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STRAGE CLANDESTINA

I corpi senza vita di 46 persone sono stati scoperti ammassati all’interno del rimorchio di un camion. Il luogo dell’orribile massacro è una strada remota e secondaria non lontano dalla città di San Antonio, in Texas. Le vittime erano tutti migranti latino americani entrati illegalmente in territorio statunitense. Le cause della morte, è stata aperta un’indagine federale e il Messico ha offerto piena collaborazione, sarebbero state le condizioni inumane a cui erano sottoposti: caldo infernale e disidratazione.
Per chiarire le dinamiche del tragico evento, comunque, risulterà determinante la testimonianza dei sopravvissuti, al momento ricoverati in varie strutture sanitarie del posto. Le vittime totali saliranno a 53. Non è la prima volta che incidenti del genere accadono lungo il confine con il Messico. Nel 2017, nelle stesse condizioni morirono 10 persone e decine rimasero ferite. Nel 2003 le vittime furono invece 18. L’amministrazione Biden ha recentemente annunciato guerra alle organizzazioni criminali che contrabbandano esseri umani. Smantellare un sistema con strette connessioni politiche e legate, ovviamente, ai cartelli della droga non sarà un’impresa semplice, e tantomeno rapida.
Solo pochi giorni fa, a migliaia di chilometri di distanza dal Texas, a Melilla lungo le coste del Sahel, nella porta d’ingresso all’Europa, giacevano a terra inermi decine di migranti. Rimasti uccisi in quello che pare un caotico tentativo di sfondare le recinzioni dell’enclave spagnola. Per il premier iberico Sánchez alla base della strage ci sarebbero le “mafie” locali, che avrebbero organizzato e pianificato l’assalto, violando “l’integrità territoriale” della Spagna. Sulla dinamica concordano anche le autorità marocchine. Ma non le organizzazioni umanitari presenti, che denunciano l’uso sistematico della forza della polizia di frontiera e il grado di “disperazione” dei migranti assiepati al confine.
Il rapporto sulla tratta delle persone dell’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e prevenzione del crimine) del 2020, i cui dati si riferiscono al periodo 2016-2019, precedente quindi allo scoppio della pandemia, era alquanto istruttivo sulla situazione. A livello globale, la maggior parte delle vittime rientravano nello sfruttamento sessuale (50% nel 2018). Inoltre, si evidenziava anche la crescente percentuale di casi legati alla manodopera forzata (38%).
Trend che in regioni come l’Africa e l’Asia ha avuto un costante aumento nell’arco dell’ultimo decennio, superando abbondantemente il 50%. Mentre, circa il 6% del totale dei “clandestini” veniva sfruttato per scopi criminali: furti, coltivazione e spaccio di droga. Una forma meno comune di traffico era quella dello sfruttamento per accattonaggio. Tuttavia, 19 stati al mondo hanno segnalato questa modalità di tratta. Sempre maggiore risultava l’uso dei social media come mezzo dei “mercanti” per adescare le potenziali vittime, scelte ovviamente tra i più vulnerabili della società. La pandemia ci ha “distratto” da un problema serissimo, che in questa estate 2022 è di nuovo, purtroppo, cronaca.

MAI O NON MAI!

