 1995, Abbas arrivò nel mio ufficio a Tel Aviv per una riunione con coloro che erano coinvolti nella preparazione dell’accordo (tra gli altri c’erano, per parte israeliana, Yair Hirschfeld, Ron Pundak e Nimrod Novik). Concordammo di mostrare i risultati ad Arafat e Rabin nei giorni successivi. Subito dopo, ad Amman si tenne una seconda conferenza economica regionale. Volai lì con Rabin, e durante il viaggio gli dissi che, una volta rientrato da un già pianificato viaggio negli Stati Uniti, avrei avuto bisogno di un lungo incontro con lui. Non mi chiese di cosa si trattasse, rimanemmo semplicemente che ci saremmo incontrati. L’incontro non ebbe luogo, naturalmente. Mostrai il progetto di accordo a Shimon Peres, diventato primo ministro ad interim, ma lui non era pronto a portare avanti la questione al punto necessario. Informai Abbas che non c’era bisogno di controllare tutto ciò con Arafat.

Pur essendo ben consapevole che questa è una domanda quasi infantile, ammetto che non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo se Rabin non fosse stato assassinato. La risposta è nulla. Avrebbe potuto continuare a portare avanti l’accordo, il passaggio di tutte le città della Cisgiordania, tra cui Hebron, ai palestinesi, chiedendomi di seguire la risposta di Arafat per il cosiddetto accordo “Beilin – Abu Mazen” e, qualora fosse stata positiva, dare l’impulso a intensi negoziati basati su di esso.

E’ possibile che avrebbe portato avanti i colloqui avviati con il presidente siriano Hafez Assad, al fine di raggiungere un accordo su un impegno preso con l’allora segretario di Stato Warren Christopher, che comportava la concessione delle alture del Golan in cambio di garanzie di sicurezza. Avrebbe potuto trasformare le elezioni del novembre 1996 in un referendum su due accordi di pace – con la Palestina e la Siria – raccogliendo i favori del pubblico, vincendo le elezioni, e iniziando il suo ultimo mandato come primo ministro raccogliendo i frutti di pace e di supervisione del completamento del suo vecchio progetto di cambiamento delle priorità della società israeliana.

Anche se questo si sarebbe verificato prima del 2002, anno dell’iniziativa di pace araba, di matrice saudita, è probabile che la pace con i palestinesi e la Siria avrebbe costretto la maggior parte dei paesi arabi a instaurare relazioni diplomatiche con Israele; avrebbe anche comportato l’istituzione di un organismo regionale, dove Israele avrebbe riempito un ruolo economico importante, e un ruolo militare fondamentale quale membro di una coalizione regionale strategica; e Rabin sarebbe stato probabilmente il leader di tutto questo procedimento con l’aiuto di Peres e di altri membri del governo.

In giornate come questa, nelle quali si ricorda questo straordinario uomo – un introverso, sfacciato, pessimista e amaramente sarcastico combattente per un futuro migliore, che era in grado di parlare con grande emozione, esponendo la verità anche pur essendo i suoi discorsi scritti da altri, è doveroso per un attimo sognare ciò che sarebbe potuto essere, senza quei tre colpi di pistola alla schiena.

Yossi Beilin è presidente della società di consulenza aziendale Beilink. In passato ha lavorato come ministro in tre governi di Israele e come un membro della Knesset per Lavoro e Meretz. E’ stato uno dei pionieri degli Accordi di Oslo, dell’Iniziativa di Ginevra e di Birthright.

