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LA PARTITA DEL MEDIORIENTE DI BIDEN

Il segretario di stato statunitense Antony Blinken in tre delicati giorni ha fatto la sponda tra il Cairo, Gerusalemme e Ramallah. Il tessitore della diplomazia della Casa Bianca si è fatto latore dell’invito alla calma di Biden difronte all’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi. Missione se non impossibile altamente improbabile per Blinken. Infatti, a tenere banco nel faccia a faccia tra Blinken e il premier Netanyahu non è stata la questione israelo-palestinese, bensì altre criticità globali che si intrecciano. L’Iran arma la Russia nella campagna di invasione dell’Ucraina. E Mosca fa orecchie da mercante sulla brutale repressione al movimento di protesta da parte del regime sciita. Alla luce dello scenario attuale la Casa Bianca ritiene che lo spazio diplomatico per un accordo sul nucleare con Teheran sia da considerarsi morto e sepolto. Il messaggero di Biden ha confermato che gli USA concordano con Israele sull’importanza di prevenire un Iran militarmente nuclearizzato. Era quello che in fondo Bibi voleva sentirsi dire. E passi che Blinken gli abbia tirato le orecchie sulla riforma giudiziaria che l’esecutivo vorrebbe introdurre. Decisione che ha portato in piazza migliaia di israeliani in difesa del ruolo della Corte Suprema e della democrazia.

In sintesi, la politica estera di Biden in Medioriente è un mezzo buco nell’acqua, almeno ad oggi. Buoni propositi, tante parole ma pochi fatti. Perfettamente in linea con quanto ereditato dai suoi predecessori, nulla di più e niente di meno. Eppure, da uno statista di lungo corso e attento conoscitore della regione ci si sarebbe aspettato uno sforzo maggiore. Invece, l’approccio di fondo è stato quello di evitare di commettere imprudenze e farsi impantanare in qualche guerra logorante. Privilegiando, quando possibile, e sostenendo, a spada tratta, gli affari: nel rispetto della consolidata tradizione della centralità degli stati del Golfo. Nel caso dell’Egitto, nell’arco del mandato, la Casa Bianca ha rafforzato le relazioni, anche personali, tra i due presidenti. Al contrario di quanto si pensava inizialmente, quando lo stesso Biden, sia in campagna elettorale che nei primi mesi in carica, aveva dimostrato forti attriti nei confronti di Abdel Fattah el-Sisi. Alla fine, tuttavia, ha prevalso la ragione che l’Egitto resta un partner geograficamente strategico: il canale di Suez è un punto nodale per spostare velocemente la flotta dal teatro del Mediterraneo a quello, sempre più caldo, del mare della Cina e il lavoro dei servizi segreti egiziani nella Striscia di Gaza è un utile strumento di mediazione. Elementi talmente indispensabili che le divergenze tra il Cairo e Washington sui diritti umani e democrazia sono state riposte nell’armadio, insieme ad altri scheletri. Tono conciliante, almeno a parole, persino con Netanyahu. Il quale dopo la formazione del governo di estrema destra è stato messo sotto osservazione da Biden. Seppure i due si conoscono da tempo, e siano amici, il presidente americano sa benissimo di non potersi fidare. Netanyahu è un principe di machiavellismo, difficile da contenere. Spregiudicato al punto da essersi contornato da un miscuglio di nazionalisti, ortodossi religiosi, razzisti e neofascisti, che rendono la sua nuova ricetta di governo imbarazzante e pericolosa. Comunque, se dovesse sopraggiungere la burrasca è chiaro che la Casa Bianca non arretrerà di un metro dal processo di “normalizzazione” degli stati arabi verso Israele, introdotto da Trump con gli Accordi di Abramo. Peccato, come abbiamo scritto altre volte, che in quello schema logico manchino ancora dei tasselli, non ultimo quello della presenza dei palestinesi. Ai quali gli USA hanno riaperto i rubinetti dei fondi, dopo l’interruzione degli aiuti della precedente amministrazione. Che considerò insolente il rifiuto di Abu Mazen a sedersi al tavolo delle trattative, e per questo l’ha punito in modo esemplare. Ora i rapporti sono decisamente migliorati, ma sussiste qualche latente frizione. Biden, ad esempio, non ha gradito il silenzio della Muqata sul recente attentato alla sinagoga di Neve Yaakov, quartiere della periferia di Gerusalemme. Condanna che Abu Mazen non avrebbe pronunciato trincerandosi dietro il “suicidio politico” per l’accresciuta rabbia palestinese dopo i fatti di Jenin. L’erede di Arafat avrebbe però confermato che l’Autorità palestinese è pronta a riprendere il coordinamento sulla sicurezza con Israele appena gli animi si saranno placati. Pare lampante che la debolezza di Abu Mazen nel mantenere ordine è un altro punto dolente e serio della questione.

Mentre, sul fronte opposto il governo di Netanyahu in risposta all’ondata terroristica che ha sconvolto il Paese ha approvato una serie di misure punitive, dal dubbio effetto. In un sondaggio condotto da iPanel lo scorso novembre la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non credere che Netanyahu sia in grado di combattere il terrorismo. Pessimisti? No, è semplicemente la realtà.

