ISRAELE A SPICCHI

Israele è un paese in tilt, e la ragione non è solo la guerra, che non è comunque un corollario. Il caos imperante è attribuibile a una classe politica che, pur eletta democraticamente, si sapeva aprioristicamente avrebbe potuto deragliare, trascinando la nazione in un condensato di tensione e attesa. È il fallimento attestato e drammatico di un governo tutt’altro che all’altezza del compito affidato: non ha garantito la sicurezza dei propri cittadini, non ha mantenuto la tenuta sociale, ha invece puntato a smantellare il patto “costituzionale” vigente. Di questa crisi è parte integrante Benjamin Netanyahu, principe machiavellico pluri indagato che ha saturato “l’ambiente” con una narrativa inadeguata, una prospettiva infelice e una pessima gestione del potere. Culminata nella mancata liberazione degli ostaggi. Come spiega su Haaretz Noa Landau: “Netanyahu cerca di presentare alla sua base politica una scioccante equazione populista: o un accordo per liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra, o la sicurezza di tutti gli altri cittadini israeliani. Come primo ministro deve prendere la strada maestra: sacrificare gli ostaggi per un bene immaginario più grande. Questa, tuttavia, è un’equazione completamente falsa… l’uomo che ha costruito, esaltato e reclamizzato il marchio di ‘Mr. Sicurezza’ per tutta la sua carriera politica, con costanza esemplare, ha in realtà ottenuto l’esatto contrario”. Viceversa, la disgrazia per i palestinesi si chiama Hamas. Che non rispetta nessuna regola “civile”, ma non può essere annientata totalmente con le armi. Sconfitta invece sì. Ed in parte militarmente è stato fatto, in questi mesi, al costo di migliaia di civili palestinesi e centinaia di soldati israeliani. Dissente dalla strategia in atto Yitzhak Brik, generale riservista: “Se continuiamo a combattere a Gaza penetrando e compiendo raid sempre sugli stessi obiettivi, non solo non porteremo Hamas al collasso, ma crolliamo noi stessi. Non molto lontano da oggi non saremo in grado di effettuare questi ripetuti attacchi, perché ogni giorno che passa le Forze di Difesa Israeliane si indeboliscono e il numero di morti e feriti in azione tra i nostri soldati aumenta. Hamas, al contrario, ha già riempito i suoi ranghi con ragazzi di 17 e 18 anni”.

La realtà di Israele è nella fotografia di un giorno qualunque: nella notte di domenica una marea umana è scesa in strada a Tel Aviv, chiedendo la liberazione degli ostaggi. La mattina seguente alla protesta si è aggiunto lo sciopero generale, indetto dal sindacato Histadrut e poi revocato dal tribunale. Intanto, l’estrema destra inscenava la sua contromanifestazione a Gerusalemme, accusando la federazione dei lavoratori di incoraggiare il terrorismo, stessa linea che adotterà anche Netanayhu nel corso della giornata. Contemporaneamente fuori dall’ufficio di reclutamento dell’esercito a Tel Hashomer decine di giovani religiosi ultraortodossi protestavano per il diritto all’esenzione dalla leva obbligatoria. Mentre a Gaza si sparava e al confine con il Libano sistematicamente risuonano le sirene di allarme missilistico. Infine, il partecipato e commovente funerale di Hersh Goldberg-Polin. Lacrime e scuse, portate dal presidente Isaac Herzog: “a nome dello Stato di Israele, per non essere riusciti a proteggervi nel terribile disastro del 7 ottobre, per non essere riusciti a riportarvi a casa sani e salvi”. Persino Netanyahu nell’appello televisivo serale chiede perdono, ma non torna indietro sulla trattativa. Fuori dal coro, e come al solito inappropriate, le parole del ministro Itamar Ben-Gvir che non si vergogna a dire pubblicamente di fare tutto ciò che è in suo potere per impedire il negoziato.

Israele è divisa in spicchi: il fronte degli anti-Bibi e pro tregua è in crescente ebollizione. La fazione dei filo-Bibi e per tenere ad oltranza i piedi a Gaza è guardinga. La porzione dei dogmatici, coloro che osservano la fede, prima della legge, viaggia invece in un mondo chiuso. Mentre, la quarta fetta o componente di Israele, gli arabi, è silente e teme di essere isolata ancora di più. Uscire da questo labirinto senza la frantumazione è oggettivamente il vero problema da dirimere. A trainare la pacificazione sociale non basta il dolore per le vittime e nemmeno la guerra a Gaza, forse una guerra su larga scala potrebbe cambiare lo stato d’animo generale. Sicuramente in questo contesto non può essere fatto affidamento sul fattore economico, per tenere i rami della pianta ben saldi al tronco. La stima dei costi dell’attuale conflitto è tra 50 e 70 miliardi di dollari. Il ministero della difesa prevede che occorrano investimenti di circa altri 6 miliardi. Nel 2024 il giudizio del rating finanziario dei mercati non è stato positivo. Lo shekel ha perso potere d’acquisto. Il deficit in estate è balzato all’8,1%. Il settore del turismo (3% del PIL) è evaporato. Last but not least, il fatto che a presentare la legge di bilancio è il ministro di estrema destra Bezalel Smotrich, poco avvezzo alle oscillazioni del paniere ma diligente nello spostare risorse verso gli insediamenti in Cisgiordania, anche a quelli illegali per la legge israeliana.

Del tutto improbabile che la riconciliazione interna avvenga su ispirazione del procuratore generale Gali Baharav-Miara. Le sue raccomandazioni, compresa quella dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre e sui presunti crimini di guerra compiuti a Gaza, sono state immancabilmente respinte dal governo. Che non la vuole ascoltare, pensando di rimuoverla.

E allora appena ci sarà la tregua militare, l’unica soluzione praticabile è il ritorno al voto, con l’incognita del risultato. Perchè se vincesse Bibi vi sentirete ripetere: “Questa è la democrazia”.