Il commento è reperibile nel sito del canale televisivo i24

SENZA FINE

Gerusalemme. Non c’è freno all’ondata di terrore che scuote le strade di Israele. È Intifada, l’abbiamo vista crescere nelle passate settimane, a partire dalla battaglia che a Settembre scoppiò nella Spianata delle Moschee e che continuò per giorni, con i fedeli musulmani arroccati all’interno del complesso religioso e la polizia israeliana impegnata a disperdere i manifestanti. Sassaiole, molotov, petardi, lacrimogeni e granate stordenti. A scatenare i disordini la presenza di coloni israeliani e religiosi ortodossi che sono soliti entrare nel luogo sacro all’Islam per poi mettersi a pregare, infrangendo lo status quo e la proibizione imposta dalle massime autorità religiose dell’ebraismo. Altro elemento di tensione in quelle prime ore di Intifada 2.0 è stato il divieto ad alcune murabitat, le donne sentinelle volontarie musulmane che presidiano il luogo sacro assicurando che non venga “profanato da infedeli”, di entrare nella Spianata. Poi nei giorni a seguire la “rivolta” si è allargata anche alle altre città israeliane. Tristemente ha fatto la comparsa quello che è divenuto l’emblema di questa Intifada 2.0: il pugnale. Armati di coltelli uomini e donne palestinesi aggrediscono i passanti. L’epilogo di questi episodi è quasi sempre lo stesso: l’attentatore riverso a terra circondato dalla sicurezza, spesso il corpo è inerme crivellato di colpi. L’Intifada dei coltelli assume di giorno in giorno i connotati di una protesta popolare, in gran parte minorenni dei quartieri arabi di Gerusalemme Est. A differenza delle precedenti “rivolte” è assente un cappello politico, questo è un movimento generazionale con richiami ideologici confusi e indistinti “mescolano anarchia e religione”. Una Intifada che vede le due principali organizzazioni palestinesi Hamas e Fatah assolutamente non in grado di prenderne il controllo e che rischiano di vedere nuove forze politiche emergenti aumentare il consenso nella regione. D’altro canto l’attuale leadership politica palestinese, a Gaza come a Ramallah, non gode di consenso tra i giovani e per questo è relegata ad un ruolo subalterno e protesa ad appoggiare almeno verbalmente la protesta. Una Intifada di ragazzi che passano le giornate a navigare sul web, tra cinguettii e libro delle facce. Da internet scaricano decine di filmati postati durante gli scontri con l’esercito israeliano, oppure altri video di altri luoghi del Medioriente in conflitto, il filo conduttore è sempre la violenza. È il web ad influenzare questa nuova generazione di shabaab che si lanciano in attacchi terroristici armati di pugnale. Pronti a morire nel nome del fanatismo anti ebraico. Giovani terroristi per i quali il martirio prima di essere il raggiungimento del Paradiso è un video virale. Ragazzi che vogliono essere ricordati non nelle pagine dei libri di storia ma da Wikipedia o da eroi di Youtube, per una generazione dove non c’è separazione tra il mondo reale e quello virtuale. Intanto Papa Francesco durante l’Angelus della domenica lancia un accorato appello: “In questo momento c’è bisogno di molto coraggio e molta forza d’animo per dire no all’odio e alla vendetta e compiere gesti di pace … Nell’attuale contesto medio-orientale è più che mai decisivo che si faccia la pace nella Terra Santa.” Mentre, in queste ore, il quotidiano francese Le Figaro ha riportato la notizia dell’intenzione del governo di Parigi di presentare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una proposta che prevede l’invio di osservatori internazionali con lo scopo di “verificare e impedire violazioni dello status quo” nella Spianata delle Moschee. Al testo dell’iniziativa, secondo fonti giornalistiche, lavorerebbe anche la Spagna. Israele però respinge una simile soluzione che secondo il vice ministro degli esteri Tzipi Hotovely sarebbe una chiara violazione della sovranità di Israele.