IL COMANDANTE VI AUGURA BUON VIAGGIO

A fine agosto, a bordo del boing El Al 971, tra i passeggeri del volo inaugurale decollato da Tel Aviv con destinazione Abu Dhabi, oltre al genero di Trump Jared Kushner – “plenipotenziario” della Casa Bianca per la pace tra palestinesi ed israeliani – ha viaggiato in missione la prima delegazione israeliana, ricevuta con gli onori negli Emirati Arabi Uniti. Con questo evento i due stati del Medioriente hanno aperto un canale di comunicazione bilaterale. Il riconoscimento di Israele da parte delle monarchie del Golfo è parte integrante di un disegno geopolitico, sponsorizzato da Trump, che crea nuove alleanze rompendo schemi precostituiti: passa di fatto in secondo piano la questione dello stato palestinese quale pregiudiziale alle libere relazioni nella regione. L’intesa di “normalizzazione” araba verso Israele è multiforme nella sostanza, abbracciando la cooperazione in diversi settori commerciali, strategici: energetico, militare, scientifico e sanitario. Contestano il trattato la Turchia di Erdogan impegnata a far risorgere l’impero ottomano e a difendere le rivendicazioni sulla “liberazione” di Gerusalemme e dei suoi luoghi simbolo, a partire dalla moschea di al-Aqsa. Inserita nel complesso della Spianata delle moschee, affidato in custodia alla casata hascemita giordana, che gestisce attraverso una fondazione il terzo sito religioso per importanza dell’islam, dopo Medina e la Mecca. Da Amman, dove si sono alzate voci di tradimento nei confronti degli emiri, sono mesi che si invita a fare quadrato intorno ad Abu Mazen, presidente della Palestina da illo tempore. La Muqata di Ramallah è un fortino oramai assediato, deluso da Trump. L’ultimo palazzo del potere dell’élite palestinese, che subisce, a malincuore, il dominio di Hamas nella Striscia di Gaza. E vede riacutizzarsi la faida interna al partito Fatah per l’eredità di Arafat. L’ex rais Mohammed Dahlan è intenzionato ad appropriarsi della leadership del movimento, grazie all’appoggio di Washington e a questo punto dei petroldollari con cui potrebbe essere ricoperto per la sua posizione favorevole alla negoziazione israeliana. Ad intralciare l’ascesa di questo discusso personaggio è ancora Abu Mazen: isolato e logorato ma determinato a non cedere. Mantengono invece una posizione distaccata sull’accordo Israele-EAU, seppur da osservatori privilegiati, sauditi e qatarini. Infine, l’ira dell’Iran che vede nel patto sunnita-sionista un contrappeso alla rete di espansione sciita. Beneficia del nuovo corso diplomatico il faraone Al Sisi, gli egiziani sono precursori del processo di pace e attualmente mediatori nelle controversie tra Gaza e Israele, tra Hamas e Netanyahu.

Nella dichiarazione d’indipendenza israeliana promulgata dai padri fondatori è scritto: “lo Stato d’Israele è pronto a fare la sua parte in uno sforzo comune per il progresso dell’intero Medio Oriente”. Il progresso per la costruzione di una diga all’imperialismo di Erdogan e ridimensionare le minacce dell’Ayatollah.

MAZEN E OLMERT RIPROPONGONO LA LORO VIA PER LA PACE

Al tavolo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU il presidente palestinese Abu Mazen, seppur con toni concilianti, ha rifiutato la mappa disegnata da Donald Trump per il processo di pace mediorientale: “È una gruviera. Legalizza ciò che è illegale e ignora molte risoluzioni delle Nazioni Unite”. Inoltre ha tenuto a precisare che il presidente statunitense “è mal consigliato”, ma nello stesso tempo il leader arabo ha però lasciato aperto uno spiraglio rassicurante: “La pace tra israeliani e palestinesi è ancora possibile”. Gelido il commento dell’ambasciatore israeliano Danny Danon: “Non ci saranno progressi finché rimarrà presidente”. Alla fine della inusuale riunione non è stata presentata nessuna risoluzione anti-accordo. Tuttavia, anche se dovesse essere proposta, l’iter al Consiglio di Sicurezza è viziato dallo scontato veto degli USA. Quanto potrebbe delinearsi è un successivo passaggio, non vincolante, all’Assemblea delle Nazioni Unite. In quel caso la credibilità del progetto di Trump in Medioriente verrebbe giudicata dai rappresentanti di 193 stati.
L’altro evento newyorchese della campagna di ostruzionismo alla visione di pace del presidente degli Stati Uniti è stata la conferenza stampa che il successore di Arafat ha tenuto in compagnia dell’ex premier israeliano Ehud Olmert. Abu Mazen e Olmert hanno pubblicamente difeso, ed elogiato, quanto raggiunto insieme: la convergenza di massima ottenuta alla conferenza di Annapolis nel 2007 e il riconoscimento di una soluzione a due Stati. A tagliare le ali delle colombe in quella stagione, archiviata da tempo, furono tre episodi: l’operazione “Piombo fuso” a Gaza l’anno seguente; le accuse di corruzione, per aver accettato tangenti quando era sindaco di Gerusalemme, all’allora primo ministro israeliano e la “rinascita” politica di Benjamin Netanyahu. Oggi Olmert, che ha scontato la pena detentiva (un anno e mezzo di carcere), si dedica alla promozione della cannabis per uso terapeutico, in qualità di consulente di una nota azienda farmaceutica israeliana. Si è ritirato dalla politica attiva dopo una lunga militanza nel Likud e l’approdo a Kadima con Sharon e Peres, esperienza antesignana di un’area centrista per certi versi affine al movimento Kahol Lavan guidato attualmente dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz. Per il quale Olmert non ha mai nascosto le proprie simpatie. In molti ritengono che è stata l’acredine per Netanyahu, fervente sostenitore della dottrina di Trump, a portarlo al fianco di Abu Mazen in questa battaglia. Altri, che l’ottantenne rais della Muqata, espressione di una classe dirigente logorata e che non riesce a rinnovarsi, con questo gesto abbia voluto dimostrare di essere disponibile a riprendere il dialogo con la controparte, chiedendo un ritorno al passato e alla trattativa diretta. Ma la risposta, in Israele, non può non arrivare prima che dalle urne del 2 marzo esca una nuova maggioranza.