IL MALINOWSKI DI FEDERICA MARTINY

Quando penso ai maestri nello svelare l’arcano mondo dell’altrove, – figure che si immergono nel profondo dubbio del lontano ed emergono raccontandoci a parole tanto le evoluzioni o involuzioni degenerative della società occidentale (coloniale e post), quanto offrendoci una chiave di accompagnamento nella ricerca della comprensione di chi è veramente “l’altro” -, istintivamente mi riferisco Joseph Conrad, che con la sua morale “dell’orrore” è fonte di ispirazione. Così come non potrei fare a meno di appellarmi ai reportage di Ryszard Kapuściński, che con la retorica del cronista si spinge fino all’esaltazione narrativa del “leone e non del cacciatore”. Sia Conrad che Kapuściński sono polacchi come Wlodek Goldkorn, giornalista che nell’arco della sua carriera (lungamente passata all’Espresso) ha saputo caratterizzare come pochi l’analisi storiografica e culturale contemporanea, e che con le sue inchieste ci apre nuove finestre su società attive, sconosciute e parallele. A questa nobile tradizione di illuminanti intellettuali-viaggiatori polacchi, grazie ad un libro di Federica Martiny, oggi devo aggiungere anche il pensiero di Bronislaw Malinowski. Pioniere, a cavallo delle due guerre mondiali, della scienza che da “voce ai nativi”. Molto meno conosciuto del bulgaro Cvetan Todorov, non per questo tuttavia meno importante nella storia dell’antropologia umanistica, che si dibatte tra filosofia e diritto. «Accanto al solido schema della costituzione tribale e degli elementi culturali cristallizzati che formano lo scheletro, accanto ai dati della vita quotidiana e del comportamento usuale che sono, per così dire, la sua carne e il suo sangue, vi è ancora da registrare lo spirito, cioè i giudizi, le opinioni e le espressioni degli indigeni». Riflessione che Malinowski esplicita in “Argonauti del Pacifico Orientale”, il libro di “avventura”, senza essere un romanzo, ambientato nelle isole Trobriand dove soggiornò a lungo. Unendo pratica e teoria al suo lavoro di ricercatore. La lezione etnografica di Malinowski è la cornice della lettura proposta dalla studiosa Martiny nel suo recente testo edito da Pisa University Press (dal titolo Malinowski e l’idea della reciprocità nel diritto). Opera di rigoroso valore scientifico che ci riporta ad un dibattito talvolta mal coniugato e oggettivamente tormentato: «Siamo infatti abituati a pensare il nostro incontro con l’alterità attraverso l’antropologia, ma il discorso deve essere declinato all’inverso: come Malinowski non era più lo stesso uomo dopo essere entrato in contatto con gli indigeni, allo stesso modo anche la vita di questi ultimi e le dinamiche della loro esistenza nel villaggio sarebbero inevitabilmente state in qualche misura diverse senza l’arrivo di un uomo bianco europeo e senza la permanenza insieme a loro. Qui risiede il paradosso dell’osservazione: la comunità studiata da Malinowski è una comunità che nel suo venire osservata osserva a sua volta e nell’entrare in contatto con l’altro da sé cambia». Nel testo Federica Martiny espone una doviziosa difesa di questo intellettuale spesso criticato, e talvolta dimenticato, non estranea al personaggio e al periodo storico ma basata su termini assoluti: «Che alcuni abbiano potuto vedere in Malinowski un appiglio per propugnare i diritti umani in Africa e che altri vi abbiano invece potuto trovare una giustificazione teorica alle politiche di segregazione, non significa evidentemente che egli volesse dire nessuna delle due cose. Eppure, il fatto che queste interpretazioni siano state proposte ci restituisce il senso della complessità di un problema che pure, come in queste brevi pagine abbiamo cercato di mostrare, non può essere indagato senza considerare il contesto di riferimento fatto della nascita e dell’autolegittimazione di una disciplina che proprio con Malinowski teorizza la possibilità di dare voce agli indigeni che studia». Approccio che nell’era del selfie e della globalizzazione imperfetta, o assurda, tendiamo volutamente a scansare.