IL LUOGO SACRO PIU’ CONTESO

Gerusalemme. Ancora una volta gli occhi del mondo guardano inermi la scena della recita della Gerusalemme contesa. Il teatro è il Monte del Tempio o Spianata delle Moschee due nomi per il luogo da settimane al centro delle cronache e degli equilibri diplomatici internazionali. La protesta in Terra Santa si muove di qua e di là dal muro di separazione. Scontri in Palestina, nei campi profughi di Ramallah e Betlemme, negli insediamenti e poi sino ai confini della Striscia di Gaza. In Israele la violenza corre dalla Galilea sino al deserto del Neghev. Anche a Jaffa e Tel Aviv le due città israeliane contigue e laboratorio storico di coesistenza interreligiosa sono contagiate dall’ondata di protesta. A Gerusalemme le sirene delle camionette e delle ambulanze non smettono di suonare nemmeno al calar del sole. Il conto dei feriti e dei morti cambia di ora in ora. La causa scatenante di questa nuova Intifada, quella dei giovani con i coltelli che si parlano attraverso i social, l’Intifada 2.0, è il presunto tentativo da parte del governo Netanyahu di cambiare lo status quo della Spianata. Andando al centro del problema emerge che questa è una “rivolta” fomentata dalla frustrazione di una generazione di nati disperati. Uomini e donne, dai 16 ai 30 anni. Impugnano coltelli e si scagliano sui passanti per poi essere, nella maggior parte dei casi, crivellati di colpi. Sono pronti a morire non tanto e solo per una causa ma quanto per una religione, per il suo simbolo: la moschea di Al Aqsa e la Spianata. Su quelle rocce la tradizione biblica vuole che si svolse il sacrificio di Isacco e che per l’Islam fosse il punto dell’ascesa del profeta Maometto ai 7 cieli. Nell’antichità il re Salomone vi eresse un tempio per ospitare l’arca dell’alleanza. Distrutto dai babilonesi e ricostruito ancora più grande da Erode. I romani sulle macerie del tempio israelita edificarono un luogo di culto a Giove. Nel Medioevo ospitò i cavalieri templari dopo che la città venne conquistata dai crociati espugnando le mura proprio in quel preciso lato della città. Quasi un secolo dopo nel settembre del 1187, entrava vittorioso tra le sue mura il Saladino che fece purificare i luoghi sacri dell’Islam con acqua di petali di rose. Con l’arrivo degli Ottomani il Kotel – Muro del Pianto – divenne venerato dagli ebrei. Ma per quel luogo conteso la pace è una sottile linea rossa, tenue e labile. Al centro di violenti durante il mandato britannico della Palestina tra ebrei e arabi. Re Abd Allah I di Giordania nel luglio del 1951 giaceva a terra colpito a morte da un palestinese. Il 7 giugno del 1967 mentre imperversava la guerra dei Sei giorni i paracadutisti della 55° brigata israeliana prendevano la città vecchia e issavano nella Spianata la bandiera con la stella di Davide. Poi rimossa per volontà dello stesso generale Dayan, conoscitore e attento alle sensibilità arabe. Con gli accordi di pace all’area della Spianata venne garantita piena indipendenza da Israele, che mantiene il diritto di controllo, dalla porta di Mughrabi, dell’accesso al luogo santo per motivi di sicurezza. Il sito, aperto al pubblico, è gestito de jure da una fondazione islamica, la Waqf che fa capo alla famiglia reale giordana e che mantiene l’ordine, regola le visite e proibisce la preghiera ai fedeli di altre religioni, tuttavia, numerosi sono gli ortodossi ebrei che vi si recano a pregare. Nel 1990 la Spianata fu teatro di una rivolta palestinese causata dalla posa di una pietra angolare da parte di un gruppo ebraico di ultra ortodossi che proprio lì vorrebbe la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme per la venuta del Messia. Le violente proteste da parte palestinese e la reazione israeliana provocarono la morte di una ventina di persone e centinaia di feriti. L’episodio passò alla storia come il lunedì nero. Il 28 settembre del 2000, l’allora leader dell’opposizione in parlamento, nella Knesset, Ariel Sharon, accompagnato da una scorta armata, passeggiò nella Spianata, fu l’inizio della seconda Intifada. La realtà del contesto complica e amplifica. Basta camminare per il quartiere ebraico della città vecchia, dove la vetrina di un negozio espone un modellino della città: nuove architetture compongono il plastico ed è ben visibile la costruzione del nuovo tempio ebraico, che colpisce perché è collocato proprio sull’attuale spianata delle moschee. A qualche metro di distanza nella zona araba e musulmana in un bar del suk campeggia un poster: è una recente mappa della Palestina, ma senza lo stato di Israele. Tre mila anni di discordia e molti altri giorni di violenza a venire nel nome di un piccolo lembo di roccia.