FINE DI UNA “AMICIZIA”

Mentre Trump enfatizza “l’accordo del secolo”, 181 pagine di propositi, progetti e mappe geografiche, per dare una soluzione all’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, questi ultimi replicano di aver ricevuto “uno schiaffo storico”. Due punti di vista completamente opposti. Inconciliabili. Il processo di pace in quella terra martoriata dai conflitti, ancora una volta, imbocca una strada a senso unico. Appunto, nessuna via d’uscita se non quella dell’unilaterale. Eppure, la leadership palestinese di Ramallah con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca aveva dimostrato apertamente un certo ottimismo per il nuovo corso post Obama. Appena insediatosi il neo presidente statunitense aveva ricevuto apprezzamenti dalla Muqata: Abu Mazen si era detto certo che il miliardario newyorchese “avrebbe sbalordito” e rilanciato i negoziati con un interessante approccio. Poco dopo, Jason Greenblatt inviato di Trump per il Medioriente fu ben accolto al suo arrivo nella regione, proverbiale ospitalità palestinese terminata con scambio di offese e rottura dei rapporti. Oggi Greenblatt è dimissionario da quel ruolo diplomatico immane, svolto unicamente in funzione della dottrina del suo capo, tra difficoltà insormontabili, con il crescente divario dal lato palestinese e l’avvicinamento alle posizioni della destra israeliana. A maggio del 2017, Abu Mazen e Trump si incontrano a Washington, il successore di Arafat esprime soddisfazione all’omologo per non aver trasferito l’ambasciata degli USA a Gerusalemme, come aveva promesso in campagna elettorale. Trump commentò che era un atto dovuto per riaprire lo spiraglio di dialogo, e “massimizzare le probabilità” di riuscita della futura soluzione. Secondo alcuni analisti è stata la prima e ultima volta che il presidente a stelle e strisce ha tentato “realmente” la mediazione tra le parti, da una posizione di neutralità, super partes. E allo stesso tempo con quella scelta di campo, che non durerà molto, ha offerto una finestra ai suoi più stretti collaboratori, proprio Greenblatt e il genero Jared Kushner, le due “colombe” che volavano sulla Terra Santa in suo nome.

Quando a dicembre 2017 Donald Trump annuncia al mondo di voler spostare l’ambasciata di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, contrariamente alla posizione della Comunità internazionale che su questa decisione si romperà perdendo lentamente pezzi, in poche ore si consuma la fine delle relazioni con i palestinesi e allo stesso tempo si palesa il futuro fallimento della missione di Kushner. Per l’Autorità Nazionale palestinese il percorso imboccato dall’amministrazione americana non è accettabile. Il piano di pace viene ufficialmente boicottato. Scattano le prime ritorsioni di Trump, i tagli al budget dedicato agli aiuti alla Palestina. Poi finalmente a gennaio 2020 annuncia miliardi per i palestinesi se accetteranno le sue condizioni. Intanto ha scatenato la collera e il rifiuto palestinese di continuare a collaborare. La Lega araba è con loro nella protesa, ma con qualche distinto.

MORTE NELLA STRISCIA PALESTINESE

La Primavera della protesta palestinese è iniziata con un bagno di sangue. Lungo il confine di Gaza avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione dedicata al Giorno della Terra, la prima di una lunga serie, per ricordare i territori confiscati da Israele. La propaganda di Hamas ha prontamente aderito all’evento. Dall’altra parte della frontiera i soldati israeliani ricevevano l’ordine di sparare. Alla fine manifestanti uccisi e feriti. Tutto questo a poco più di un mese dall’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme e nei giorni che precedono la ricorrenza della tragedia palestinese, la Nakba. Il livello di tensione si alza notevolmente. Con un movimento palestinese destinato a crescere nei prossimi giorni, nelle cui file affluisce un fiume di giovani. E che coagula differenti componenti della politica palestinese, da chi professa l’approccio non violento, alle frange di miliziani fondamentalisti. Gaza in queste ore è una pentola a pressione. Una “prigione” che ospita quasi 2milioni di palestinesi, in un fazzoletto densamente popolato dove comanda il regime di Hamas. A partire dagli anni ’90 Israele ha introdotto la limitazione di movimento ai cittadini della Striscia. Ma solo nel 2007 Egitto e Israele mettono i sigilli alle frontiere. Allo stesso tempo, Ramallah entra in collisione con Gaza, la frattura politica tra Fatah e Hamas si incancrenisce e diventa anche geografica.
A Gaza oggi la situazione di criticità è endemica nei servizi, da quelli idrici alla sanità. Peggiorata da scarse forniture di carburante e dalla ripetuta emergenza elettrica. Israele che dal 2017 aveva tagliato l’elettricità, ha ripreso la fornitura. Le spese sono a carico dell’Autorità Nazionale Palestinese, riluttante a coprire i debiti di Hamas. È collasso anche nella gestione dei rifiuti, decine di migliaia di tonnellate di spazzatura lasciata in strada a marcire. A febbraio 12 ospedali pubblici non erano in grado di fornire la diagnostica. Uno stop aggravato dallo sciopero del personale medico per il mancato pagamento degli stipendi arretrati. Gli aiuti internazionali, pur rilevanti, non bastano a migliorare il contesto. La sforbiciata di Trump ai fondi umanitari delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi ha trovato altri canali di finanziamento. Chiudere la borsa è stato l’ultimo affronto pubblico di Trump ad Abu Mazen. Le relazioni tra USA e Palestina sono ormai compromesse dal riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele, avvenuto lo scorso dicembre. Decisione che ha isolato Washington sul piano internazionale, provocando una reazione nel mondo arabo, anche fuori i confini del Medioriente. Trump potrebbe decidere di partecipare personalmente all’inaugurazione della nuova sede diplomatica di Gerusalemme, nel qual caso l’erede di Arafat non avrebbe alternative a rispondere con una dichiarazione di pari portata: se non “guerra” quasi.
La scelta della Casa Bianca ha alimentato contrapposizione, lasciando il cielo della Terra Santa a falchi, pronti a gettare benzina sul fuoco. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, minaccia che: “non cederemo un pezzo di terra di Palestina, né riconosceremo l’entità israeliana”. Proclama bellico che estende a Trump: “Promettiamo di non rinunciare a Gerusalemme ”. Jason Greenblatt, inviato statunitense per le negoziazioni tra Israele e Palestina, ha lanciato pesanti accuse incolpando a sua volta Hamas di “incoraggiare una marcia ostile” e “istigare alla violenza”. Ormai in secondo piano Abu Mazen, relegato in una posizione marginale, compromessa dall’età e dalla salute. Il suo partito Fatah non è al momento in grado di veicolare o controllare la protesta, tantomeno a Gaza. In questa fase l’escalation garantirebbe quindi ad Hamas un maggiore consenso popolare e una posizione di forza. Che potrebbe sfruttare nella scelta del futuro presidente del popolo palestinese. Sul fronte israeliano, qualsiasi conferma che non esiste una controparte con cui dialogare, porta solo acqua al mulino di Netanyahu.