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BERSAGLIO CENTRATO

Il 10 aprile 2023 nel nord della Striscia di Gaza l’esercito israeliano uccide tre figli del leader di Hamas Ismail Haniyeh, ritenuti operativi all’interno del gruppo terroristico. Nell’auto su cui viaggiavano, fatta esplodere da un missile, perderanno la vita anche quattro nipoti dell’ex primo ministro palestinese. Poche ore dopo in rete circola un video che mostra il momento in cui al capo politico di Hamas viene comunicata la morte dei suoi figli. Il breve filmato è ripreso durante una visita “istituzionale” ad un ospedale in Qatar, dove da qualche anno aveva ottenuto asilo politico, trascorrendo un lussuoso e agiato esilio. Nella clip Haniyeh ascolta impassibile la notizia, muove oscillando leggermente la testa, tiene le mani congiunte e prega Dio. Quando gli viene chiesto se vuole interrompere l’incontro risponde perentorio: “No, continuiamo”. Successivamente dichiarerà: “Il sangue dei miei figli non è più prezioso di quello del nostro popolo”. Chiarendo che la loro perdita non cambia di una virgola la strategia: “Il nemico (Israele ndr) è pazzo se pensa che prendere di mira i miei figli, al culmine dei negoziati e prima che il movimento invii la sua risposta, spingerà Hamas a mutare la sua posizione”.
Adesso c’è invece da capire quanto la sua fine influirà sulle trattative in corso per raggiungere tregua e liberazione degli ostaggi, perché se l’uccisione dei parenti e il sangue di migliaia di palestinesi è una cosa, quello del noto politico palestinese conta molto, ma molto di più. La lezione comunque è che se sei scampato a un attentato del Mossad, nel 2003, non è detto che lo farai per sempre.
La punizione, non divina, è arrivata a Teheran dal cielo nella mattina del 31 luglio, con un “pacco aereo” che ha centrato la sua residenza. Haniyeh era volato in Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian. Il giorno prima aveva incontrato l’ayatollah Ali Khamenei. Alla riunione era presente anche il vertice della Jihad islamica palestinese Ziyad Nakhaleh. Nella foto scattata nella sala dei colloqui Haniyeh è seduto a fianco della guida spirituale degli sciiti iraniani. Appare rilassato e al sicuro tra le mura amiche, sbagliava. Per molti è già un martire della causa palestinese, per altri resta un fondamentalista assassino. Non è il primo della lista dei responsabili del massacro del 7 ottobre a essere stato eliminato da Israele, e non sarà l’ultimo. Stessa sorte è toccata a Saleh al-Arouri, esponente di spicco dell’organizzazione, ucciso lo scorso gennaio mentre si trovava in Libano. A metà luglio è l’ora fatale per Rafa’a Salameh, comandante di brigata. Presumibilmente nell’attacco israeliano ha perso la vita anche uno dei triumviri a Gaza, Mohammed Deif. L’eliminazione sistematica da parte di Israele dei quadri di Hamas non è una novità, ma sino ad oggi non ha ottenuto nessun risultato. Infatti, come nel caso del mitologico mostro Idra di Lerna, tagliata una testa ne cresce un’altra, e la storia va avanti.
Intanto, all’interno del movimento islamista si rafforza la posizione di Yahya Sinwar, figura chiave a cui Israele da la caccia da mesi. Sinwar, insieme a Deif e Haniyeh, è sotto incriminazione della Corte penale internazionale per gli eventi del 7 ottobre. Sarà lui il prossimo obiettivo? A questo punto la sua sorte è una certezza. Seppur la sua eliminazione in questa fase di fragile trattativa diplomatica potrebbe, tuttavia, complicare notevolmente la liberazione degli ostaggi israeliani. Elemento significativo che forse gli permetterà di allungare la vita, almeno di un po’.
Non è un segreto che tra la corrente di Sinwar e quella di Haniyeh, decisamente più pragmatica, ci fossero divergenze che spesso hanno messo i due in contrasto aperto sulla linea da tenere. Hamas non è un monolite estraneo alla lotta interna per il potere. Sinwar governa indiscusso l’ala armata e parallelamente Haniyeh aveva in mano la borsa dei finanziamenti esteri, godendo dell’accreditamento nei paesi musulmani. Due ruoli ben distinti, equamente importanti per mantenere operativa struttura e rete dei collegamenti con gli alleati regionali. Un ampio spettro di rapporti da ristabilire con la nomina di una nuova figura, priva però della personalità carismatica di Haniyeh.
Il successore vivrà con una spada di Damocle sulla testa, che lo condanna a morte sicura, o quasi. Così funziona, non nel film ma nella realtà, degna comunque della miglior finzione cinematografica. Solo pochi giorni fa riflettevamo sulle potenzialità dei negoziati di Roma tra le parti in gioco, oggi lo scenario è in trasformazione. In rapida e drammatica evoluzione. L’Iran minaccia vendetta. Il Qatar prende le distanze da Israele, non sarà l’unico stato arabo. La Turchia di Erdogan è ad un passo dalla linea rossa dell’intervento diretto nel conflitto mediorientale. La Casa Bianca è irritata per non essere stata informata. L’atto “spregiudicato” avrà delle conseguenze pesanti nelle relazioni con l’amministrazione democratica statunitense, entrata nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali. Fatto sta che al momento a Gerusalemme a commentare l’uccisione di Haniyeh è la voce dell’estrema destra, il ministro Amichay Eliyahu scrive sui social: “È il modo giusto per ripulire il mondo dalla sporcizia. Niente più immaginari accordi di pace e resa, nessuna pietà”. Aggiungendo. “La morte di Haniyeh rende il mondo migliore”. Visto il contesto in cui siamo ci chiediamo a quale prezzo?