INTIFADA 2.0

Pochi giorni fa, nella terra arida delle colline della Samaria, dove qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso la strada che porta all’insediamento di Itamar, all’interno di una macchina utilitaria sono stati rinvenuti due corpi inermi. La famiglia Henkin, marito e moglie, crivellati di pallottole, i quattro bambini a bordo, fortunatamente, incolumi. Le vittime, una giovane coppia di coloni israeliani, freddati da cecchini palestinesi miliziani di Hamas. In queste ultime ore gli appartenenti al gruppo di fuoco sono stati arrestati e avrebbero confessato durante l’interrogatorio, mentre a Ramallah dall’Ufficio del presidente palestinese sono arrivate parole ferme di condanna alle violenze e un invito ad abbassare i toni. Intanto, nel fine settimana è la Città Vecchia, il cuore di Gerusalemme, teatro di un attentato dove perdono la vita due israeliani, uno è un rabbino che si stava recando con la famiglia a pregare al Muro del Pianto. Domenica mattina quando il sole non è ancora comparso un giovane palestinese con in mano un coltello è circondato e ucciso dalla polizia, le immagini corrono sul web. La prima risposta di Netanyahu è la chiusura della Città Vecchia agli arabi non residenti, è la prima volta che il governo israeliano prende una tale misura di sicurezza. Oltre tremila soldati sono dislocati a presidiare i vicoli e le porte d’ingresso ai cinque storici quartieri. Nella giornata di lunedì numerosi incidenti nella Cisgiordania, a Tulkarem perde la vita un diciottenne palestinese. Mentre a Betlemme, nel campo profughi di Aida, muore un bambino palestinese di tredici anni. In Terra Santa non si placa la scia di sangue, sono giorni dove si contano morti e feriti, muoiono israeliani e palestinesi. E la protesta violenta dalla Spianata delle Moschee di Gerusalemme si allarga alla periferia, nei campi profughi come nei principali centri della West Bank. I giovani palestinesi – shabab – volto coperto da kefiah e muniti di fionda che caricano con sassi e scagliano con forza ai soldati, alle camionette e alle vetture in transito, nelle arterie che portano al centro della Città Santa. Volano molotov e l’esercito israeliano risponde con lacrimogeni e proiettili, senza tuttavia, essere in grado di contenere gli scontri non più sporadici ma oramai quotidiani. È la nuova Intifada. Qualcuno a sentire questa parola storce il naso, obbiettando che è presto per definirla così, eppure la realtà e la storia di quei luoghi contesi ci insegna che è il nome forse più appropriato. È Urban Intifada o Intifada 2.0, una “rivolta”, questo il significato della parola in arabo, portata avanti da una nuova generazione, per molti versi catalogabile come di rottura con le precedenti: colpisce in strada ma viaggia su facebook e sui social networks. Una eruzione incontenibile che nasce dalla rabbia e dalla voglia di vendetta, rifiuta la trattativa e non crede nella pace, sono “lupi solitari”. Non pensano a vincere e a far trionfare la causa palestinese, tantomeno accettano di essere politicizzati e strumentalizzati da una parte, lo fanno semplicemente per orgoglio e, purtroppo, cultura. Per molti di loro alla fine ci sarà il carcere. Entreranno nelle prigioni israeliane dove ad attenderli ci sono i “rivoltosi” della prima Intifada e i terroristi della seconda, trent’anni di storia del Medioriente e del conflitto israelopalestinese. Tre decenni di disastri a cui la politica non ha dato risposte e rimedio. Le colpe sono davanti agli occhi di ciascuno di noi, non c’è giustificazione nemmeno per la comunità internazionale che avrebbe dovuto proporsi da cuscinetto se non da pacere. Il giornalista Alain Gresh nel libro Israele, Palestina scrive: « Il patto di Ginevra prova, ed era lo scopo dei suoi promotori, a dimostrare che c’è di volta in volta una soluzione politica possibile ….. L’unica altra opzione ha a che fare con l’incubo, con l’apocalisse tanto spesso annunciata su questa terra tre volte santa, un’apocalisse che non farebbe alcuna differenza tra gli uni e gli altri, tra vincitori e vinti. Un’opinione simile ha espresso in queste ore Hilik Bar, esponente di spicco del partito laburista israeliano e speaker alla Knesset: “La radicalizzazione in atto a Gerusalemme Est non è solo il risultato della propaganda delle organizzazioni islamiche – Hamas e Jihad – deriva anche dalla mancanza di scelte che Israele avrebbe dovuto fare riguardo al futuro di Gerusalemme Est e dei suoi abitanti. La situazione complessiva nella maggior parte dei quartieri arabi della città rispecchia lo status ufficiale dei loro abitanti: residente permanente – meno di un cittadino e più di un lavoratore straniero.” Hilik, segretario generale dell’Avodà, punta il dito contro il governo di Netanyahu: “Lo Stato di Israele deve far appello alla logica. La crescente violenza è un chiaro segno del fallimento della politica di Netanyahu centrata sull’esclusivo uso della forza. L’ordine è importante e la dissuasione non è meno rilevante, ma in un luogo così complesso e sensibile come Gerusalemme sono insufficienti. Non si può aspettare l’introduzione di pene più severe o la costruzione di altre barriere per risolvere tutti i problemi. Non si può trattare solo con i sintomi ed evitare di andare a fondo alla radice del problema.” La proposta di Hilik è “trasferire la responsabilità della fornitura di servizi pubblici nei quartieri arabi”, migliorando la qualità della vita e rendere sostenibile, adeguato il livello dei servizi. Un percorso, quello proposto da Bar, che trova vari ostacoli, sia da parte dell’attuale governo che della controparte palestinese. È infatti chiaro che il collasso del processo di dialogo implica la fine dello status a cui “eravamo abituati”. La direzione è oscura, porterà quasi sicuramente ad un punto di rottura con il passato: oggi una nuova rivolta popolare palestinese, domani forse le dimissioni di Abu Mazen o lo smantellamento dell’Autorità Nazionale palestinese per giungere, un giorno non troppo lontano, alla cancellazione degli accordi di Oslo.