PROVE DI RICONCILIAZIONE PALESTINESE

In Medioriente. Hamas accetta di smantellare il governo di Gaza. Con un comunicato stringato, l’organizzazione terroristica palestinese, che da 10 anni controlla la Striscia di Gaza, annuncia di accogliere le condizioni del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e intraprendere una fase di riconciliazione interna, sotto l’egida dell’Egitto del generale al-Sisi. Aprendo alle elezioni e ad un governo di unità nazionale per il periodo di transizione. Prove di dialogo, in passato sempre fallito, tra le principali fazioni palestinesi, che sono state ad un passo dal far precipitare la Palestina in una guerra civile. Le prossime ore segnano anche la vigilia degli incontri, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, tra Trump, il primo ministro israeliano e il presidente palestinese, per discutere del processo di pace.
Hamas nell’arco di un trentennio ha saputo mantenere una doppia linea d’indirizzo: proseguire nello scontro militare contro Israele e promuovere capillarmente il consenso popolare. Due approcci interconnessi. L’organizzazione terroristica palestinese ha sconvolto l’opinione pubblica internazionale con i suoi attentati ai civili israeliani. Ha frastornato i commentatori di mezzo mondo stravincendo libere e democratiche elezioni legislative nel 2006, lasciando la Comunità Internazionale nello sconcerto per quel risultato elettorale, raggiunto contro ogni pronostico, e nonostante qualche ostacolo. Diventando la prima forza politica tra i palestinesi. Oscurando Fatah, il partito di Arafat, che già prima della scomparsa del suo storico fondatore, era accusato di: fauda (caos), fasad (corruzione), fitna (incitamento al conflitto) e falatan (immoralità). Abu Mazen, l’erede di Mr Palestina, è al dodicesimo anno consecutivo di mandato. È politicamente logorato, non può contare nemmeno sull’appoggio incondizionato della Casa Bianca. Ha perso la fiducia del suo popolo, lo testimoniano le recenti elezioni amministrative, a maggio di quest’anno, in Cisgiordania, con Fatah ridimensionato nei numeri e fuori dal governo delle principali città. Coinvolto in una faida per la sua successione alla Muqata. Molto meno convulsa la situazione dentro Hamas, dove con linearità le varie anime che compongono l’organizzazione – ala militare, religiosa e caritatevole, politica ed estera – evitano contrapposizioni e litigi. Alternando al vertice in questi ultimi anni figure chiave come Khaled Meshal prima, e Ismail Haniyeh, oggi. Meshal è il collettore degli aiuti internazionali dal mondo arabo e il pontiere delle alleanze strategiche nella regione mediorientale, dalla Turchia al Qatar. Haniyeh, elevato al ruolo di capo supremo è il mediatore con l’ al-Sisi, rinnegando i Fratelli Mussulmani. Sua l’iniziativa di cedere Gaza, in quella che era una mossa quasi forzata: le pressioni egiziane e la crisi economica strutturale davano poche alternative. L’inverno alle porte e la precarietà di energia elettrica per la popolazione gazawa, le ripetute guerre con Israele, l’altissima disoccupazione, le condizioni di povertà diffuse, le carenze nei servizi, il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione, la chiusura dei valichi, sono fattori e difficoltà che sfiancherebbero qualsiasi regime. La decisione della dirigenza di Hamas di fare un passo indietro e indire il voto è, quindi, una svolta ambigua e il gioco è pericoloso. Il gesto eclatante di consegnare le chiavi di Gaza pone Abu Mazen difronte a seri imbarazzi: quella di Hamas infatti non è una resa incondizionata, le milizie non deporranno le armi e tantomeno saranno dismesse. E sul piano internazionale se il presidente palestinese non dovesse accogliere la proposta di Haniyeh andrebbe ad incrinare seriamente le relazioni con il Cairo, perdendo un prezioso alleato. Al contrario se, il condizionale è d’obbligo, ratifica l’offerta, dovrà aspettarsi ritorsioni da parte di Israele. Nel 2050 Gaza rischia di essere un luogo invivibile, ma prima di allora Hamas potrebbe governare in tutta la Palestina non occupata da Israele.

L’ESTATE DEL BIBIGATE

In Israele il governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia di voler oscurare l’emittente televisiva Al Jazeera, perchè fiancheggerebbe il terrorismo. Ma la decisione presa dal ministro delle Comunicazioni di Gerusalemme presenta talmente tante anomalie da risultare pressochè inefficace e quasi certamente fallimentare. Infatti, prassi vuole che la revoca delle credenziali ai giornalisti esteri deve essere motivata, e comprovata, con una informativa delle agenzie di sicurezza. Inoltre, per spegnere la CNN araba occorre il sostegno delle compagnie che mettono sul mercato i pacchetti televisivi via cavo o satellitari, anche in quel caso il provvedimento non avrebbe nessun effetto per il semplice dato che gli arabi israeliani seguono il canale qatariota avvalendosi di antenne paraboliche. Infine, la serrata delle sedi locali dell’emittente di Doha è materia del parlamento (Knesset). E ciò può avvenire solo dopo aver seguito l’iter burocratico: passaggio della  mozione nel gabinetto dei ministri, verifica di costituzionalità dell’atto da parte dell’avvocatura di stato e poi ritorno alla Knesset per il voto finale. Insomma, Al Jazeera resta accesa. Dietrologia vuole che con questa manovra il governo israeliano abbia voluto banalmente mandare un messaggio “distensivo” al blocco dei paesi del Golfo non allineati con il Qatar, emiri sauditi in primis. Intanto, un vero e proprio terremoto politico rischia di demolire la popolarità e definitivamente la carriera di Benjamin Netanyahu. Uno scandalo a catena che riguarderebbe presunti illeciti del primo ministro in questi anni. Lui, che non è digiuno a scalpori e gossip, dalle vociferate relazioni extraconiugali alle critiche per le vacanze lussuose spesate da noti imprenditori, risponde che è vittima di un linciaggio mediatico. Differente lettura danno i magistrati che lo “braccano” oramai da mesi su vari fronti. Prima l’apertura di due fascicoli denominati 1000 e 2000: uno per i regali alla moglie Sara che nasconderebbero tangenti, l’altro per le pressioni ad un editore per “ammorbidire” la linea. E poi, ad inguaiare il leader del Likud il filone d’inchiesta 3000, una presunta frode nella commessa di sottomarini acquistati dal gruppo tedesco ThyssenKrupp. Ad arricchire le ricerche del procuratore generale Avichai Mandelblit c’è la testimonianza dell’ex capo di gabinetto di Netanyahu, Ari Harow. Devoto “servitore”, Harow accusato di molteplici reati, ha preferito aprire una trattativa sulla sua testimonianza con gli inquirenti e ricevere così una pena ridotta, evitando il carcere. Eppure, anche difronte ad un maremoto di questa portata non è da escludere la possibilità che Netanyahu ne esca “brillantemente” pulito. Al momento nel tentativo di sedare dolorose faide interne al suo partito ha scavato una trincea intorno all’esecutivo. Stiamo parlando del più longevo politico israeliano, dopo il padre della nazione David Ben Gurion, che ha dimostrato di essere inossidabile e intramontabile, ma forse oggi è più vulnerabile. Ha estremizzato la sua posizione nel corso delle stagioni e polarizzato l’attenzione pubblica sulle sue “verità”: “con i palestinesi non c’è dialogo e l’Iran è il male”. Convinto antiobamiano e antieuropeista. Amico di Putin. Nemico di Abu Mazen, “confinato” in queste ore a Ramallah nella Muqata, dopo le violenze esplose in Terra Santa nelle passate settimane. Netanyahu ha cavalcato il trumpismo, e come l’inquilino della Casa Bianca attraversa un periodo nero. Populista carismatico, scafato e diffidente, rispettato e odiato. La retorica del re nudo bene descrive la discesa lenta ed inesorabile di questo statista, che ha saputo incarnare i vizi di Israele. Se le prove di Harow dovessero incastrarlo la favola volgerà al termine. Attendiamo nuove sorprese sotto il sole di Gerusalemme: Dimissioni? Crisi di governo? Nuove elezioni? Comunque, la saga del “falco” sembra aver imboccato, una volta per tutte, la lunga strada dell’aula di un tribunale.

PALESTINA, ISRAELE E TRUMP

Il 28 marzo del 1988 in piena Prima Intifada palestinese, uno dei massimi esponenti della nascente Hamas, Mahmoud A-Zahhar, venne “invitato” ad incontrare l’allora ministro degli esteri israeliano Shimon Peres, il quale era intenzionato a risolvere rapidamente la questione della protesta palestinese. Il cofondatore dell’organizzazione terroristica e un padre della patria, un fondamentalista islamico e un sionista, due nemici sedevano allo stesso tavolo di scambio, confrontandosi per la prima volta. Il palestinese offriva la pace in cambio di: fine dell’occupazione, ritiro da Gaza e West Bank, libere elezioni. Peres rispose in modo secco accettando l’azzardo: ci possiamo ritirare da Gaza subito, ci servono sei mesi per lasciare la West Bank e su Gerusalemme rinviamo la questione. A quel punto A-Zahhar avrebbe rifiutato l’ordine cronologico dei punti incalzando con “Jerusalem should be first”: Gerusalemme al primo posto. E ovviamente quel timido tentativo d’incontro, la prima “apertura” islamista ad Israele o viceversa fallì. Dopo poco Peres e Yitzhak Rabin apriranno un credito ad Arafat, si costruirono gli accordi di Oslo. Poi arrivò la seconda Intifada e tornò la guerra.

Tre decenni dopo quell’incontro “obbligato” il capo politico dell’organizzazione terroristica palestinese Khaled Mesh’al (tra i pochi ad essere sfuggito alla caccia del Mossad) annuncia, con enfasi e ampia copertura mediatica, una nuova storica pagina per il movimento prima di passare il testimone a Ismail Haniye. Dichiarando che Hamas non è il braccio operativo palestinese dei Fratelli musulmani, smarcandosi clamorosamente dalla casa madre e stendendo il tappeto al faraone al-Sisi. Annuncia inoltre che la Carta fondante del 1988 è superata: il Mithaq non è il Corano. E che i confini dello stato palestinese sono quelli del ’67, prima della guerra dei sei giorni. Una smentita parziale, una policy volutamente ambigua nei rapporti con Israele e l’Occidente, ma anche un messaggio agli USA su eventuali segrete trattative da compiere nei prossimi mesi all’ombra delle piramidi. Nel documento “programmatico” si spiega che la lotta continua, che non è una guerra di religione tra ebraismo e islam. Manca tuttavia il “tassello” del riconoscimento di Israele. “Fumo negli occhi” tagliano corto da Gerusalemme. Botta e risposta nel siparietto mediorientale che ha anticipato, e in parte condizionato, il vertice della Casa Bianca, di qualche giorno fa tra Trump e Abu Mazen: tra un presidente imprevedibile, talvolta impresentabile e ed un rais logorato, criticato e delegittimato. Un faccia a faccia poco proficuo e dai contorni vaghi. L’inquilino presbiteriano della Casa Bianca è “sentimentalmente” vicino a Netanyahu e appare totalmente indifferente al fatto che dall’eterno conflitto israelopalestinese emerga uno stato binazionale o due stati. Il progetto a breve termine di Trump è scattare la foto con i due inossidabili leader che si danno la mano, in un gesto di apparente distensione. Strette di mano a parte l’imminente “pellegrinaggio” del neo presidente in Terra Santa potrebbe a catena avere effetti sulla maggioranza di governo di Netanyahu, risicata numericamente e condizionata da pulsioni nazionaliste. Mentre il reggente della Muqata ha uno spazio d’azione ridotto persino all’interno di Fatah (stretto tra le fazioni dell’esiliato Dahalan e quella di Marwan Barghouti, ancora chiuso, dopo le plurime condanne all’ergastolo, in un carcere israeliano). Abu Mazen frettolosamente ha firmato una cambiale in bianco a Trump, per limitare l’azzardo, in queste ore, ha cercato, e ottenuto, garanzia dallo zar Putin. Intanto, da una parte del muro e dall’altra, c’è già chi, in attesa di un suo tweet, elogia il chiomato magnate come un nuovo messia.