Il mar Mediterraneo un cimitero silente. È questa l’immagine che ci compare davanti agli occhi dopo aver assistito all’ennesima sciagura nel Canale di Sicilia. Dove i corpi di 130 migranti non ricevono degna sepoltura. Non c’è bara e nome per le vittime di questa strage infinita. Disumana.
Vergognosa non solo per Italia, Malta, Cipro, Grecia o Spagna ma per tutti gli Stati. Colpevoli di non agire, di voltarsi dall’altra parte, di non comprendere la complessità di questi eventi e soprattutto di mostrare la faccia del lato peggiore dell’egoismo. Mescolando subdola meschinità e razzismo. Viene da chiedersi, dov’è la coscienza dell’Europa? Politiche europee concrete in fatto di migrazione non ce ne sono, e non per colpa della burocrazia.
La tendenza generale che prevale è a delegare. Salvo poi trovarsi come nell’operazione Mare Nostrum e in quella Triton difronte a fallimenti scritti. L’unico indubbio successo raggiunto in questi anni è stata la campagna di criminalizzazione nei confronti di chi spontaneamente prestava soccorso. Su cui è piovuto uno tsunami di fango. Ma di azioni alla radice del problema nulla. 
Nel suo recente rapporto annuale il centro studi gesuitico Astalli sottolinea che nel mondo ci sono 80milioni di persone in fuga da guerre, carestie, dittature e povertà. Suona tragicomico, ma per quelle persone il Covid è solo un problema in più, non il peggiore. La paura per la pandemia, i lockdown e l’introduzione di misure restrittive negli spostamenti non hanno frenato i migranti e la loro Odissea. Ininterrottamente hanno continuato il loro allucinante viaggio, sfiancati, schiavizzati e umiliati. Torturati e spediti a morte certa sulle carrette del mare. Flussi migratori che si sono mantenuti costanti lungo alcune rotte indipendentemente dall’evoluzione dei contagi.
Nell’anno horribilis verso l’Italia abbiamo avuto un aumento (34mila in più) di arrivi via mare. Nel 2020 sono stati oltre 10mila i migranti intercettati e consegnati alla Libia, per finire in detenzione, in condizioni “inaccettabili”. Nell’arco dello scorso anno le vittime accertate nella traversata tra le spiagge africane e le coste italiane sono state poco meno di 1500. Dal 2014 sarebbero “almeno” 23mila i morti. Circa 400 dall’inizio del 2021. Restare impassibili non è meno sconcertante di coloro che avevano solennemente promesso che non si sarebbero “mai più ripetute scene di migranti dispersi in mare”, giuramento che pronunciarono tanto l’allora presidente della Commissione europea e quello del Parlamento europeo, quanto illustri ministri del nostro governo.
Belle parole, solo parole. Oggi, l’interesse primario dell’Europa è giustamente rivolto alla ripresa sociale ed economica. C’è tuttavia qualcuno che non dobbiamo escludere dal programma di rinascita. Sono coloro che abbiamo dimenticato nell’inferno delle prigioni libiche, stipati nelle carovane nel deserto, nei campi profughi, smarriti in un Continente dalle mille criticità. E che riceve troppo poco aiuto. Esempio, anche questo, di un’epoca segnata dalla disuguaglianza.