BIBI E LO STRESS

In Israele da un po’ di tempo circolano voci riguardanti la salute di Netanyahu. Ci fosse una campagna elettorale alle porte avrebbero il tempo che trovano, e nessuno probabilmente ci farebbe caso. Nel mezzo di una guerra tutto prende un significato diverso. Il longevo re Bibi è sicuramente in grado di intendere, volere e imporre la sua leadership, senza curarsi dei danni causati, sia lui che i suoi fedeli alleati, una pletora di estremisti elevati al rango di ministri. Invocare la camicia di forza non è tuttavia la risposta alla deriva in atto, e sicuramente non è la strada democratica per liberarsi definitivamente di una personalità ormai dannosa al suo paese. La questione è squisitamente politica.
Comunque, a luglio 2023, al settantatreenne premier israeliano venne impiantato un pacemaker, con un intervento chirurgico d’urgenza. Qualche ora dopo l’operazione Netanyahu appare sorridente in video: “Come potete vedere sto benissimo”. Messaggio che non rassicura gli israeliani, rimasti scioccati nell’apprendere che da tempo il loro primo ministro aveva nascosto (mentendo) il cronico problema cardiaco di cui soffriva. Ufficialmente i medici minimizzano le preoccupazioni, adducendo la causa degli strani mancamenti alla disidratazione. Non era così. Allora, dalle pagine di Haaretz il giornalista Yossi Verter parlò di fabbrica di menzogne che circonda il ricovero: “Le condizioni di salute illustrano più di ogni altra cosa la cultura dell’inganno in cui Netanyahu, i suoi ministri e consiglieri gestiscono il Paese”. Sul web presero piede le speculazioni sulla sua reale salute. Pettegolezzi? Spesso i leader, succede in tutte le democrazie, sono coperti da un alone di silenzio, riserbo in particolare su eventuali malattie, che potrebbero offuscare l’aura di invincibilità. Verrebbe da dire che siamo tutti umani, ma qualcuno pretende di esserlo un po’ meno. E comunque, dal giorno del suo intervento, un’ambulanza è al seguito della carovana della sicurezza, che accompagna Netanyahu.
Lo scorso gennaio il bollettino medico del primo ministro israeliano riportava: “Stato di salute completamente nella norma”. Insomma, il falco della destra sta bene. Ciononostante, all’inizio di giugno è stata presentata una petizione all’Alta Corte di Giustizia per chiedere che il primo ministro condivida informazioni dettagliate sulle sue condizioni e nomini un sostituto ad interim, nel caso in cui non fosse in grado di svolgere le funzioni, come prevedono i protocolli in vigore. In conformità al rispetto della privacy però la promulgazione di notizie personali non è vincolante. Ad invocare trasparenza sono alcune famiglie delle vittime del 7 ottobre ed esponenti del partito laburista. Scrive a riguardo l’avvocato Binyamin Bertz sull’autorevole Jerusalem Post: “Rispondere a queste voci dovrebbe giovare alla fiducia del pubblico verso il governo e rafforzare la resilienza nazionale. Al contrario, nell’attuale struttura di governo e in assenza di un sostituto per il primo ministro, lasciare queste chiacchiere senza risposta minerà ulteriormente il grado di resistenza nazionale, che è già in una situazione difficile”.
Dal punto di vista giuridico l’Alta Corte ha stabilito recentemente che la valutazione dell’idoneità al comando del primo ministro non è applicabile durante il mandato in corso. Lo stress e la sua reazione, seppur comportando ricadute fisiche e mentali, non sono ragioni imputabili alla rimozione. I giudici supremi hanno sentenziato che sia invece da tenere in considerazione l’idoneità quale requisito per l’eleggibilità del candidato premier, disposizione da applicarsi ante nomina e non post. Quindi, al momento non sussistono condizioni “superiori” per la revoca dei poteri a Bibi. Se mai qualcuno ci avesse sperato.
Per sostituire il peggior premier della storia di Israele ci sono solo tre possibilità: che si dimetta di sua scelta (alquanto improbabile a meno che non decida di giocarsi tutto richiamando gli israeliani alle urne); che la maggioranza che lo sostiene imploda (rischio sempre presente visto gli alleati che si è scelto); oppure che il Likud, il partito di cui è padre padrone, si rivolti contro di lui (ma mancano aspiranti coraggiosi e volenterosi che si mettano a capo della congiura di palazzo). Il re di Israele è stanco ma si tiene stretta la corona, senza più Benny Gantz nel gabinetto di guerra che gli tiri le orecchie. L’ex ministro a forza di minacciare le dimissioni, e poi ripensarci, alla fine le ha presentate, con una tempistica non esente da critiche. Il problema è che per il suo posto apicale adesso sgomita l’ultradestra. Che vorrebbe tornare ad occupare Gaza e cacciare i palestinesi dalla loro terra. Provetti Nerone a cui è pericoloso mettere in mano i fiammiferi, figuriamoci affidar loro le chiavi dei carri armati e le sorti della battaglia.

BIBI FAI LA COSA GIUSTA, ALMENO QUESTA VOLTA

Se Biden non si fosse fatto incastrare da Netanyahu nel classico gioco del “tira e molla”, forse oggi ci sarebbe qualche spiraglio di luce all’orizzonte. E non una tenebrosa paralisi politica, che rischia di compromettere gli assetti della società israeliana, aggrovigliata in quella che è la situazione più delicata della sua storia. Colpa di Bibi. In questi lunghi mesi di guerra, ha pubblicamente umiliato il presidente degli Stati Uniti. Se n’è fregato dei consigli della Casa Bianca, attratto dal canto ammaliatore dei Repubblicani (suo eterno amore), ha inforcato la via dello scontro con i democratici. Bibi il Nixon israeliano.

Colpa il suo ego smodato, la cosa più grave, ha mortificato Israele. Prima elevando al governo personaggi impresentabili, e decisamente poco raccomandabili. Poi ha provocato una larga fetta della società, tentando di introdurre la riforma della giustizia, che indeboliva il sistema democratico. Infine, ha fallito clamorosamente nella sicurezza nazionale. Quando avrebbe dovuto evitare sofferenze e lutto alle famiglie. Proteggerle dal massacro. Liberare gli ostaggi. Mettere fine alla guerra, dimostrando di essere uno statista. Far rientrare gli sfollati nelle proprie case. Il risultato prodotto dal peggior governo di Israele è la somma di confusione sociale, incertezze militari e diplomatiche, insorgere dell’antisemitismo globale e odio per Israele. Il primo ministro Netanyahu non è stato capace di mostrare una logica via d’uscita all’emergenza in atto. Bibi si è fatto serio e cupo. Non lascia trapelare una parola sui piani di governo della Striscia il “giorno dopo Hamas” (se mai ci sarà). Non ha avuto il coraggio, per puro tornaconto, di liberarsi degli alleati nocivi dell’estrema destra: vetero fascisti che marciano su Gerusalemme, per infiammarla. Invasati di retorica messianica. Che antepone la fantasia alla realtà. La stupidità alla pace.

L’ultimo atto del bibismo è ripiegare sul nulla. Aspettare le critiche e per inerzia rispondere. Ogni affondo che lancia però è sempre meno credibile del precedente. Ha perso lucidità e scaglia dall’arco frecce spuntate. Offende l’ONU. Attacca la Corte penale internazionale. Bersaglia gli oppositori (interni ed esterni). Sfida l’apparato dell’esercito. Sbeffeggia l’Europa. È poco altruista, e troppo populista. Si atteggia da monarca illuminato, ma dietro la maschera nasconde il volto del despota perdente, che rifiuta di fare quel doveroso e molto onorevole passo indietro, permettendo l’esercizio democratico del voto.

Ha incautamente rotto il vaso della popolarità, ed è uscita la verità. Quella che è lui ad avere la responsabilità del comando. E non gli altri. Non ha scuse. Segua l’esempio del generale Aharon Haliva, capo dell’intelligence dell’esercito israeliano, che si è dimesso lo scorso aprile: «Sapevo che con l’autorità derivano pesanti responsabilità». Siamo alla nemesi di Netanyahu. Fondatore di uno stato disfunzionale. In Israele per risollevarsi dal disastro è ragionevole invocare il cambiamento, come forma di resilienza costruttiva. Il buon senso comune dovrebbe convincerlo a rimettersi al giudizio del popolo. L’ultimo sondaggio apparso indica che il 54% degli israeliani è favorevole al ritorno alle urne. Nella pratica invece abbiamo la maggioranza della Knesset contraria. E destinata ad un lento e progressivo logoramento.

