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BIDEN IN TOUR

Il viaggio in Europa del presidente Joe Biden segna il ritorno prepotente degli USA sullo scacchiere internazionale. Tre le tappe significative. Il G7 in Cornovaglia è stato forse il momento più rilassante per il presidente statunitense, tra vecchi amici e le rituali foto di gruppo. Molta allegria e tanta convergenza, almeno nel puntare il dito contro il grande pericolo che incombe: “il rafforzamento militare della Cina, la sua crescente influenza e il suo comportamento coercitivo pongono sfide alla nostra sicurezza”.
Il problema dell’impero del Dragone è stato posto senza sotterfugi al centro della discussione tra i capi di stato. In conclusione si è tracciata una marcata linea rossa per Pechino. Poi la risposta a questo nuovo confronto Biden l’ha delineata al summit NATO di Bruxelles, nel cuore dell’eurocentrismo, strigliando con tatto e diplomazia qualche “discolo” alleato, che ultimamente aveva dato segnali non proprio conformi allineamento del blocco atlantico: pace fatta, almeno così sembra, tra il sultano Erdogan e la Casa Bianca.
Con un patto che prevede il supporto logistico turco al ritiro statunitense dall’Afghanistan. E infine l’incontro a Ginevra con Putin, il faccia a faccia con il nemico numero due e un potenziale futuro partner. A differenza di quanto accadde nel 2018 a Trump, a Helsinki, Biden ha evitato di fare la figura del pupazzo manovrato dallo zar di Mosca. Uscendo indenne da un delicato confronto.
Nel complesso, questi tre eventi concatenati hanno certificato come proprio l’era Trump sia un capitolo chiuso della gestione della geopolitica internazionale. Fine delle pagliacciate, gli USA di Biden hanno rispetto per gli alleati. C’è tuttavia bisogno di ricomporre alleanze e imporre nuove strategie collettive. Il successo della NATO sull’Unione sovietica ha messo in evidenza la capacità dell’organizzazione di adattarsi su larga scala ai mutevoli cambiamenti che si sono susseguiti da Yalta ad oggi.
Fin dall’inizio la NATO è stata molto di più di una semplice alleanza militare, ha rappresentato uno spazio comune con una sua identità politica. E una forza in grado di operare in tutti i continenti. Il Medioriente, resta però il teatro più complesso. Il non intervento in Siria ha spalancato la porta alla Russia nella regione. Lo scontro tra Turchia ed Egitto è motivo di particolare allarme, perché ha assunto un livello che va ben oltre il controllo del suolo libico. Equilibri del mondo arabo che direttamente mettono in causa altri due attori cari a Washington, Arabia Saudita e Qatar.
Mentre, la questione israelo-palestinese è ancora un labirinto inestricabile. Infine, il dilemma Iran, la strada imboccata in questo caso è la riapertura delle trattative. L’esito, scontato nel risultato, delle elezioni presidenziali, pur segnando la vittoria dell’ultraconservatore Raisi, lascia un filo di speranza al processo di dialogo con gli Stati Uniti per il rilancio dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, che ha il sostegno della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Un dossier caldo sul tavolo di Biden.