I TERRORISTI DEL CALIFFO ALLE PORTE DI GERUSALEMME

Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione 181 con un piano di partizione della Terra Santa, nel tentativo di risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei scoppiato nella regione: il mondo arabo scelse la risposta peggiore. Settant’anni dopo attendiamo ancora la nascita di uno stato palestinese: democratico, indipendente e sovrano. C’è qualcuno che crede che ciò possa avvenire nel 2017? Obiettivamente pensiamo che solo un miracolo possa appianare uno dei conflitti più lunghi della storia. La situazione politica interna alle due realtà, palestinese ed israeliana, è talmente e palesemente compromessa da non permettere spiragli positivi: la destra nazionalista israeliana al governo, le criticità di Fatah e la dittatura di Hamas a Gaza, la prospettiva del radicarsi dell’Isis, la visione di Trump.

Eli Kaufam editorialista del Jerusalem Post, recentemente ha scritto nel suo blog non un commento di fisica quantica, ma una riflessione filosofica sull’era che ci attende: «Possono causa ed effetto andare indietro nel tempo? Nella realtà delle cose può il futuro determinare il passato? …. Se il futuro fosse in grado di determinare il passato, allora con un futuro meraviglioso quello che ci attenderebbe sarebbe un presente radioso, perché abbiamo già visto il passato e non era così bello.»

Nel contesto della Terra Santa gli errori del passato, effettivamente, sono stati troppi, determinando il presente e il futuro: culturalmente ma sopratutto politicamente il mancato riconoscimento dell’altro, da entrambi le parti, è ancora un aspetto sconcertante della questione israelopalestinese. Sicurezza, diritti umani, confini definiti per due stati per due popoli sono sempre stati l’obiettivo primario della Comunità internazionale. La cartina geografica più diffusa della Terra Santa è ferma al ’67, attualmente quindi è obsoleta. A prescindere dal caso in cui si creino le condizioni per uno stato binazionale, che si opti per una sorta di stato federale o meno, ci vorranno intense trattative e lunghi trattati. Oppure ciò che ci aspetta sono barriere, occupazione e terrorismo? La matita che dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra palestinesi ed israeliani è oggi spuntata, e Trump è pronto a strappare i fogli su cui disegnare.

Nei prossimi giorni a lasciare un segno sul quadro mediorientale ci proverà il presidente francese Francois Hollande, lontano dalla ricandidatura ha deciso di affrontare, senza troppe pretese, il nodo gordiano del conflitto israelopalestinese, invitando a Parigi per il 15 gennaio i rappresentanti di 70 stati. L’iniziativa parigina è l’ennesimo tentativo di alimentare il percorso di due stati per due popoli. Un summit accolto favorevolmente da Abu Mazen, presidente senza consenso, ma non da Netanyahu, primo ministro in bilico. A Parigi non ci saranno strette di mano tra nemici. In realtà c’è però un certo interesse per quanto presenteranno le tre commissioni che da mesi lavorano ad una road map. Ciascuna analizzando una differente prospettiva: la struttura delle istituzioni palestinesi, il contributo economico, in particolare quello europeo, e infine la partecipazione della società civile al processo di pace. L’ultimo attentato sulla promenade di Gerusalemme, e la folla a Gaza in visibilio per il martirio dell’attentatore; le minacce alla giuria e le proteste di piazza al processo contro il soldato israeliano che freddò un prigioniero palestinese; le vignette pubblicate qualche giorno fa dal quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che mostravano soldati dell’esercito israeliano uccidere Babbo Natale; i nuovi insediamenti israeliani. Dipingono un presente senza futuro.

INTIFADA 2.0

Pochi giorni fa, nella terra arida delle colline della Samaria, dove qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso la strada che porta all’insediamento di Itamar, all’interno di una macchina utilitaria sono stati rinvenuti due corpi inermi. La famiglia Henkin, marito e moglie, crivellati di pallottole, i quattro bambini a bordo, fortunatamente, incolumi. Le vittime, una giovane coppia di coloni israeliani, freddati da cecchini palestinesi miliziani di Hamas. In queste ultime ore gli appartenenti al gruppo di fuoco sono stati arrestati e avrebbero confessato durante l’interrogatorio, mentre a Ramallah dall’Ufficio del presidente palestinese sono arrivate parole ferme di condanna alle violenze e un invito ad abbassare i toni. Intanto, nel fine settimana è la Città Vecchia, il cuore di Gerusalemme, teatro di un attentato dove perdono la vita due israeliani, uno è un rabbino che si stava recando con la famiglia a pregare al Muro del Pianto. Domenica mattina quando il sole non è ancora comparso un giovane palestinese con in mano un coltello è circondato e ucciso dalla polizia, le immagini corrono sul web. La prima risposta di Netanyahu è la chiusura della Città Vecchia agli arabi non residenti, è la prima volta che il governo israeliano prende una tale misura di sicurezza. Oltre tremila soldati sono dislocati a presidiare i vicoli e le porte d’ingresso ai cinque storici quartieri. Nella giornata di lunedì numerosi incidenti nella Cisgiordania, a Tulkarem perde la vita un diciottenne palestinese. Mentre a Betlemme, nel campo profughi di Aida, muore un bambino palestinese di tredici anni. In Terra Santa non si placa la scia di sangue, sono giorni dove si contano morti e feriti, muoiono israeliani e palestinesi. E la protesta violenta dalla Spianata delle Moschee di Gerusalemme si allarga alla periferia, nei campi profughi come nei principali centri della West Bank. I giovani palestinesi – shabab – volto coperto da kefiah e muniti di fionda che caricano con sassi e scagliano con forza ai soldati, alle camionette e alle vetture in transito, nelle arterie che portano al centro della Città Santa. Volano molotov e l’esercito israeliano risponde con lacrimogeni e proiettili, senza tuttavia, essere in grado di contenere gli scontri non più sporadici ma oramai quotidiani. È la nuova Intifada. Qualcuno a sentire questa parola storce il naso, obbiettando che è presto per definirla così, eppure la realtà e la storia di quei luoghi contesi ci insegna che è il nome forse più appropriato. È Urban Intifada o Intifada 2.0, una “rivolta”, questo il significato della parola in arabo, portata avanti da una nuova generazione, per molti versi catalogabile come di rottura con le precedenti: colpisce in strada ma viaggia su facebook e sui social networks. Una eruzione incontenibile che nasce dalla rabbia e dalla voglia di vendetta, rifiuta la trattativa e non crede nella pace, sono “lupi solitari”. Non pensano a vincere e a far trionfare la causa palestinese, tantomeno accettano di essere politicizzati e strumentalizzati da una parte, lo fanno semplicemente per orgoglio e, purtroppo, cultura. Per molti di loro alla fine ci sarà il carcere. Entreranno nelle prigioni israeliane dove ad attenderli ci sono i “rivoltosi” della prima Intifada e i terroristi della seconda, trent’anni di storia del Medioriente e del conflitto israelopalestinese. Tre decenni di disastri a cui la politica non ha dato risposte e rimedio. Le colpe sono davanti agli occhi di ciascuno di noi, non c’è giustificazione nemmeno per la comunità internazionale che avrebbe dovuto proporsi da cuscinetto se non da pacere. Il giornalista Alain Gresh nel libro Israele, Palestina scrive: « Il patto di Ginevra prova, ed era lo scopo dei suoi promotori, a dimostrare che c’è di volta in volta una soluzione politica possibile ….. L’unica altra opzione ha a che fare con l’incubo, con l’apocalisse tanto spesso annunciata su questa terra tre volte santa, un’apocalisse che non farebbe alcuna differenza tra gli uni e gli altri, tra vincitori e vinti. Un’opinione simile ha espresso in queste ore Hilik Bar, esponente di spicco del partito laburista israeliano e speaker alla Knesset: “La radicalizzazione in atto a Gerusalemme Est non è solo il risultato della propaganda delle organizzazioni islamiche – Hamas e Jihad – deriva anche dalla mancanza di scelte che Israele avrebbe dovuto fare riguardo al futuro di Gerusalemme Est e dei suoi abitanti. La situazione complessiva nella maggior parte dei quartieri arabi della città rispecchia lo status ufficiale dei loro abitanti: residente permanente – meno di un cittadino e più di un lavoratore straniero.” Hilik, segretario generale dell’Avodà, punta il dito contro il governo di Netanyahu: “Lo Stato di Israele deve far appello alla logica. La crescente violenza è un chiaro segno del fallimento della politica di Netanyahu centrata sull’esclusivo uso della forza. L’ordine è importante e la dissuasione non è meno rilevante, ma in un luogo così complesso e sensibile come Gerusalemme sono insufficienti. Non si può aspettare l’introduzione di pene più severe o la costruzione di altre barriere per risolvere tutti i problemi. Non si può trattare solo con i sintomi ed evitare di andare a fondo alla radice del problema.” La proposta di Hilik è “trasferire la responsabilità della fornitura di servizi pubblici nei quartieri arabi”, migliorando la qualità della vita e rendere sostenibile, adeguato il livello dei servizi. Un percorso, quello proposto da Bar, che trova vari ostacoli, sia da parte dell’attuale governo che della controparte palestinese. È infatti chiaro che il collasso del processo di dialogo implica la fine dello status a cui “eravamo abituati”. La direzione è oscura, porterà quasi sicuramente ad un punto di rottura con il passato: oggi una nuova rivolta popolare palestinese, domani forse le dimissioni di Abu Mazen o lo smantellamento dell’Autorità Nazionale palestinese per giungere, un giorno non troppo lontano, alla cancellazione degli accordi di Oslo.