Alternativa, poco plausibile e oggettivamente impraticabile, è un governo di scopo a scadenza limitata. Allargato ai partiti dell’opposizione, di matrice sionista. Esecutivo di cui non farebbe parte l’ala estremista dei nazionalisti. Esclusione a danno di Netanyahu, costretto a pagare pegno. Non meno gravoso sarebbe tuttavia per gli anti-Bibi ritardare la sua caduta anche di un solo minuto. Meglio quindi scegliere una data (settembre?) e contarsi una volta per tutte. Biden, comunque, spera che accada presto ed a vincere non sia lui.

LA MEMORIA DELLA GUERRA

In Israele quello trascorso non è stato un weekend di maggio qualunque. La sera di sabato è stata segnata dalle ormai canoniche proteste, con tensioni tra polizia e manifestanti, che chiedono le dimissioni del governo Netanyahu. Domenica, al calare del sole invece sono iniziate le celebrazioni dedicate alla memoria dei soldati caduti e delle vittime degli attacchi terroristici. E di nuovo una lunga scia di polemiche ha attraversato un paese spaccato. Nel nord della Galilea, tra gli sfollati che da mesi hanno lasciato le proprie abitazioni, c’è chi simbolicamente invoca la secessione. Scegliendo di non appendere ai balconi la tradizionale bandiera blu e bianco. Nel kibbutz Nirim c’è chi ha lanciato una petizione per non far trasmettere gli eventi sui media nazionali, raccogliendo 70 mila firme.
Nei tragici 7 mesi che ci siamo lasciati alle spalle, tanti altri nomi si sono aggiunti alla lista di persone da ricordare, e altri se ne aggiungeranno ancora nelle settimane di guerra a seguire. Sia dal lato israeliano che da quello palestinese. La doppia narrazione, con il suo comune denominatore, finisce inequivocabilmente per diventare un’unica storia di guerra. Ripetitiva. Inscindibile. Dolorosa.
In questo contesto è stata toccante la cerimonia parallela che dal 2006 organizza l’associazione pacifista israelo-palestinese Parents Circle – Families Forum. Sono i parenti delle vittime, di cui abbiamo sulle pagine di questo giornale ampiamente parlato. Sono amici. Il loro lutto è anche il nostro. L’intento invece è di andare oltre il concetto di “guerra e morte come inevitabile e necessaria”, presentando una narrazione alternativa che metta le vite umane in primo piano, al di sopra dell’appartenenza ad uno stato o ad una religione. Non più nemici ma fratelli. Uniti per sempre. Purtroppo, oggi non fisicamente. Dal 7 ottobre 2023 il governo di Israele ha revocato i permessi di ingresso ai palestinesi, e coloro che dall’altra parte del muro avrebbero voluto presenziare all’evento non hanno potuto farlo. Una crudele realtà, ingiusta. E così gli organizzatori hanno optato per “stringersi” insieme virtualmente da due luoghi diversi, Tel Aviv e Beit Jala, dalle acque del Mediterraneo alle colline della Cisgiordania. L’incontro a distanza si è svolto l’8 maggio, e poi è stato trasmesso in streaming alla vigilia del “Giorno della Memoria”. Proiezioni aperte al pubblico si sono svolte nelle case dei “volontari” del Parents Circle. Sul palco israeliano è intervenuto Yonatan Zeigan, il figlio di Vivian Silver, attivista pacifista barbaramente uccisa da Hamas: “Oggi guardo i miei figli con il cuore spezzato al pensiero che anche il loro padre potrebbe non vivere abbastanza per vedere la pace”. Michal Halev, madre di Laor Abramov il DJ assassinato dalla ferocia dei fondamentalisti islamici al festival musicale Supernova: “L’unico obiettivo che ho trovato per continuare a vivere è contribuire a fare in modo che non ci siano più madri distrutte dal dolore”. Tra i relatori palestinesi ha parlato Ahmed Helou, che ha perso numerosi membri della sua famiglia a Gaza: “Dietro ogni nome c’è un essere umano con una storia, una famiglia e dei sogni”. Sogno di pace, che resta un incubo per questi due popoli. Eszter Korányi co-direttore del lato israeliano del movimento del “circolo dei genitori”: “Onestamente, se questa guerra fosse in corso da qualche altra parte, a nessuno importerebbe qualcosa”. Invece, importa e molto.
Triste da dirsi ma proprio coloro che meritano maggior rispetto, per aver perso un proprio caro, sono oggetto da anni di una campagna di odio da parte della destra israeliana: “traditori” che “siedono con i terroristi”, “portatori di una dottrina velenosa”, “antisionisti che non hanno diritto di parlare”. Ecco come sono chiamati i coraggiosi israeliani del Parents Circle. In un post di commento a un articolo di Haaretz apparso questa mattina c’è chi scrive persino “utili idioti”. Purtroppo in giro c’è tanto di cui vergognarsi.

BENNY VS BENNY

“Le leadership di Israele e Palestina devono andarsene. È responsabilità diretta del popolo israeliano e palestinese mandarli via. Ma anche la comunità internazionale deve fare la sua parte… Il conflitto è andato oltre i confini di Israele e Palestina, con il potenziale rischio di un allargamento nella regione. Oltrepassando le linee rosse della morale”. “This has to end”. Tutto questo deve finire, è l’appello lanciato dalle colonne del Jerusalem Post da Gershon Baskin, direttore dell’International Communities Organization, editorialista e negoziatore di ostaggi, si occupò della liberazione nel 2006 del soldato Shalit, dopo 5 anni e 4 mesi in cambio di 1027 detenuti nelle carceri israeliane.