VIGILIA DI GUERRA PERSICA

La morte di Qassem Soleimani infuoca il Golfo e tutto il Medioriente. L’assassinio a Baghdad, autorizzato dal presidente Trump, del generale pasdaran è l’alba di un conflitto aperto tra gli Usa e l’Iran. È presto per parlare di operazioni convenzionali o campagna di terra, tuttavia, sono queste le probabili evoluzioni di questa escalation senza precedenti tra i due Stati. Con il rischio del coinvolgimento di altri attori. In Israele, che non ha mai nascosto di avere tra i suoi piani l’eliminazione del capo della Brigata Gerusalemme, è scattata l’allerta sicurezza. Ora si guarda con attenzione e apprensione ai vicini teatri dove Soleimani ha ramificato una rete di guerriglieri e fanatici terroristi: Libano, Siria e Gaza. Opposto il caso della Turchia, c’è la quasi certezza della neutralità del sultano Erdogan, l’affidabilità della base logistica statunitense sul Bosforo è alla prova. Ankara si troverà definitivamente a scegliere se confermare il patto con la Nato o l’asse con Mosca e Teheran.
Soleimani è stato una figura chiave dell’espansione iraniana in Medioriente. L’influente ufficiale per anni ha lavorato nell’ombra organizzando milizie paramilitari e appoggiando azioni terroristiche nella regione. Figlio di poveri contadini, la sua ascesa al vertice delle guardie rivoluzionarie è voluta, e “benedetta”, personalmente dall’ayatollah Khomeyni. Ha rivestito un ruolo strategico nella repressione delle proteste interne e nel consolidamento della dittatura. Riservato, parlava poco e quando lo faceva aveva una voce tenue, ha rilasciato pochissime interviste ma la sua fama nel Paese era diffusa, godeva di grande popolarità, elevato ad una sorta di eroe nazionale. Una primula, scampato a diversi attentati, più volte dato per morto e poi “miracolosamente” ricomparso. Grazie ai suoi servigi diplomatici e alle mosse militari, l’Iran ha realizzato una “continuità” territoriale che sbocca nel Mediterraneo: un cordone di alleanze segnate da una lunga scia di sangue. Soleimani è l’artefice di questo piano geopolitico. Non è stato solo la lunga mano del regime iraniano all’estero, è l’architetto dell’attuale potenza bellica. Avversario dell’Arabia Saudita. Protettore nella Damasco di Assad, ha coperto e partecipato alle brutali violenze della guerra civile. Amico fraterno a Beirut di Nasrallah, offre armi e addestramento alle milizie sciite di Hezbollah. Ha ripetutamente “sollecitato” Israele sulle alture del Golan e condotto vittoriosamente la crociata contro l’Isis lungo l’Eufrate. Molto probabilmente aveva ordinato, sicuramente sostenuto, il recente assedio dell’ambasciata americana a Baghdad da parte di manifestanti sciiti. Provocando la fatale reazione della Casa Bianca. Con la morte di questa controversa personalità Teheran perde un brillante ed efficiente generale, il Medioriente invece vede uscire di scena un orchestratore astuto e pericoloso. Per taluni è un martire, per altri un ingiustificabile criminale assassino. La vendetta in suo nome è l’ultimo capitolo della sua storia, e purtroppo ce ne ricorderemo a lungo.

Nel Golfo è guerra tra tv

Il Golfo è in una spirale senza precedenti. La rottura delle relazioni tra gli Stati, che si è aggrovigliata su se stessa, non permette, almeno per il momento, che qualcuno faccia il fatidico passo indietro. L’ultimatum “inviato” al Qatar dal blocco composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto, non è negoziabile. Questa è la linea che gli ambasciatori sauditi hanno espresso alle cancellerie di mezzo mondo, allarmando ulteriormente la Comunità Internazionale. La conditio sine qua non per “raffreddare” l’escalation e ristabilire la situazione delle relazioni preesistenti è scritta in calce nelle 13 richieste che Doha deve soddisfare, tra le quali: la chiusura dell’emittente televisivo Al-Jazerra e l’espulsione di personaggi “scomodi”, la riduzione dei rapporti con l’Iran e la “scomunica” dei Fratelli Musulmani. Il limite di tempo imposto per provvedere all’ingiunzione è stretto. Allo scadere il piccolo Stato del Golfo dovrà aspettarsi altre rappresaglie a catena, a partire dalla probabile espulsione del Qatar dal Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), opzione sollevata da Riyad. Ovviamente da parte qatariota le richieste dei vicini sono ritenute inaccettabili: “un atto illegale finalizzato a limitare la sovranità, nazionale ed estera, del Qatar”. 

La disputa del Golfo non è solo “una questione familiare” come qualcuno a Washington vuole far credere. In gioco c’è: la supremazia culturale e politica sul mondo arabo, il controllo del Medioriente negli anni a venire. Un conflitto, in tutto e per tutto, che lascerà sul campo di battaglia un vincente e un perdente. Vuoi che sia il blocco composto dai sauditi, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto o vuoi quello ancora in fase embrionale, almeno sulla carta, che ipoteticamente potrebbe coagulare Qatar, Turchia e Iran. L’ipotesi di uno scontro tra sunniti e sciiti, maggioranza e minoranza dell’islam, passa quindi ad un livello più allargato e trasversale, globale. Una situazione dove, ancora una volta nella storia sfortunata del Medioriente, è la gente a rischiare di pagare le dirette conseguenze. La mossa di isolare commercialmente il Qatar non ha avuto l’effetto sperato e dopo lo shock iniziale, con l’assalto ai supermercati per accaparrarsi generi alimentari di prima necessità, nella piccola penisola araba è tornata una parvenza di tranquillità. E sugli scaffali sono comparsi tonnellate di prodotti turchi e iraniani. 