LE TOMBE DI ZARZIS

Le spiagge della Tunisia sono diventate un magnete per migranti e trafficanti. Nelle acque di Zarzis i cadaveri di sventurati clandestini galleggiano alla deriva da giorni, come drammaticamente ha svelato un reportage del quotidiano britannico the Guardian. Rifugiati e migranti che ha ammonito papa Francesco durante l’udienza con la federazione internazionale delle Università Cattoliche: “hanno il diritto a non essere costrette ad emigrare”. In questi mesi gli sforzi internazionali, italiani in primis, in Libia hanno prodotto lo spostamento a sud di Tunisi della rotta principale del traffico di esseri umani. Mentre lo sguardo era rivolto al Sahel libico, poco distante, la tratta trovava un nuovo punto d’imbarco. Il flusso per l’Italia dalla Libia, interrotto durante l’estate, è ripreso con intensità dalla Tunisia. Il “tappo libico” è stato un risultato attribuibile a vari fattori: i rapporti di cooperazione con alcune municipalità della Tripolitania, il maggiore impegno della guardia costiera libica che avrebbe fermato il 60% dei gommoni, una parziale intesa con il generale Haftar, un accordo indiretto con la milizia filogovernativa che controlla il porto e il contrabbando a Sabratha. In un contesto dove spadroneggiano gruppi criminali che hanno potere assoluto di vita e morte, agendo nella più totale impunità. Proprio il ruolo del clan Dabbashi a Sabratha è stato al centro di critiche, sopite dal fatto che il suo esercito privato è stato, in passato, un prezioso alleato di al-Serraj e del suo esecutivo, unico governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Gli uomini di Dabbashi hanno attivamente partecipato alla caduta di Gheddafi, instaurando nella regione una potente e combattiva milizia. Per mantenere ed espandere la propria posizione di forza i Dabbashi hanno dovuto scontrarsi con i rivali di al-Wabi, che costituiscono la cellula più importante dell’Isis nella zona. Storie di ordinaria guerra tra famiglie mafiose all’ombra del terrorismo islamico. Lotte intestine destinate a mettere in campo nuovi soggetti e allargare la violenza nel Paese. Peggiorando la situazione di migliaia di migranti a rischio di morte e schiavitù, che da settimane si ammassano lungo il confine tra i due stati del Maghreb, intrappolati in condizioni disumane. Complessa e caotica è anche la situazione nella ex colonia francese, dove la tensione è tornata ad essere palpabile: bassi salari, forti disuguaglianze e corruzione. In Tunisia un terzo dei giovani laureati è disoccupato. L’industria turistica stenta a decollare. Nelle zone montane più isolate è particolarmente diffusa la povertà e la presenza di terroristi. Interi villaggi sono senza protezione della polizia: rifugi sicuri per il transito di gruppi jihadisti. Non meno complicata la situazione politica. Il Presidente della Repubblica ha firmato la legge che accorda l’amnistia a tutti i funzionari che hanno avuto un coinvolgimento nel sistema di corruzione del regime. Facendo insorgere l’opposizione e le organizzazioni non governative per i diritti civili. Una serie di episodi che danno il senso del revanscismo in corso, la fine del cambiamento da molti auspicato. E l’inizio per molti di un nuovo sogno, all’estero. La presenza massiccia di maghrebini nei barconi diretti in Sicilia e Sardegna lo dimostra. Giovani algerini, tunisini e libici sono una presenza costante nei viaggi. Molti di loro non arriveranno a destinazione. Come testimoniano i volontari della Mezzaluna Rossa che operano a Zarzis, dove giornalmente seppelliscono i corpi di migranti restituiti dal mare. Un ultimo gesto di pietà, dare una tomba a chi non ha nemmeno un nome. In un piccolo appezzamento di terreno fuori dalla città, ai bordi di un’oliveto avviene la sepoltura, in modo informale. Una fossa nel terreno. Il cimitero di Zarzis è composto da tanti cumuli di sabbia. Impedire che altre buche vengano scavate ancora è un’emergenza che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve affrontare, per il mese di novembre la presidenza è all’Italia.