Intanto, a Tel Aviv e Gerusalemme risuona l’urlo della folla: “Elezioni subito!”. In una protesta che si sdoppia. Da un lato i cortei e le tende nelle piazze contro Netanyahu e dall’altro lo scontro politico nella Knesset. Ad unire le forze anti-Bibi potrebbe essere, ancora una volta, il ministro del gabinetto di guerra Benny Gantz, che ha pubblicamente avanzato la proposta di anticipare a settembre le elezioni. Che l’uscita di Gantz sia stata concordata con l’amministrazione di Biden è una supposizione. Non trascurabile visto che la finestra indicata per il rinnovo della Knesset è settembre, vigilia delle presidenziali USA. Quando, in caso di vittoria di Trump, muterebbe il quadro geopolitico, difficilmente a favore di Gantz. Il tappeto rosso della Casa Bianca all’ex generale e lo smacco del mancato invito a Bibi, sono indizi rivelatori che lasciano poco margine al fraintendimento. I democratici statunitensi hanno imbarcato il leader di HaMahane HaMamlakhti e Biden ha scaricato l’amico Netanyahu, con cui è “molto incavolato”.

Dopo 6 mesi di guerra, la strategia politica dell’ex capo dell’IDF ricalca quella della torre negli scacchi, muoversi sia in orizzontale che in verticale. È al fianco dei parenti degli ostaggi a Gaza (“Mi vergogno quando ascolto l’atteggiamento di alcuni parlamentari nei confronti delle famiglie degli ostaggi”), e in campo come alternativa a Netanyahu (“Il popolo israeliano è soffocato da una visione di governo bloccata nel passato”). Per arrivare a mettere in scacco re Bibi l’unica via è portarlo allo scoperto dalla trincea dove si è arroccato, con le urne o con la crisi di governo. La prima opzione ha bisogno della seconda. La seconda può fare a meno della prima.

Scrive The Times of Israel: “Gantz si è indebolito nei sondaggi nelle ultime settimane e la sua uscita dalla coalizione non farebbe cadere il governo, tuttavia, nuove elezioni potrebbero potenzialmente vederlo spodestare il primo ministro più longevo di Israele. I sondaggi mostrano il suo partito costantemente al primo posto nei consensi e il Likud che sta affondando. Sempre più israeliani lo indicano come candidato adatto a ricoprire la carica di premier, al posto di Netanyahu”. Insomma, la partita tra i due Benny è entrata in una nuova fase.

Nell’aprile del 2020 Gantz non aveva resistito alle lusinghe di Bibi, accettando la formazione di un governo d’emergenza in cambio della rotazione al vertice. Allora, una delle battute che circolavano tra i giornalisti israeliani era: “Sapete quante saranno le ore di Gantz a Balfour street (la residenza a Gerusalemme del primo ministro)? Otto, ovvero quelle che ha passato nello studio di Netanyahu per trovare l’accordo”. E fu veramente così. Invece, di cedere la poltrona Bibi fece saltare il banco. In pochi forse ricordano che dieci anni prima il giorno della sua investitura a tenente generale, di lui Netanyahu disse: “È un eccellente ufficiale che possiede tutti gli attributi per essere un comandante di successo”. Molti probabilmente si ricordano della propaganda della destra nella campagna elettorale del 2019. La macchina del discredito o del fango gli rovesciò addosso di tutto. Il quotidiano Maariv divulgò la notizia, falsa, che Gantz avrebbe fatto uso di ansiolitici. Il giornale Yedioth Ahronoth, cantore delle gesta del leader del Likud, invece pubblicò una vignetta dove due capi di Hamas commentano: “Speriamo vinca Netanyahu, dicono che Gantz sia fuori di testa”. Attualmente Gantz, quale membro del ristretto gabinetto, è personalmente esposto nella gestione della crisi. E Netanyahu non gli rende la permanenza nella maggioranza una cosa semplice, tra esternazioni degli estremisti, politiche sensibili ai religiosi e frecciate: “deve smettere di occuparsi di politica spicciola solo perché il suo partito sta cadendo a pezzi”. Nemmeno i rapporti con Yair Lapid sono gli stessi di quando correvano insieme, le strade si sono divise. E oggi Lapid è il riconosciuto leader dell’opposizione. A questo punto a Gantz non resta che tenersi stretti i sondaggi. L’ultimo in ordine di tempo è di poche ore fa: 32 seggi accreditati alla sua lista, contro i 17 del Likud e i 15 di Yesh Atid di Lapid. Se l’esecutivo lentamente collassa ma soprattutto se Biden continua a spingerlo, potrebbe essere la volta buona per Balfour street. Altrimenti, sarà l’ennesimo buco nell’acqua.

L’IMPORTANTE E’ ASPETTARE

“Are elections an option?”. Sono le elezioni in Israele davvero un’opzione fattibile al momento? Questo si chiede Susan Hattis Rolef sul Jerusalem Post. L’opinione della commetantrice politica è che: «A meno che uno dei soggetti all’interno dell’attuale coalizione di destra di Netanyahu non decida di abbandonare il governo, l’evenienza di un prossimo voto alla Knesset, per indire le elezioni anticipate, sembra estremamente bassa. Implicito, tuttavia, che Netanyahu riesca a risolvere il nodo della legge sulla leva obbligatoria degli haredim (religiosi ebrei ortodossi ndr), in discussione parlamentare, senza apportare nessun cambiamento sostanziale al vigente status quo. E che [Netanyahu] sappia tenere fuori dal gabinetto di guerra il leader di Otzma Yehudit Itamar Ben-Gvir. Evitando di innescare la crisi dell’esecutivo. Inoltre, dal momento che il ministro senza portafoglio Gideon Sa’ar e il suo partito, New Hope (a cui aderiscono quattro parlamentari), hanno deciso di staccarsi dalla lista di Unità Nazionale guidata da Benny Gantz, abbiamo sulla carta una potenziale maggioranza di destra, che potrebbe attestarsi a quota 68 seggi. Ne consegue che, in pratica, l’attuale governo potrebbe durare fino alla fine dell’ottobre 2026… Nel frattempo però ci saranno le elezioni presidenziali americane, che potrebbero effettivamente rimescolare le carte in tavola».