Mentre il caso Al Jezeera montava diventando un fragoroso classico esempio di casus belli. La “BBC di Doha” era da tempo nel mirino di molti Stati arabi che ne vietano la trasmissione. Accusandola di essere il megafono del moderno jihadismo, fiancheggiatori del terrorismo, quinta colonna dell’Is. La notizia che nella lista nera del CCG ci fosse Al Jazeera e che si imponesse la sua immediata chiusura ha fatto insorgere le associazioni per i diritti alla libertà di stampa: “una pretesa mostruosa”. Silenziare, censurare e sopprimere un organo di stampa è un grave atto ai diritti dell’uomo, anche in una regione dove la parola diritto non ha radici. Al Jazeera ha da poco festeggiato i vent’anni di attività con qualche problema, oltre alle “serrande” srotolate in alcuni Paesi con giornalisti incarcerati o espulsi, il colosso ha anche registrato un notevole calo negli ascolti. Al Jazeera trasmette nel globo in inglese e in arabo. Nella versione araba, con un taglio editoriale molto diverso da quello in onda sul canale in lingua inglese, trovano spazio protagonisti alquanto discutibili. Predicatori di scuola e appartenenza fondamentalista. Figure che non hanno mancato di strumentalizzare le apparizioni in video, criticando l’Occidente ed esaltando il martirio jihadista. 

La libertà, compresa quella della stampa, non è gratis. Nella guerra degli ascolti dietro ad Al Jazeera ci sono le più influenti famiglie qatariote e gli avversari di Al Arabiya sono sovvenzionati dai ricchi sauditi. Spegnere una televisione, comunque voce plurale, non è combattere il terrorismo. In democrazia basterebbe cambiare canale.

 

 

THE DONALD MEET FRANCESCO

A Roma il chiomato presidente non trova lo sfarzo abbagliante, le tende d’orate e i fiumi di petroldollari degli sceicchi, non cammina nella storia lungo la stretta via Dolorosa, tra le colonne del Santo Sepolcro o nelle stanze buie e dolorose dello Yad Vashem, avanza nei corridoi affrescati delle stanze pontificie alla volta di un incontro pesante. Prima di entrare bussa. Attende e poi stende la mano al Santo Padre. Insieme l’archetipo politico del populismo, rozzo e impulsivo, e il Vescovo di Roma, la guida spirituale illuminata, riflessiva e inclusiva. Gli opposti, l’uomo dei muri e quello dei ponti, in un faccia a faccia apparentemente disteso, “cordiale”. Un colloquio in forma privata, a porte chiuse.

L’udienza papale è l’ultima fatica della tournée di Donald Trump nel simbolismo delle fedi monoteistiche, l’unica dove non ha ricevuto adulazione e applausi, la sola dove gli affari fanno un passo indietro e il giudizio alla politica è morale. Il profeta dei tweet è stato accolto con gli onori in mezzo Medioriente, interpretando il ruolo, per lui inusuale, dello statista politicamente corretto: parole limate e pesate, rinnegando gli slogan della campagna elettorale e presentandosi come il condottiero della pace. Nei suoi interventi ha potuto sbeffeggiare la politica obamiana e ha ripetutamente invocato la “santa” alleanza contro il diavolo iraniano. Ricordando vagamente la lezione del suo predecessore Bush junior alla vigilia della crociata contro l’Iraq di Saddam Hussein. Ha stretto la mano a sunniti ed ebrei, dittatori e aspiranti rais. La “recitazione” è tuttavia apparsa in molte sue parti ricca di retorica e poco convincente, l’uomo più potente al mondo risulta non sempre credibile.

In Terra Santa, all’ombra dei muri, vecchi e nuovi, di pietra bianca e di cemento armato, di preghiera o di separazione ha rassicurato, con incoerenza, sia il movimento dei coloni israeliani che il presidente palestinese Abu Mazen. Molte affinità con Netanyahu per cambiare, a parole, il corso della storia. Il “miracoloso” piano pacifista del presidente è una road map troppo vaga e lontana dalla realtà dello scenario, smielato lo slogan: “Occasione rara per la pace”. Le idee trumpiane, anche se addolcite da allettanti promesse, non sono manna ma traballanti invenzioni sotto il cielo di Gerusalemme. Una città contesa tra ebraismo, islam e cristianità, con i palestinesi che continuano a pensare di giocare la carta demografica e gli israeliani che premono per la penetrazione fisica. Antipodi di una bussola ormai smarrita.

Ad oggi non c’è nell’aria, o sul tavolo, una soluzione per liberare la Gerusalemme terrena dalla violenza, la fine del conflitto israelopalestinese è rimandata ad altri leader, ad un mondo diverso e più consapevole dell’importanza primaria del bene comune e della necessità del rifiuto del terrorismo. Ci vorranno generazioni e politici di ben altro livello, gli orologi di israeliani e palestinesi scandiscono ore diverse. Da una parte l’insofferenza alimenta il fondamentalismo, dall’altra le paure coltivano il nazionalismo.

Trump ha provato a vendere un fantasioso sogno a cui non crede più nessuno, primi fra tutti i suoi diretti interlocutori. Avrebbe voluto una trattativa in discesa, convinto che il suo appeal sarebbe stato sufficiente per dissipare le difficoltà nel siglare “l’accordo definitivo”. Alla fine si è accontentato di prospettare una fragile tregua, tutta da costruire. Ha perso un’occasione, ha fatto un buco nell’acqua. Nel complesso comunque il viaggio di Trump è stato denso ed è trascorso senza affanni, i patemi d’animo li hanno invece avuti i suoi più stretti collaboratori, che hanno marcato stretto il loro presidente per evitare qualche stravaganza fuori luogo. Anche nelle stanze del Palazzo Apostolico il rituale del protocollo è stato seguito rigidamente. Trump ha mostrato un atteggiamento rispettoso, reverenziale nei confronti di Francesco. Dopo le passate aperte tensioni, per la prima volta, si sono guardati negli occhi. Il Santo Padre dal cuore ispanico e il presidente yankee, il teologo dell’accoglienza e il predicatore populista. Un convinto ambientalista e uno scettico ecologista.

Per quanto sappiamo, non ci sono indiscrezioni ma un succinto comunicato della sala stampa che conferma buone relazioni bilaterali, papa Bergoglio e Trump hanno avuto uno scambio di vedute da orizzonti diversi, Santa Marta e la Casa Bianca non si sono avvicinate ma nemmeno allontanate. Sembrerebbe un miracolo, ma attendiamo il prossimo tweet presidenziale per confermarlo.

PALESTINA, ISRAELE E TRUMP

Il 28 marzo del 1988 in piena Prima Intifada palestinese, uno dei massimi esponenti della nascente Hamas, Mahmoud A-Zahhar, venne “invitato” ad incontrare l’allora ministro degli esteri israeliano Shimon Peres, il quale era intenzionato a risolvere rapidamente la questione della protesta palestinese. Il cofondatore dell’organizzazione terroristica e un padre della patria, un fondamentalista islamico e un sionista, due nemici sedevano allo stesso tavolo di scambio, confrontandosi per la prima volta. Il palestinese offriva la pace in cambio di: fine dell’occupazione, ritiro da Gaza e West Bank, libere elezioni. Peres rispose in modo secco accettando l’azzardo: ci possiamo ritirare da Gaza subito, ci servono sei mesi per lasciare la West Bank e su Gerusalemme rinviamo la questione. A quel punto A-Zahhar avrebbe rifiutato l’ordine cronologico dei punti incalzando con “Jerusalem should be first”: Gerusalemme al primo posto. E ovviamente quel timido tentativo d’incontro, la prima “apertura” islamista ad Israele o viceversa fallì. Dopo poco Peres e Yitzhak Rabin apriranno un credito ad Arafat, si costruirono gli accordi di Oslo. Poi arrivò la seconda Intifada e tornò la guerra.

Tre decenni dopo quell’incontro “obbligato” il capo politico dell’organizzazione terroristica palestinese Khaled Mesh’al (tra i pochi ad essere sfuggito alla caccia del Mossad) annuncia, con enfasi e ampia copertura mediatica, una nuova storica pagina per il movimento prima di passare il testimone a Ismail Haniye. Dichiarando che Hamas non è il braccio operativo palestinese dei Fratelli musulmani, smarcandosi clamorosamente dalla casa madre e stendendo il tappeto al faraone al-Sisi. Annuncia inoltre che la Carta fondante del 1988 è superata: il Mithaq non è il Corano. E che i confini dello stato palestinese sono quelli del ’67, prima della guerra dei sei giorni. Una smentita parziale, una policy volutamente ambigua nei rapporti con Israele e l’Occidente, ma anche un messaggio agli USA su eventuali segrete trattative da compiere nei prossimi mesi all’ombra delle piramidi. Nel documento “programmatico” si spiega che la lotta continua, che non è una guerra di religione tra ebraismo e islam. Manca tuttavia il “tassello” del riconoscimento di Israele. “Fumo negli occhi” tagliano corto da Gerusalemme. Botta e risposta nel siparietto mediorientale che ha anticipato, e in parte condizionato, il vertice della Casa Bianca, di qualche giorno fa tra Trump e Abu Mazen: tra un presidente imprevedibile, talvolta impresentabile e ed un rais logorato, criticato e delegittimato. Un faccia a faccia poco proficuo e dai contorni vaghi. L’inquilino presbiteriano della Casa Bianca è “sentimentalmente” vicino a Netanyahu e appare totalmente indifferente al fatto che dall’eterno conflitto israelopalestinese emerga uno stato binazionale o due stati. Il progetto a breve termine di Trump è scattare la foto con i due inossidabili leader che si danno la mano, in un gesto di apparente distensione. Strette di mano a parte l’imminente “pellegrinaggio” del neo presidente in Terra Santa potrebbe a catena avere effetti sulla maggioranza di governo di Netanyahu, risicata numericamente e condizionata da pulsioni nazionaliste. Mentre il reggente della Muqata ha uno spazio d’azione ridotto persino all’interno di Fatah (stretto tra le fazioni dell’esiliato Dahalan e quella di Marwan Barghouti, ancora chiuso, dopo le plurime condanne all’ergastolo, in un carcere israeliano). Abu Mazen frettolosamente ha firmato una cambiale in bianco a Trump, per limitare l’azzardo, in queste ore, ha cercato, e ottenuto, garanzia dallo zar Putin. Intanto, da una parte del muro e dall’altra, c’è già chi, in attesa di un suo tweet, elogia il chiomato magnate come un nuovo messia.