L’ASTENSIONE FRENA I MURI DI ORBAN

Il vento dell’illusione populista soffia sulla crisi internazionale ma con meno intensità, anche se le isterie xenofobe evidenziano il doloroso vuoto dell’azione degli stati membri dell’Ue nell’affrontare l’emergenza migranti: ancora una volta gli interessi dei singoli prevalgono sulle scelte d’indirizzo comunitario, sul diritto umano e la solidarietà. In un quadro politico disgregato e febbricitante i valori che hanno portato alla costruzione della casa comune si sfaldano difronte a piccoli numeri: le quote dei migranti da distribuire tra i paesi diventano strumentalmente oggetto di una diatriba apparentemente irrisolvibile. L’Ungheria per “fermare” il piano di accoglienza di Bruxelles ha scelto il passaggio referendario, chiedendo ad oltre 8milioni di elettori di esprimersi: “Vuoi che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento?”. Promotore del NO il governo di matrice nazionalista guidato da Viktor Orbàn. L’opposizione ha preferito, invece di appoggiare il SI, invitare gli elettori a disertare le urne per non raggiungere il quorum. Giocando la partita, per invalidarlo, della soglia d’affluenza inferiore al 50%. I dati, poco sopra il 43%, hanno punito Orbàn e il risultato finale ha ribaltato l’esito scontato iniziale. Tuttavia, il referendum nasceva con un doppio vizio di forma: la possibilità per ciascun stato di ritagliarsi uno spazio esterno rispetto alle decisioni di Bruxelles e la facoltà arbitraria di lasciare alla porta chi chiede aiuto. In Ungheria, i contrari alla convocazione popolare hanno sostenuto la tesi che si è trattato di una mossa politica del governo per “distrarre” l’opinione pubblica dai fallimenti e dal perdurare della crisi economica. La schiacciante vittoria, seppur non plebiscitaria, del fronte del NO pone Viktor Orbàn come punto di riferimento nel campo dell’estrema destra europea ma lo ridimensiona agli occhi della sua gente. Il primo ministro ungherese a differenza del britannico Nigel Farage non ha nessuna intenzione di uscire dall’UE o cavalcare l’ondata secessionista, gode di maggiore popolarità del collega e, al contrario del fondatore dell’Ukip, mira a rafforzare il suo peso negli assetti del Vecchio Continente. Orbàn propone la costruzione di una nuova Europa salvando i simboli peggiori della vecchia, propaganda l’alternativa illusoria dell’isolamento, aspira a sostituire la democrazia liberale di Roma, Atene, Parigi e Berlino con la politica reazionaria di Budapest. Teorizza un rigido e antistorico processo di “controrivoluzione culturale” del continente, introducendo un modello che prediliga l’avvento dell’uomo forte al potere. Segue l’esempio della deriva antidemocratica di Vladimir Putin in Russia e di Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E ovviamente ammira Donald Trump, icona di un futuro attraversato da deprimenti muri in stile Legoland con l’aggiunta di filo spinato e sorveglianza armata. «La politica estera sostenuta dal candidato repubblicano Trump è un bene per l’Europa e vitale per l’Ungheria». Quella di Orbàn è la più classica, e scontata, recrudescenza populista: “i migranti sono un veleno di cui non abbiamo bisogno”. Purtroppo un sentimento razzista illogico che in questi tempi si diffonde rapidamente e trasversalmente nei paesi sviluppati e democratici, infuocando le campagne elettorali. La destra europea più estrema si innamora, inebriata dalla retorica antica e dalle politiche visionarie, di questo leader autoproclamatosi “custode delle frontiere” della cristianità. Fautore di una disciplina organica per il respingimento dei flussi migratori, distruttore della sinistra e catalizzatore della destra. Una luce effimera che non ha, per fortuna, raggiunto il quorum. I cittadini ungheresi si sono svegliati dal torpore ed hanno fermato una deriva dannosa, accendendo il semaforo rosso per i Trump di mezzo mondo.

MIGRATION COMPACT OPPURE?

Chiuso il campo profughi di Idomeni in Grecia. Sgomberati i 9 mila migranti che in questi mesi hanno tenacemente resistito, con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie, in attesa di passare il confine per la Macedonia, vivendo in condizione non facili. Sorto spontaneamente nel 2014 quando la rotta balcanica divenne “un’autostrada” trafficata da profughi siriani. Idomeni è nel corso dei mesi divenuto un imbuto sempre più stretto, e l’insediamento che avrebbe dovuto essere temporaneo si è trasformato in un accampamento di tende e materassi. Idoneo ad accogliere 2 mila persone e non certo le quasi 10 mila ammassate fino a pochi giorni fa. Tra fango ed emergenza sanitaria. Tra rabbia e delusione, si allontana per molti la possibilità di potersi ricongiungere con i parenti nel Nord Europa. Con rassegnazione in molti sono saliti sui pullman destinazione Salonicco, ad attenderli i centri di identificazione, altri invece si sono mossi con mezzi di fortuna sparpagliandosi nel nord della Grecia. Il viaggio della speranza, e del dolore, non è ancora finito. Se è unanime il giudizio per cui Idomeni andava chiuso, il problema di fondo resta: Idomeni è esistito, è inutile nasconderlo. E il problema dei profughi è tutt’ora una emergenza drammaticamente in essere. Sfortunatamente le barriere hanno vinto, segnando uno dei momenti più cupi della storia dell’Europa contemporanea. Il grido di tormento di migliaia di persone in fuga da guerre e povertà è stato ammutolito. Le vite dei migranti sono state demonizzate in modo sprezzante. Il loro diritto ad un mondo migliore calpestato. Il vento dell’intolleranza e scelte politiche sbagliate segnano profondamente il nostro tempo, nel proliferare di una dialettica ideologizzata che tende inesorabilmente verso l’inasprimento del confronto tra popoli, invece di promuovere civile attenzione all’incontro tra culture diverse. A Idomeni l’unico rumore che risuona in queste ore è quello delle ruspe e dei camion, per il resto è silenzio, vuoto e desolazione. Di realtà come Idomeni ne esistono tante sparse in tutto il mondo, ci sono Kakuma e Dadaab. I due più importanti campi profughi del Kenya, che secondo quanto annunciato dal governo di Nairobi verranno presto chiusi. In Kenya ad oggi risiedono, secondo fonti dell’Unhcr, oltre 600 mila somali giunti a partire dal 1991, anno dell’inizio della guerra civile nel Corno d’Africa. 350 mila sono “ospitati” nel campo profughi di Dadaab. Una città nella città. Ad Aprile nel Paese è scattata la revoca ai cittadini somali dello status di rifugiati “a prima vista”, che prevedeva la protezione umanitaria immediata fuori dai confini nazionali. Purtroppo, in questi anni, a complicare un contesto già fragile ha avuto un peso determinante l’insorgere della violenza terrorista, affiliati al gruppo islamico di Al Shabaab si sono ripetutamente infiltrati in Kenya per compiere atroci attentati. Vittime della vendetta fondamentalista spesso sono stati proprio i profughi somali in fuga. Oggi per rifugiati somali c’è un bivio mortale: restare in Kenya senza aiuti, alloggio, cibo, medicinali oppure intraprendere la via del ritorno, con i rischi di rientrare in un paese non ancora rappacificato. La scelta, qualunque essa sia, è probabilmente un suicidio collettivo. La reazione internazionale a questa spaventosa prospettiva non c’è, la diplomazia per l’ennesima volta è divisa, eclissandosi. A Istanbul il summit sulla questione umanitaria mondiale, il primo, è stato un fiasco totale per passività e remissività decisionale. Con la Turchia di Erdogan a lanciare teatrali accuse e minacce all’Europa. L’ennesimo vicolo cieco della comunità internazionale in una sede poco indicata eticamente per una conferenza di tale portata. Mentre assiepati nei barconi della morte in migliaia salpano in continuazione dalle coste libiche, per poi capovolgersi o inabissarsi nelle acque del canale di Sicilia. I naufraghi più fortunati sono tratti in salvo dalle navi della flotta “umanitaria”, in una azione di soccorso senza sosta. Al G7 di Ise Shima in Giappone i grandi della Terra hanno convenuto di aumentare l’assistenza globale ai rifugiati e la cooperazione allo sviluppo, incoraggiare l’ammissione temporanea e gli schemi di ricollocamento. Ad oggi l’unica soluzione plausibile sulla carta è il Migration Compact.

LA CATASTROFE UMANA

Un viaggio “triste” quello di papa Francesco nel Mar Egeo, sull’isola di Lesbo, nel luogo simbolo del dramma dei profughi: “la catastrofe umana più grande dalla Seconda Guerra Mondiale”. Un pellegrinaggio lampo per lanciare un messaggio di accusa al paradigma della politica europea. Lui che sulla questione dei migranti non ha mai smesso di pronunciare parole forti, coraggiose, sopra le righe, lanciando a ripetizione martellanti richiami, inascoltati dai potenti del mondo, “insensibili”, sino ad oggi, alla sua catechesi, alla sua rivoluzionaria visione. Significativo il tweet lanciato poco dopo il decollo: “I profughi non sono numeri, sono persone: volti, nomi, storie, e come tali vanno trattati”. Da giorni sull’isola sono in corso le operazioni di espulsione verso la Turchia dei migranti non regolari, in base ai recenti, discussi e discutibili, accordi previsti dall’Ue con Ankara. La maggior parte dei “respinti”, non in possesso di domanda di asilo politico dalla Siria, provengono dal lontanissimo Pakistan, per loro un lungo calvario che dalla “terra dei puri” li ha condotti alle acque del Mare Nostrum nella speranza di entrare in Europa, e che invece sono in attesa di essere “impacchettati come merce” per un triste viaggio a ritroso, “scambiati” con profughi di altra provenienza. La macchina burocratica dei respingimenti, paradossalmente, procede con lentezza a causa della mancanza di personale in grado di svolgere le procedure di espulsione. Mentre molti isolani da mesi compiono semplici, teneri e silenziosi atti di umana generosità. Più rumorosa la protesta degli attivisti dell’associazionismo nel tentativo di fermare le navi pronte a salpare verso la Turchia, paese terzo definito sicuro ma che non riconosce la Convenzione di Ginevra. A Lesbo e nel Continente in queste ore la civiltà europea è investita dal dilemma paura o solidarietà. La forza morale e storica della fratellanza è coltivata dal pontefice che professa il vangelo dell’accoglienza, della misericordia, “delle periferie”. Attraverso gesti di denuncia non convenzionali che trascendono le sottigliezze dei protocolli diplomatici e delle delicate relazioni interreligiose, che lo portano nella realtà del campo (hotspot) di Moria a stringere mani, ascoltare, abbracciare, asciugare le lacrime, dividere il pasto con i profughi. Giovani pakistani, siriani, iracheni, curdi e yazidi affollano le transenne e applaudono il passaggio del Santo Padre, espongono scritte che si commentano da sole: «Libertà». «Aiuto». «Per favore salvateci». E lui risponde: “Non siete soli. Porto con me il vostro dolore”. Cammina, fianco a fianco, “fraternamente” con l’arcivescovo di Atene Ieronimos II e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. Oltre lo scisma e i dibattiti teologici pregano insieme per le vittime nel cimitero del Mediterraneo, condividono i flash dei fotografi, lanciano congiuntamente un appello urgente alla comunità internazionale, appongono la propria firma ad una dichiarazione ecumenica. Sullo sfondo un’intesa storica, l’unità tra le chiese cristiane nell’obiettivo di mobilitare l’opinione pubblica mondiale sulla situazione delle comunità arabo-cristiane, la minoranza invisibile del Medioriente, vittime della violenza del fondamentalismo islamico: “costruire la pace là dove la guerra ha portato distruzione e morte”. Anche l’Europa è chiamata in causa, in alcuni Stati dell’Unione prevalgono frontiere e fortezze, una mappa frastagliata di ostacoli che relegano gli accordi di Schengen a carta straccia, un elenco di muri e filo spinato: Idomeni, Ceuta, Melilla, Vyssa, lungo i confini di Bulgaria e Ungheria, provvisorie e immateriali barriere riguardano Ventimiglia e Calais. Ed infine, il caso del varco del Brennero tra Italia e Austria. In tanta divisione l’aereo di papa Bergoglio, in perfetto orario e stile, imbarca 3 famiglie di profughi siriani, destinazione Roma: “L’Europa sia patria dei diritti non respinga i migranti”.

RESPONSABILITA’ O UMILIAZIONE?

“No all’indifferenza” non si stanca di ripetere Papa Francesco ai fedeli. Questa volta però le parole d’accusa pronunciate dal pontefice durante la Messa nella domenica delle Palme hanno come destinatari le istituzioni europee: “ penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Parole pronunciate a braccio che segnano uno scollamento tra la Santa Sede e l’Ue. Piazza San Pietro non è le stanze di Bruxelles e sul sagrato non si plaude al nuovo piano sui migranti, al contrario la Chiesa di Roma alza la voce, la protesta. Ci aveva già pensato il segretario di stato cardinale Parolin, visitando un campo profughi in Macedonia, a tuonare contro l’accordo Europa-Turchia: “dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto”.

Ragioni e implicazioni invitavano a valutare attentamente le richieste turche. Alla fine tra i 28 leaders europei ha prevalso la linea di Berlino anche sull’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Pesanti critiche sono state espresse, in queste ore, da parte di molte Ong che invocano a gran voce maggiore solidarietà e rispetto dei diritti umani: ad alimentare il dibattito l’opzione stilisticamente “burocratica” di Bruxelles del baratto “uno per uno” e un piano che realisticamente deve essere messo alla prova. Così come l’affidabilità e la maturità della Turchia di Erdogan. Intanto dalla Grecia arriva la notizia di altri sbarchi e soprattutto che Atene non è assolutamente pronta a rinviare in Turchia i migranti. Partenza con il piede sbagliato che evidenzia, ad ora, l’impossibilità europea ad offrire una soluzione umanitaria all’emergenza.

In cinque anni di guerra civile la Siria ha originato una massa di rifugiati impressionante, oltre quattro milioni sparsi lungo tutto i confini dei paesi del Mediterraneo. Un flusso continuo che si è riversato, in gran parte, negli stati confinanti: Turchia, Libano e Giordania. Circa il 4% dei rifugiati siriani invece ha intrapreso il viaggio verso l’Europa. Molti sono oggi accampati nelle tendopoli dei campi profughi, il resto ha scelto le periferie delle città del Medioriente, da Amman a Beirut. Dove illegalmente e pagati poco trovano lavoro come bassa manovalanza nel settore manifatturiero, privati di assistenza e senza l’aiuto internazionale. Marginalizzati e sfruttati. In contesti socio-abitativi insostenibili. La richiesta più volte espressa dall’ONU di fare il possibile per integrare i rifugiati nella società turca, libanese e giordana non ha ottenuto esito favorevole. Respinta da parte dei tre governi che hanno obiettato forti resistenze, esprimendo un giudizio caustico: i rifugiati sono un elemento di pericolosità per essere assorbiti, in contesti particolarmente fragili alle turbolenze etniche. Secondo le ultime stime sono 60 milioni nel mondo gli sfollati, uno su sei è siriano. Tra loro una larga presenza di giovani, istruiti e con specifiche competenze tecniche, una generazione intera. Non una minaccia alla sicurezza internazionale ma un nuovo potenziale mercato del lavoro in grado di generare opportunità e positive ricadute economiche, come accadde per i migranti europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per l’Unione Europea la crisi di Damasco è un bruciante fallimento su tutti i fronti, dalla gestione dei rifugiati alla stabilizzazione della regione. Il volume di persone che il persistere ancora per anni della crisi siriana potenzialmente potrebbe “sparpagliare” fuori dai suoi confini, indirizzandoli verso il Vecchio Continente, è considerevole. Il “panico e la paura” di veder arrivare una marea umana hanno convinto gli stati europei ad approvare il pacchetto di misure fortemente voluto da Erdogan, nell’ottica che la Turchia possa tamponare l’esodo dei migranti. Peccato che potrebbe, invece, continuare a bombardare i curdi.

LO SCHIAFFO DI ERDOGAN

Nel vertice di Bruxelles l’Unione Europea e la Turchia hanno trovato un accordo generale, ma solo nei principi, sul piano per alleviare la crisi dei migranti. Forti perplessità sono state espresse dall’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), che ravvede violazioni al diritto internazionale, e la decisione finale è stata posticipata al 17 marzo a causa dei nuovi diktat presentati da Ankara. Il governo presieduto da Ahmet Davutoglu ha alzato l’asticella delle richieste, una prova di forza: costi per il rientro dei migranti irregolari in suolo turco a spese degli europei, per ogni siriano riammesso un’altro profugo smistato in un paese dell’Unione. Inoltre l’Europa dovrà erogare altri 3 miliardi oltre ai 3 stanziati per il fondo rifugiati. Libera circolazione per i cittadini turchi, sollevando l’obbligo di visto e accelerare i negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa. L’ultimo punto, uno schiaffo all’Europa, è il più difficile da digerire per le ripetute inadempienze sui diritti umani e la libertà di stampa. In ultimo il caso del giornale Zamana la cui linea editoriale è stata “ammorbidita” con l’uso della polizia. La Turchia, a lungo fedele alleato degli Stati Uniti e membro strategico della NATO, ha svolto un ruolo fondamentale e delicato nella difesa dell’Europa e del Medio Oriente sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Teatro del conflitto della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica ieri e della guerra civile siriana con l’ingerenza Russa oggi. Una potenza con carattere deterrente in grado di frenare qualsiasi mira espansionistica in Medioriente. La presenza della Turchia nella NATO è fondata su un principio di reciprocità: la Turchia mette a disposizione le strutture logistiche nel suo territorio, mentre il blocco degli alleati occidentali fornisce tecnologie e assistenza militare ed economica. Il patto di ferro è andato scricchiolando con l’aggravarsi dello scenario siriano e per l’impegno bellico di Ankara in Siria: attualmente l’esercito turco ha aperti due fronti di guerra. Ha trasformato le città curde nel sud-est della Turchia in zone militarizzate, nello sforzo di rimuovere i militanti indipendentisti curdi presenti in quella regione. E ha lanciato attacchi con intensivi bombardamenti contro le forze curde nel nord della Siria. La lotta all’eterno nemico curdo ha convinto Ankara ad intavolare segrete, nemmeno troppo, alleanze con gruppi fondamentalisti islamici. È di pochi giorni fa la pubblicazione di un documento ufficiale, la cui autenticità non è ancora stata tuttavia riscontrata, che dimostra il sostegno della Turchia al transito dei foreign fighter. Il ministero degli interni avrebbe fornito le disposizioni per l’appoggio logistico ai jihadisti ceceni e tunisini di Jabhat al-Nusra, da utilizzare in chiave anti curda in territorio siriano. La denuncia dei legami con l’Isis ha provocato in questi mesi non poche grane al governo turco che ha risposto alle critiche internazionali con censure alla stampa interna: il direttore Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul del quotidiano Cumhuriyet sono sotto processo per aver pubblicato fotografie di convogli mentre trasportano, probabilmente, armi dalla Turchia ai jihadisti. I due giornalisti rischiano la pena dell’ergastolo. Nella “classifica” sulla libertà di stampa, stilata da reporter senza frontiere nel 2015 in 180 paesi, la Turchia è al 149° posto. Le organizzazioni non governative denunciano che più di 30 giornalisti sono attualmente detenuti in cella, giornalisti terroristi l’accusa. Nelle elezioni del 2002 molti analisti plaudirono alla pluralità partitica presente nello scenario turco, espressione, si pensava, di una transizione democratica. L’ascesa di Erdogan e del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo Islamico-conservatore (AKP) chiudeva il lungo periodo kemalista. L’AKP smantellò il sistema di controllo del potere dell’esercito, introducendo normative atte a ridimensionare l’influenza politica della gerarchia militare. Ebbene, quello che pareva un processo di democratizzazione e civiltà oggi merita attenta riflessione prima di tutto di quella Europa che deve decidere l’ingresso della Turchia nella sua Comunità.