Se la variante interna per Netanyahu sono i giudici del tribunale di Gerusalemme e la futura commissione d’inchiesta sulle responsabilità del 7 ottobre. Quella esterna è rappresentata dai frontali di Biden (“Adesso più aiuti”) e Borrell (“Israele usa la fame come arma di guerra”). Washington e Bruxelles hanno voluto rimarcare un chiaro avvertimento: A tutto c’è un limite. Non siamo disposti a sopportare che le politiche israeliane siano materia tanto della campagna elettorale in Europa quanto di quella statunitense. Il succo del messaggio: Bibi torna nel seminato, e soprattutto fermati. Il problema è che il falco della destra sa benissimo che nel suo caso chi si ferma è perduto. E per sopravvivere deve lottare con ogni mezzo. Giocando di propaganda per recuperare lo svantaggio dell’impopolarità. Consapevole che se arbitro non fischia, la partita, e la carriera, non è finita.

A suo favore come scrive sempre Hattis Rolef ha il fattore campo, che poi sarebbe l’assetto Knesset. Tre sono le novità nel panorama politico israeliano che potrebbero avere degli effetti, sia nel breve che nel lungo periodo.

Come era immaginabile, la notizia della separazione tra Sa’ar e Gantz ha suscitato clamore mediatico. Le ragioni del divorzio sono ben spiegate dalla richiesta, o pretesa, di avere un seggio nel gabinetto di guerra. Ovvero, entrare a far parte dell’unico organo che comanda “realmente” in Israele. Sa’ar, dopo una lunga militanza al fianco di Netanyahu nel 2020 era uscito dal Likud, spostandosi sotto l’ala protettiva di Gantz. Il ritorno alle origini, una mossa nemmeno troppo inaspettata dopo le aperte critiche a Gadi Eisenkot, è l’ennesima trovata del “collaudatore” della destra post Sharon. Quella che ha elevato Bibi Netanyahu a signore indiscusso di Israele. Nel clima attuale mollare i centristi e tornare su posizioni più marcatamente nazionaliste è un elemento per certi versi dirompente. Non a caso Sa’ar ha ribattezzato il suo partito Hayamin Hamamlachti. Tradotto: “La destra dello statista”. La strategia dell’ex dirigente del Likud sembrerebbe indirizzata a creare le condizioni per un riavvicinamento a Bibi, ma potrebbe essere anche un’abile mossa per portare allo scoperto eventuali ammutinati del suo ex partito, e spianare la strada a Gantz.

La seconda domanda è che cosa fa la sinistra sionista? Aspetta di liquefarsi completamente o cerca una soluzione per non farsi prosciugare dai movimenti centristi? Il tentativo di federare Avodà e Meretz in un unico partito è una necessità. Vitale in un sistema elettorale proporzionale con sbarramento al 3,25%. Ma non essendoci prospettiva di voto imminente qualcuno potrebbe decidere di tirarsi indietro. E arroccarsi nel proprio piccolo orticello. Il ruolo di salvatore della sinistra si addice perfettamente all’ex generale Yair Golan, militante del Meretz. Che intanto in questa missione ha arruolato due importanti quadri del partito laburista, Naama Lazimi e Gilad Kariv. La vera impresa è riuscire ad alimentare la tremula scintilla del consenso, dimostrare che l’anti-Bibismo non è solo un vuoto slogan e che la tribù della sinistra esiste ancora.

Infine, le tensioni nel governo tra il ministro della Difesa Yoav Gallant (Likud) e quello delle Finanze Bezalel Smotrich (Partito sionista religioso) hanno toccato un nuovo apice. Smotrich leader dell’estrema destra da settimane ha alzato il tiro degli attacchi all’indirizzo dei vertici dell’esercito e dei servizi segreti: “l’IDF e il suo capo hanno fallito non solo tatticamente e operativamente, ma concettualmente”. Fuoco a delegittimare non gradito da Gallant: “State danneggiando Israele e minando il sistema di difesa solo per ragioni politiche. Questo è male, specialmente durante la guerra… Non permetterò a nessuno di trasformare l’esercito in una milizia al servizio di questo o quell’attore”. Chi si tiene fuori dalle discussioni “di condominio” è ovviamente il padrone di casa, Benjamin Netanyahu.

FLOP ELEZIONI, BIBI EVITA IL PRIMO OSTACOLO

Israele al voto, in tempo di guerra. Le elezioni amministrative, in origine previste a fine ottobre e posticipate a causa dell’intensificato conflitto con Hamas e dell’escalation con Hezbollah, si sono svolte martedì 27 febbraio, riscontrando generalmente una bassa partecipazione. Per la terza volta nella sua storia lo stato ebraico ha dovuto rinviare le elezioni locali. In precedenza avvenne nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur e nel 1982 in concomitanza della prima guerra in Libano.

197 sono stati i comuni interessati da questa tornata, esclusi invece, una decina in tutto, alcuni situati lungo il confine della Striscia di Gaza ed altri al nord limitrofi al Libano. Dove i residenti sono da mesi stati evacuati per ragioni di sicurezza e distribuiti in varie parti del paese, alloggiati in hotel o temporaneamente presso amici e familiari. Rendendo complicata la logistica dell’organizzazione, per loro si svolgeranno il prossimo autunno. Dei circa sette milioni di aventi diritto solo meno della metà si è recato alle 11 mila urne distribuite urne nel paese. La settimana scorsa i primi a votare con la doppia scheda (gialla per eleggere il sindaco e bianca per la lista del consiglio comunale) sono stati militari e riservisti, nei seggi allestiti presso le basi dell’esercito.