Un’altra Pasqua senza pace

Alla vigilia della ricorrenza della Pasqua le comunità cristiane del Medioriente affrontano uno dei periodi più difficili e drammatici, tra speranza è sofferenza, della loro storia. Vittime del terrorismo e del fanatismo in migliaia sono in fuga da quelle terre da mesi. È una fuga per la sopravvivenza. È una civiltà millenaria in balia dell’orrore dell’ISIS. Un secolo fa la percentuale dei cristiani mediorientali era del 14,8% rispetto alla popolazione oggi siamo al 4,7%. Sono oltre 100 mila gli sfollati da Mosul e dalla Piana di Ninive che si sono spostati verso Erbil nel Kurdistan. Oltre 300mila i battezzati che hanno dovuto abbandonare le loro case e fuggire dalla Siria solo negli ultimi 4 anni di guerra in Iraq. Questi numeri qualche giorno fa insieme al grido della minoranza religiosa araba sono entrati al Palazzo di Vetro di New York. A parlare è stato il Patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphael I Sako: “la cosiddetta Primavera araba ha avuto un effetto negativo per noi. Se solo avessimo potuto lavorare in armonia con il mosaico di religioni e gruppi etnici che compongono la nostra regione, avremmo visto svilupparsi una forza in grado di guidare la regione verso la pace, la stabilità e il progresso.” La voce dell’autorità religiosa è risuonata impietosa nei confronti della politica, contro l’impunità concessa sino ad oggi alle barbarie del fondamentalismo ha chiesto: “pieno sostegno al governo centrale e al governo regionale curdo nella liberazione di tutte le città irachene.” Un intervento accorato, una richiesta d’aiuto per fermare un crimine contro l’umanità che è sotto gli occhi di tutti: “La pace e la stabilità non possono essere raggiunte solo per mezzo di interventi militari; da soli, infatti, essi non possono sradicare questo modo totalizzante di pensare.” Ed infine il Patriarca Soki ha indicato il cammino per un intervento internazionale che tarda a prendere forma e forza: “Approvare una legge che punisca nazioni e singoli individui che sostengono gruppi terroristi a livello finanziario, intellettuale o con le armi; renderli perseguibili e considerare i loro gesti come crimini contro la pace sociale.” Se le richieste della guida spirituale caldea sono state realmente ascoltate dalla platea dei plenipotenziari mondiali lo sapremo nei prossimi mesi. Intanto la Lega Araba si è riunita a Sharm El Sheikh, confermando la linea dura intrapresa nelle ultime settimane da Egitto e Arabia Saudita. L’altro dato rilevante emerso dal summit è l’istituzione di una forza militare unita dei paesi arabi che intervenga in caso di necessità, non accadeva dal 1967, dalla guerra dei Sei Giorni, il nemico allora era Israele. Dalla famosa località turistica del Mar Rosso è stato il presidente egiziano Al Sisi a trarre le conclusioni del vertice: “Preso atto della grande responsabilità che le nazioni arabe hanno di fronte ai nuovi cambiamenti i leader arabi hanno congiuntamente deciso di formalizzare un esercito arabo unito.” 40 mila soldati da dispiegare nelle aree di crisi, ma non in tutte. “L’operazione ‘Decisive Storm’ continuerà finché lo Yemen non recupererà la propria stabilità e sicurezza.” Mentre per quanto riguarda la crisi in Libia Al Sisi ha lanciato un appello alla comunità internazionale: “Chiediamo di aiutare il governo legittimo a difendersi e a lottare contro il terrorismo.” Diplomazia e politica si intrecciano in questi giorni di vigilia di Pasqua. A Gerusalemme domenica scorsa per la domenica delle palme una lunga processione di fedeli ha attraversato la città vecchia per arrivare al giardino del Getsemani. Imponenti le misure di sicurezza dispiegate per una celebrazione gioiosa e festosa. Poche ore prima, nel sud della Palestina, poco lontano dalla città dei patriarchi (Hebron), sulle colline di un piccolo villaggio palestinese coloni israeliani sradicavano decine di piante d’ulivo. Un altra Pasqua senza passi avanti nella soluzione del conflitto in Medioriente, ma la pace come ci ha detto Monsignor Luciano Giovanetti, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per la pace in  Medioriente deve restare l’obiettivo di tutti: “La domenica delle palme porta con se il mistero del Signore: gloria, pace e misericordia. Il Signore entra in Gerusalemme per celebrare la sua passione, ecco questo gesto non  dobbiamo dimenticarlo mai quando volgiamo gli occhi a queste terre in eterno conflitto. Anzi questo ci deve spingere a non perdere la speranza perché molto è nelle nostre mani e nelle mani dei governi, che devono impegnarsi come costruttori di pace nella quotidianità della vita”.

Palestina: un conflitto dai molteplici approcci

La questione palestinese tra ginepraio e labirinto. Il conflitto che da anni incombe in Terra Santa si presta, per la sua natura, a molteplici approcci. Non aiuta il fatto di essere attenti spettatori esterni. Districarsi in un dedalo intricato e complesso, lastricato di odio e sangue, è pericolosamente sdrucciolevole per la politica e per il lettore. E così l’Italia ha deciso di andare avanti con proposte contraddittorie e ambivalenti, senza pestare troppo i piedi. È stato chiaro la scorsa settimana quando il Parlamento ha approvato due risoluzioni sul riconoscimento dello Stato palestinese discordanti. Con una mozione è stato votato il riconoscimento della Palestina, con un altra è stato posticipato a tempi migliori. Della serie vogliamo in Terra Santa due popoli due stati ma non oggi, forse domani ma solo quando ci sarà, se ci sarà, la pace. A dimostrazione che la politica italiana nei confronti del conflitto israelopalestinese naviga nella più totale confusione, in queste ultime settimane, ci sono stati molti esempi oltre lo “storico” voto di Montecitorio. La risoluzione sullo stato della Palestina è stato un passaggio votato a larga maggioranza. 300 i si alla Camera dei Deputati per una decisione non vincolante, puramente simbolica e con il contorno del pasticcio. Un pasticcio di diplomazia internazionale e politica interna. Dove a rischiare il danno peggiore era il governo che intenzionato a non dare un’indicazione chiara ha dovuto inventarsi una via d’uscita equilibrista: il riconoscimento ma anche no. Dovevamo accontentare tutti, palestinesi, israeliani, Parlamento Europeo, PD, Alfano e ci siamo “miracolosamente” riusciti. È bastato lasciare il bicchiere a metà, non troppo pieno e nemmeno mezzo vuoto. Insomma, una linea politica attendista che non disturbasse la sensibilità di nessuno. In generale ci pare che il problema delle due risoluzioni non è se conti più la prima o la seconda, oppure se la seconda smentisca la prima. Il doppio voto del Parlamento ha di fatto lasciato campo libero al ministro Gentiloni nel definire la prossima agenda per il Medioriente, indirizzo di cui oggi è arduo immaginare minimamente i risvolti e le complicanze. Comunque, i partiti in perfetto stile Ponzio Pilato si sono lavati le mani. E la coscienza. Vale per quelli di governo come per quelli dell’opposizione. Nemesi storica per la Lega Nord, che un tempo, nemmeno troppo lontano, rivendicava il diritto alle autonomie dei popoli dalla Padania alla Palestina, entrambe messe celermente nel dimenticatoio dalla nuova Lega di Salvini diventata paladina d’Israele e dell’Italia. L’ambiguità vale per il Movimento 5 stelle che a Livorno, città tradizionalmente legata alle proprie radici ebraiche, dallo spirito laico e aperto, ha deciso di gemellarsi con Gaza dove governa e “regna” Hamas. Al contrario in Forza Italia prevale ancora il pensiero di Silvio Berlusconi, grande amico di Netanyahu, e unico leader europeo che in visita ufficiale in quei luoghi martoriati non si accorse del muro di separazione, venendo, a suo dire, magicamente teletrasportato a Ramallah e Betlemme. Anche nel Partito Democratico è palesata una certa discontinuità d’intenti, con le anime provenienti dalla tradizione dei partiti della sinistra, per un pronto riconoscimento palestinese e quelle anime invece più di tradizione centrista, concilianti con NCD e soprattutto con le richieste del governo di Gerusalemme. In conclusione la sfera politica italiana in materia di conflitto in Medioriente è un grande labirinto e un ginepraio allo stesso tempo. Segno che in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo è irrealistico trovare l’uscita senza farsi del male.

Free Kobane, oltre il fumetto

Kobane è stata liberata, l’Isis è stato respinto. Era una notizia attesa. E auspicata. È una di quelle notizie che andrebbero festeggiate stappando una bottiglia, la migliore della vostra cantina. Questa vittoria per onore della cronaca era stata annunciata su Internazionale in un fumetto, l’autore Zerocalcare. Il titolo del fumetto è Kobane Calling, una storia raccontata in presa diretta con disegni in bianco e nero che avevano premunito il finale positivo all’assedio alla città curda in Siria. Per chi ama il fumetto il parallelismo con il maestro Joe Sacco, che ha segnato e disegnato il mondo e le sue atrocità, è stato immediato. Fumetti politici e politicizzati, di denuncia quelli di Sacco. Zerocalcare invece deve la sua fama a tutt’altro approccio, è autore della striscia “demenziale” Neet Kidz, ma con questo fumetto Zerocalcare entra di diritto nella “scuola” degli inviati di guerra, in questo caso senza microfono e telecamera. Tuttavia la differenza di Zerocalcare con Sacco non è solo nel tratteggio ma nello schema generazionale, nella forma della ricerca e nella filosofia: “la realizzazione di questo fumetto ha richiesto alcuni esercizi di sintesi che ne alterano la fedeltà alla realtà, lo dico per sincerità”. È quanto tiene a sottolineare lo stesso Zerocalcare. In Kobane Calling non è rappresentata violenza, non c’è sangue, non è dipinta la carneficina del conflitto, ma è raccontata la lezione della guerra con i suoi suoni e parole. Intense quelle dei giovani, anziani, uomini e donne curdi: “sono quelli dell’Isis a non essere musulmani.” Zerocalcare è andato in guerra per poi narrare la sua guerra, quella di una persona estranea a quel contesto folle, all’orrore dell’odio. L’artista lentamente, pagina dopo pagina, ha preso una posizione: “Da qui non si passerà”. Nella sua guerra Zerocalcare ha saputo rappresentare le assurdità delle geometrie in gioco, dove non c’è pallone che rimbalza da una parte all’altra ma il fuoco delle armi: “a cucchiaio da sinistra a destra è Isis. Da destra a sinistra siamo noi. Basso-basso raso terra, è turchi.” In una guerra globale, talmente vicina che la distanza dalla pace alla guerra “saranno tre fermate di metro tipo Rebibbia – Santa Maria del Soccorso”. I disegni di Zerocalcare hanno lo splendore di un manifesto contro il male, un’opera che smuove la nostra coscienza. Dove le paure di Zerocalcare non possono essere eliminate ma solo affrontate e sconfitte.