RE BIBI SENZA TRONO

Israele torna al voto. Sciolto il parlamento insediatosi dopo il risultato delle elezioni del 9 aprile scorso. Tempo scaduto per Netanyahu che aveva mietuto l’ennesimo parziale successo elettorale, 35 seggi conquistati su 120. Alla pari con l’antagonista ed ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ma a differenza del suo avversario con la possibilità di imbastire una larga coalizione includendo l’estrema destra e i partiti religiosi. Per questo motivo aveva ricevuto come da consuetudine il mandato esplorativo, la strada era spianata e quella che sembrava una pura formalità è degenerata complicandosi in poche settimane. Le consultazioni post elettorali si sono trasformate in un tormento per il premier. La causa del fallimento diplomatico del falco della politica israeliana è il frutto di un teso confronto ideologico all’interno della destra sulla laicità dello stato. Veleni che sono riemersi nello scontro sull’approvazione della legge per la coscrizione obbligatoria degli studenti delle scuole religiose promossa da Avigdor Liberman (già ministro della difesa del precedente governo) e contestata dai partiti religiosi: Shas e UTJ. Movimenti politici che rappresentano le principali famiglie dell’ortodossia ebraica, contano ciascuno 8 seggi in parlamento e sono l’indispensabile ago della bilancia delle geometrie di Netanyahu. Il rifiuto all’apparentamento di un inamovibile Avigdor Liberman, leader del partito nazionalista e russofono Yisrael Beytenu (5 seggi nella XXI Knesset), è un’amara presa di coscienza per il premier israeliano: quadratura del cerchio da rifare. Sfumato, per ora, il sogno di insediarsi per la quarta vola consecutiva sul trono di Israele. E allora, il leader populista del Likud pur di non lasciare campo di manovra al presidente Rivlin, consentendo una chance a Gantz per verificare un eventuale governo di responsabilità nazionale dalle larghe intese, ha voluto con un corsa contro il tempo che il parlamento votasse per la sua dissoluzione, terminando questa legislatura lampo, nata sotto una cattiva stella.

MAY-END

In Gran Bretagna il risultato delle elezioni europee che, scherzo del destino, non avrebbero dovuto svolgersi, saranno resi noti solo nella serata di domenica. Intanto, si è consumato l’atto conclusivo del melodramma politico di Theresa May. La premier in lacrime, dopo aver comunicato alla Regina la sua decisione, ha annunciato pubblicamente le dimissioni, a decorrere dal prossimo 7 giugno. Una parabola, quella della ormai ex primo ministro, segnata da congiure, fantasmi e giullari. Con il ritorno in scena di Nigel Farage, il cantore del divorzio del secolo, saltimbanco populista, fondatore del partito Ukip e tornato in corsa con una nuova forza politica da lui inventata: Brexit party. Nome semplice. Favorito nei sondaggi che lo danno come primo partito del Regno Unito. La sua campagna elettorale è stata contrassegnata dalla protesta dei frullati, milkshake, che gli hanno lanciato contro i contestatori nelle varie piazze del suo tour elettorale. La sua travolgente cavalcata al successo è la dimostrazione che i britannici sono talmente esasperati, dall’incapacità fallimentare della classe politica di trovare un accordo con l’UE, da affidarsi al primo demagogo e personaggio ambiguo di turno. Nell’esito dalle tinte grigie di questo voto dalle tante polemiche aleggia poi lo spettro di Jeremy Corbyn, leader laburista che ha smesso di brillare, perdendo popolarità e consensi (per gli exit poll è al 15%). Se non vuole diventare l’ennesimo fantasma mancato della sinistra deve cercare di riprendere gli elettori in fuga verso i liberali filo Bruxelles (stimati al 20%). Infine, lei Theresa May, il primo ministro sbagliato al momento sbagliato, durante il suo mandato ha perso la bussola ed è finita nel labirinto, colpita e affondata più volte a Westminster, con un governo che gli è si ribellato contro ed ha complottato per spodestarla. Isolata, derisa e pugnalata alla schiena. Emblema di resistenza estrema, eroina della resilienza, alla fine ha ammesso di non essere in grado di andare avanti. Ce ne eravamo accorti da tempo. Ora nelle file dei conservatori è bagarre tra le varie correnti, la lista dei pretendenti per insediarsi al numero 10 di Downing street è ampia, per la May è iniziato il tempo del trasloco.

TREGUA

Medioriente. Storie di normalità paradossale. Dalla Striscia di Gaza piovono su Israele centinaia di razzi, provocando il panico tra la popolazione della regione mediorientale del Paese. L’esercito con la stella di Davide risponde con i caccia dell’aviazione, colpendo le strutture militari di Hamas, coinvolti nei bombardamenti anche i civili. Ore di tensione e spirale di violenza. Morti da entrambi gli schieramenti. Le Nazioni Unite invitano alla calma, il presidente Turco Erdogan accusa apertamente di terrorismo Israele, Trump al contrario lo difende schierandosi al suo fianco al 100%. Tregua. Pare. Sospensione delle ostilità siglata grazie al lavoro svolto sul campo dalla Mukhabarat, i servizi segreti del Cairo. È una nuova pagina dell’eterno conflitto tra i due popoli, asimmetrico o meno negli ultimi dieci anni si sono svolte tre guerre (2009, 2012 e 2014) e un numero impressionante di “schermaglie”. La guerra, l’ennesima, è dietro l’angolo. La pace, se di pace si possa mai parlare, è appesa ad un filo. Tenue. In gioco troppe varianti: Israele è alla vigilia della ricorrenza della sua nascita (che coincide con la nakba, l’inizio della catastrofica disavventura palestinese) e nel bel mezzo della formazione del prossimo governo, la maggioranza uscita dalle elezioni del 9 aprile ha dato mandato, riconfermandolo, a Netanyahu per la formazione dell’esecutivo. Per dar vita ad un governo solido (con più di 61 dei 120 seggi) il falco della destra necessita tuttavia dell’appoggio del partito nazionalista Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, ministro della difesa dimissionario per divergenze con il premier proprio sulla questione della gestione della crisi di Gaza lo scorso novembre. Il grattacapo di Netanyahu, in queste ore, è se fare un passo indietro e offrirgli nuovamente quel dicastero, in una fase così altamente delicata. L’altra variabile è dal lato palestinese la jihad islamica, organizzazione terroristica responsabile del massiccio lancio di missili, longa manus dell’Iran e ai ferri corti con Hamas, per la spartizione dei fondi promessi dal Qatar. Sono una scheggia impazzita, e pericolosa, in un contesto già caldo.

SERGIO MINERBI (1929-2019)

Gerusalemme. Sabato 9 ottobre 2010, sera. Il cellulare suona. Una voce chiara e squillante pronuncia la parola di rito: shalom. Rispondere con shalom Shabbat è d’obbligo, forse bastava anche solo un semplice e cordiale shalom, ma un certo imbarazzo e riverenza nei confronti del nostro interlocutore ci lascia spiazzati e goffi, almeno durante questa prima telefonata. Dal cellulare posizionato sul vivavoce arrivano chiare le indicazioni: “Dunque, proseguite sulla Sha’arel Yerushalayim, fate attenzione al limite di velocità, ci sono gli autovelox. Quindi, arrivati all’altezza del ponte di Calatrava dovreste trovarvi sotto il tunnel e state per sbucare nella Sderot Menahem Begin, la strada diventa a tre corsie, tenetevi sulla destra, moderate la velocità se non volete prendere una multa salatissima. Seguite i cartelli per Ramat Beit Hakerem, lasciata la Begin proseguite sulla Shmuel Beyth, svol- tate a destra in Avizoha all’altezza del centro medico e ancora a destra in Moshe Kol. Non vi impressionate, non vi ho dato la mappa per uscire da un labirinto ma solo la via più facile e breve per arrivare a casa mia. Secondo i miei calcoli e visto il traffico di post shabbat ci vorranno 16 minuti, se ci mettete di più vuol dire che vi siete persi, allora chiamatemi”.
Il quartiere e tra i più moderni di Gerusalemme ovest, a metà strada tra la Knesset e il museo dello Yad Vashem, pulito e poco rumoroso, palazzine di recente costruzione, confortevoli abitazioni ad uso delle classi più agiate e meno ortodosse. Ad attenderci Sergio Minerbi, nato a Roma nel 1929, a 18 anni emigrato in Israele. Diplomatico, scrittore e giornalista, collaboratore del quotidiano Haaretz, è stato inviato della Rai e del Sole 24 Ore. Eravamo molto curiosi ed intimoriti di conoscerlo anche perché sapevamo della sua famosa verve polemica. Sergio Minerbi e sua moglie Hanna ci accolgono nella loro casa mentre stanno consumando una parca cena, sediamo dinanzi a loro a tavola con la telecamera ed il taccuino pronti, un po’ emozionati, raccogliamo la storia della loro vita.
“Presi la decisione di venire in Israele giovanissimo. Eravamo appena usciti dalla Seconda guerra mondiale, i gipponi degli americani con la grande stella bianca sui fianchi, attraversavano una Roma deserta e devastata dai bombardamenti. In una Roma senza trasporti, senza acqua e senza servizi essenziali, ho ospitato nella grande casa dei miei genitori in via Ravenna molti soldati ebrei, con i quali avevo delle lunghe conversazioni. In quel periodo frequentavo la Sinagoga di via Balbo, dove c’era un centro per giovani sionisti. Aderì all’organizzazione Halutz. E così sono arrivato in Israele, la Palestina di allora, con l’idea, già predeterminata di andare in un kibbutz e non in uno a caso, ma in uno della Hashomer Hatzair. Per fortuna avevo dei parenti a Gerusalemme dove alloggiavo, altrimenti la situazione sarebbe stata piuttosto difficile. Nessuno mi diceva in quale kibbutz andare e rimandavo la decisione di settimana in settimana. Ero solo e questo rallentava la mia collocazione. Nei kibbutzim (plurale di kibbutz) erano abituati a ricevere solo gruppi. In quegli anni era così, le autorità del kibbutz predisponevano l’ingresso di gruppi per lo più omogenei che andavano ad integrare i nuclei già presenti nel kibbutz, non il singolo. Alla fine mi hanno mandato al kibbutz Eilon, al confine con il Libano, dove ho incontrato mia moglie. Era il 1947. Finalmente appartenevo ad un gruppo, questo agognato gruppo.
Un mese dopo ci siamo trasferiti nel kibbutz di Ruhama, dove all’inizio eravamo alloggiati presso gli anziani. Notai subito che c’era una radio ad onde corte, stava lì inutilizzata. Il 29 novembre del ‘47 mi sintonizzai per seguire la trasmissione sul voto alle Nazioni Unite, scrissi i risultati su una busta che ancora conservo, contando dieci no, trentatré sì e alcuni astenuti, sono stato io a dare l’annuncio che finalmente nasceva il nostro Stato, Israele. Ricordo che dalla mezzanotte all’una abbiamo danzato, ma poco prima di andare a letto hanno distribuito i fucili, spiegandoci come inserire le pallottole e ci hanno mandato a perlustrare la zona. Per noi iniziava la guerra. E così siamo andati avanti per quei primi mesi.

Il kibbutz era il sogno della vita. Ci sono andato perché mi sembrava, soprattutto nel ‘47, che in quel momento il kibbutz avesse molti compiti da eseguire. Non solo era la realizzazione dell’ideale pionieristico di lavorare la terra, ma dal punto di vista della difesa nazionale era di strategica importanza. Se abbiamo vinto la guerra nel ‘48 è, per molti aspetti, grazie ai kibbutzim, dove le reclute sono state formate, dove c’era una dedizione assoluta alla causa. Gli ordini erano eseguiti senza che ci fossero gradi e senza che ci fossero gli orpelli del militarismo, e questo era consono ai miei gusti. Il kibbutz dal ’47 al ‘49, era un avamposto militare di primissima categoria e la mappa dei kibbutzim è stata poi quella che ha determinato in parte i confini dello Stato di Israele. Penso che il kibbutz avesse la sua raison d’être nel costituire uno Stato ante litteram, cioè un’entità israeliana, prima che esistesse un governo, perché rispondeva a una necessità immediata, assoluta, occupare il territorio. Tutte queste considerazioni oggi le devo riesumare dai miei ricordi, all’epoca erano evidenti, lapalissiane. Le peculiarità del kibbutz iniziano ad esaurirsi direi nel ‘49, con la firma degli accordi armistiziali, l’esercito si organizza come un’entità strutturata, si cristallizza. E il Palmach (forze di combattimento regolare degli insediamenti ebraici) viene sciolto. Il kibbutz sostenendolo ha permesso al Palmach di crearsi, di vivere e di svilupparsi, ne consegue che il giorno in cui il Palmach non fosse stato più la mano destra dei governanti, anche chi lo sosteneva non aveva più la stessa funzione.
Intanto nel 1949, vengo mandato in Italia, restandoci un anno. Un anno esaltante, di intenso lavoro di spionaggio: la mia missione era impedire il traffico di armi per gli stati vicini. Trovarle in tempo e giustamente eliminarle. Ci ho messo del mio e in vari episodi le armi non arrivarono mai a destinazione.
Lasciammo il kibbutz di Ruhama subito dopo la guerra del Sinai, nel ‘56. Cominciai a fare tutti i mestieri possibili e immaginabili, senza scartarne alcuno. Mi adoperavo nelle traduzioni per opuscoli turistici in italiano, poi qualcuno mi fece le scarpe e cominciò a farli lui, ma intanto io ero sopravvissuto ed era già molto. Siccome nel kibbutz avevo messo su un piccolo museo archeologico, e quindi mi sentivo ferrato in archeologia, sono andato subito a dare l’esame di guida turistica, portando a spasso parecchia gente. Allora, ho avuto l’opportunità di iniziare a scrivere su dei giornali italiani diventando dopo poco corrispondente della Rai.
La mia grande sfida è il ‘57 con la firma del trattato di Roma. A Gerusalemme, con una moglie, una figlia, e forse dieci lire in tasca, decido che sarò Mr. Common Market di Israele. Così su due piedi. Fu una decisione un po’ azzardata, oserei dire, ma lungimirante. Mi iscrissi all’università, studiavo Economia e Relazioni Internazionali. Preparai una tesi sull’esportazione degli agrumi verso il Mercato comune europeo e sulle possibili difficoltà delle nostre esportazioni. La tesi era buona. Venne pubblicata, e questo mi ha dato l’occasione di farla arrivare all’attenzione di alcuni funzionari del Ministero degli Esteri che vollero che io entrassi per un anno a collaborare con loro al Ministero. Vinco, l’anno dopo, un concorso interno. Ciò mi ha permesso di bruciare le tappe e di andare due anni dopo come numero due alla missione di Israele a Bruxelles. Tornato in Israele, ho frequentato la scuola per diplomatici, nel frattempo ho costituito presso il ministero un nuovo dipartimento sul mercato comune. Nel ‘78 vengo nominato ambasciatore, assegnato al Mercato Comune in Belgio e in Lussemburgo. Semplice no! Obiettivo centrato.

Parliamoci chiaro. La società di oggi non apprezza più il pioniere, colui che dà alla patria perché è convinto che sia giusto che ognuno contribuisca. In questa epoca si esalta il tycoon che fa i miliardi. E a me non piace. D’altra parte dove sono i veri paesi socialisti?”