Molto alto il livello della sicurezza, con regolari controlli ogni due ore, predisposti da polizia in coordinamento con il comando militare. Come prevede la legge se nessuno dei candidati supera la soglia del 40% è previsto il ballottaggio tra i primi due. Per conoscere il nome del sindaco di Haifa, terza città per numero di abitanti, si dovrà aspettare il 10 marzo. Intanto, nell’ombra della guerra che incombe, lo spoglio è andato a rilento. L’esito parziale tuttavia, ha confermato la vittoria degli attuali sindaci di Tel Aviv e Gerusalemme. Non cambia colore (e tendenza) la città laica, del mare e del divertimento, retta ininterrottamente dal 1998 da Ron Huldai, storica figura del partito laburista. Che si attesta sopra il 50%, staccando di una decina di punti la rivale Orna Barbivai, espressione dell’ala centrista e liberale. Non è bastato l’endorsement del leader dell’opposizione Yair Lapid all’ex generale (prima donna a raggiungere tale grado nell’IDF), e già parlamentare della Knesset, per sconfiggere l’inossidabile ed intramontabile Huldai. Poco distante, nella “Santa Gerusalemme” tutto secondo le previsioni della vigilia. Eletto Moshe Lion, secondo mandato consecutivo per il noto dirigente del Likud. Che ha letteralmente stracciato gli avversari. Compreso l’attivista per i diritti civili Yosi Havilio, sponsorizzato dal “campo largo” di centrosinistra (e dal movimento pro-democrazia). Nulla da fare per lui in una corsa persa in partenza, in una città dove il voto secolare è ormai minoritario e ininfluente difronte all’ortodossia dei religiosi. Cade anche la storica roccaforte laburista di Holon, alle porte di Tel Aviv. Sconfitto Moti Sasson che sullo scranno di sindaco sedeva da 30 anni. Costretto a farsi da parte per l’avanzata imperiosa della lista indipendente dei “volontari” guidata da Shai Kenan. Che con la sua organizzazione benefica ha scalato la fiducia tra la gente.

Problematico il voto nelle comunità arabe-israeliane investite da un’onda di criminalità senza precedenti. Oggetto di costanti pressioni e quotidiani violenti attacchi. A riguardo i ricercatori Yael Litmanovitz e Muhammed Khalaily hanno scritto: “Dobbiamo protestare contro il contesto devastante che stanno vivendo le comunità arabe negli ultimi anni, in cui i cittadini hanno paura di uscire di casa dopo il tramonto, hanno paura persino di mandare i figli a scuola o al parco, addirittura di dormire troppo vicino alle finestre per gli spari. Non dobbiamo permettere che si crei una situazione in cui gli arabi di Israele abbiano paura di andare a votare ed eleggere un sindaco o un consigliere, né una situazione in cui i candidati stessi temono che svolgere un ruolo civico possa costare loro la vita”.

In conclusione. Queste elezioni amministrative non hanno avuto un riflesso su scala nazionale. Al contrario, a trainare i pochi contendibili voti sono stati i candidati in gioco. Netanyahu si è tenuto lontano dalla campagna elettorale, per ovvi motivi politici, in un momento in cui ha ben altro a cui pensare. Lasciando che l’elezione facesse il suo corso naturale. E così Bibi non è stato investito da un referendum sulla sua persona, che avrebbe potuto provocare un terremoto politico. Cresce comunque il peso nella società tanto dei movimenti dal basso quanto degli ortodossi. Il vero dato negativo è la bassa, bassissima affluenza (a Gerusalemme si sono recati alle urne il 25% degli aventi diritto). Il fattore guerra ha sicuramente influito sul diffuso pessimismo verso la politica. Il nodo della tutela della democrazia è alla radice.

LE AQUILE

Oggi ho visto per la prima volta un aquila combattere con un corvo. Il bianco uccello alato contro quello nero e gracchiante. Alcune rapide strambate al vento, discese in picchiata libera e poi la mossa che non avrei mai immaginato in quel duello aereo da prima guerra mondiale, avvenuto sopra il verde mare delle Andamane: il corvo in posizione migliore per sferrare l’attacco dall’alto sembrava aver sopraffatto l’aquila, che improvvisamente ha girato su se stessa ritrovandosi becco a becco con il nemico, continuando a volare all’incontrario e colpendo l’avversario colto di sorpresa. Pochi attimi di acrobazie. Fine della guerra.
In questi giorni, di non proprio buon umore, due libri mi sono stati di conforto. E sono “Quando le montagne cantano” scritto da Nguyen Phan Que Mai (perdonate gli “accenti” mancanti sulle e) e “Diario di una splendida avventura” di Tonino Aloi. Il primo è finzione, narra la saga di una famiglia vietnamita che scorre dagli anni ‘30 dello scorso secolo fino ai giorni nostri. Il secondo invece è il racconto dell’esperienza di vita dell’autore, medico e cooperante, e della moglie Raffaella in Africa. Si snoda così il diario di un “viaggio” che nel 1971 li ha portati in Uganda, ad aiutare il prossimo. Per fede e altruismo. Innovando la cooperazione allo sviluppo.
I due libri lasciano e tracciano una lunga scia, trasportandoti in mezzo a violenza, facendoti toccare con mano fame, povertà e malattia (e nel caso di Tonino anche di applicazione pratica della medicina tropicale). Due testi pervasi di forza d’animo nel far fronte alle difficoltà da superare. Volontà di dimostrare e dare coraggio al prossimo. In un mondo dove tutto ruota intorno alla speranza, a cui si affidano tanto i personaggi di Nguyen quanto Tonino. Accompagnati nella loro peregrinazione, reale e non, da amici, nemici, crescita spirituale, buddismo o cattolicesimo. Immergendosi, nel loro caso, completamente nel contesto e nel paesaggio.
“Ogni giorno, prego perché il fuoco della guerra si estingua. Allora tuo zio potrà camminare sulle ceneri di tutto ciò che abbiamo perduto e tornare a casa. Sono sicura che questo momento arriverà”, ripete la nonna alla nipote in un Vietnam rovesciato dal conflitto.
Riflette il dottor Aloi guardando indietro: “Ognuno vive la propria vita e la propria esperienza, l’importante è viverla con lealtà e passione nei propri confronti e nei confronti degli altri, seguendo, più o meno coscientemente, la vocazione che il Signore ti manda”.
Ho raccontato ad un vecchio gipsy del mare di aver visto la “battaglia” delle Andamane tra il corvo e l’aquila. Lui mi ha guardato con gli occhi scavati e scuri. Poi in inglese (senza le r) e la movenza delle mani ha descritto la bellezza dello spettacolo della “danza” delle aquile, per accoppiarsi. Dicendomi che da quel momento il legame è eterno. Ecco, Tonino e Raffaella sono due aquile che volteggiano magistralmente sopra la nostra storia.

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Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi