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IL MEDIORIENTE E LA CRISI UCRAINA

L’escalation drammatica della guerra in Ucraina ha accelerato il posizionamento della diplomazia internazionale, ridefinendo alleanze e schemi, dentro e fuori i confini dell’Europa. Prendiamo ad esempio il caso del Medioriente, una regione da sempre sollecitata dalla geopolitica. E dove i governi sono chiamati a fare una scelta di campo che non prevede neutralità, tantomeno ambivalenze in stile cerchiobottismo. La domanda che in queste ore ha investito le cancellerie della parte meridionale del Mediterraneo è ovviamente con chi schierarsi, stare con o contro Putin? La Siria, per bocca del dittatore Assad appoggia totalmente il suo protettore nella campagna offensiva in Ucraina, notizia che ovviamente ci aspettavamo. L’interdipendenza di Damasco da Mosca è talmente strutturata da non poter essere messa minimamente in discussione.
A tentennare inizialmente è stato, invece, Israele, quasi colto in contropiede dagli eventi. Nonostante, a Kiev sia presente una delle comunità ebraiche più popolose ed antiche. A Gerusalemme, a pesare durante l’attacco è stato senza ombra di dubbio il legame personale di Putin con molti politici israeliani, alcuni di origine russofona, a partire proprio dal ministro delle Finanze Avigdor Lieberman (caparbio, sino alla scorsa settimana, nel profetizzare che non sarebbe accaduto nulla …). Altro dilemma da dirimere era la consapevolezza che una dura condanna avrebbe potuto creare frizioni sul fronte siriano, dove è ancora presente l’armata di Mosca. E con cui vige un patto di coordinamento sulle attività di sicurezza. Alla fine il governo di Naftali Bennett, pesati i costi, ha optato per la piena condanna. Pubblicamente pronunciata dal ministro degli Esteri Yair Lapid: “L’attacco russo all’Ucraina è una grave violazione dell’ordine internazionale”. Messaggio chiaro ed inequivocabile dell’allineamento a Washington. Seguito a poca distanza da quello della Turchia. Erdogan ha preso nettamente le distanze dall’amico-nemico al Cremlino. La chiusura del Bosforo alle navi da guerra di Putin, è un segnale di aperta ostilità. Anche in questo caso sul tavolo strategie militari e commerciali da misurare con accuratezza ed attenzione. A far pesare la bilancia dal lato di Putin, oltre alla larga sintonia, erano il programma di difesa missilistico, quello per le centrali nucleari, il gasdotto, infrastrutture e molto altro ancora. A favore dell’Ucraina troviamo gli accordi con Kiev per la vendita di materiale militare, dai droni Bayraktar all’installazione di fabbriche turche in suolo ucraino. A cui vanno aggiunti i benefici garantiti da Bruxelles e la partecipazione alla NATO. Nel caso di Erdogan non è dato sapere quanto abbia inciso l’incidente della nave turca, che al largo di Odessa è stata colpita da un ordigno. Comunque, il sultano questa volta, questa partita, ha deciso di giocarla con la maglia dell’Occidente.
Infine, Teheran. L’Iran può rivendicare di essere stato il primo stato al mondo a dissociarsi dalle critiche a Putin, e ad aver accusato del conflitto in Ucraina esplicitamente la NATO. I nemici dell’Occidente sono i soliti noti.

IN SIRIA LE ELEZIONI FACILI, TROPPO FACILI

Le immagini del dittatore siriano Bashar al-Assad mentre, sorridente davanti alle telecamere, ripone la scheda elettorale nell’urna, è la rappresentazione della farsa tragicomica andata in scena in Siria. Non stupisce che a fare da sfondo alla sua apparizione pubblica, come nella migliore tradizione dei regimi, il presidente abbia trovato una folla festante che lo ha accolto all’arrivo al seggio, dove si è recato guidando la sua auto privata. Nel tentativo di mostrarsi come un cittadino qualunque, un politico amato dal suo popolo e non un uomo cinico, che in questa ultima decade ha ordinato bombardamenti, arresti, torture e uccisioni.

Se queste elezioni – caldamente sconsigliate dalle Nazioni Unite ma “monitorate” da stati che non brillano certo per libertà, democrazia e diritti – dovevano mostrare il ritorno alla normalità beh scordiamocelo. La Siria è di fatto un paese diviso in tre zone: un’area, la più estesa, sotto il governo di Damasco, una enclave nel nord in mano ai ribelli e infine una porzione controllata dai curdi. Il recente processo elettorale ha ovviamente riguardato i lealisti a Damasco. E alla fine il risultato, non accettato da Europa e USA, è stato emblematico ed esaustivo: Assad ottiene il 95% dei voti scrutinati (nelle precedenti aveva preso “solo” l’88,7%). Un plebiscito, bulgaro. Alla cerchia di potere alawita, che non vuole perdere la propria rendita, piace vincere facile, e per sfidanti si sono scelti due figure minori, che non impensierissero troppo il partito Baath del presidente. Il candidato Abdullah Salloum Abdullah aveva già ricoperto ruoli ministeriali in passato e la sua formazione socialista è nella coalizione di governo. Abdullah ha ottenuto una manciata di voti, 1,5%. Poco meglio ha fatto l’altro sfidante Mahmoud Mar’i, raccogliendo il 3,3% delle schede a suo favore. L’avvocato Mar’i, membro dell’opposizione interna ad Assad, è delegato alla Commissione costituzionale per la Siria di Ginevra. Secondo quando annunciato ufficialmente l’affluenza è stata del 78% e i partecipanti 14 milioni. Numeri dubbi, per un voto che di giusto non ha niente.

Assad inizia così il suo quarto continuativo mandato e un nuovo settennato, con una guerra civile lunga e dolorosa non ancora completamente alle spalle. Si stima i deceduti dal 2011 ad oggi siano più di mezzo milione. 11 milioni sono gli sfollati, la metà rifugiata in Turchia, centinaia di migliaia un po’ in tutto il mondo. L’altra metà di coloro che hanno abbandonato la propria casa continua a vivere in territorio siriano, un terzo sono bambini. Quasi il 90% della popolazione è in condizioni di povertà cronica. Le speranze di ripresa economica per il 2021 non sono rosee, le sanzioni statunitensi e gli effetti della crisi finanziaria del Libano potrebbero incidere pesantemente. Inoltre, la pandemia ha colpito le rimesse dei siriani all’estero, e l’invio di aiuti si è ridotto. Assad avrà vinto le elezioni confezionate su misura per lui, ora però ci sono due creditori che aspettano alla porta, Russia ed Iran.

LIBANO, LA PIAZZA E LA CASTA

La piazza di Beirut affonda il primo ministro Saad Hariri e ora chiede di più. Il premier incapace di gestire il caos politico di un Paese sul baratro del default finanziario (il debito nazionale è al 150% del PIL con un quarto della popolazione sotto la soglia di povertà) e con lo spettro del deflagare di una nuova guerra civile ha alzato bandiera bianca: “sono in un vicolo cieco” ha ammesso nel messaggio trasmesso alla nazione. Legato a triplo filo alle monarchie saudite, appoggiato dall’Eliseo di Macron e dalla Casa Bianca di Trump. Per ora Hariri, di religione sunnita, miliardario e discendente di una delle famiglie più potenti del Libano, rimane in carica, in attesa della decisione presidenziale. L’analisi è che si è lasciato trascinare dall’onda di cambiamento, che ha considerato maggioritaria, e tratte le dovute conseguenze ha dato le dimissioni, aprendo una crisi politica già acuta. Le grandi proteste che hanno attraversato il Libano, in queste due settimane, chiedono “rivoluzione”; rivendicano un cambiamento totale a livello istituzionale: la fine di un sistema “corrotto e dispotico”. Manifestano accusando i vertici dei partiti al potere: cristiano maroniti, islamico sunniti e affiliati ad hezbollah. È una rivolta pacifica, transreligiosa, che fa paura alle oligarchie, anche queste trasversali, che governano e destabilizzano da anni questo lembo di terra. Sono voci di malcontento inaccettabili tanto dal leader politico e spirituale, filo iraniano e sciita, Hassan Nasrallah quanto dai maroniti, non falangisti e pro siriani, del presidente cristiano ed ex generale Michel Aoun. È un movimento che monta di giorno in giorno, composto da tanti giovani, aggregato dalla lotta alla finanziaria e che ha trovato nell’opposizione all’introduzione di una tassa per le chiamate di Whatsapp la scintilla della battaglia social. Non chiamatela “rivoluzione dei cedri” e tantomeno “primavera araba”, siamo difronte a qualcosa di diverso, meno politicizzato e più pragmatico nelle richieste, che guarda alla libertà di comunicazione e allo stesso tempo al proprio portafoglio, un dissenso di cui è difficile predire il destino. Come prima vittoria, e forse unica, la gente nelle strade ha fatto cadere la pedina più fragile dello scacchiere di quella che è stata la Svizzera del Medioriente, Hariri. Il “debole” politico era l’unico elemento che potenzialmente destabilizzava l’alleanza tra Damasco e Beirut, accordo che di fatto lascia mano libera ai terroristi di Hezbollah sul controllo del Paese in cambio della tacita presidenza di Aoun. Dietro gli squadristi mandati alla caccia dei manifestanti nelle strade c’è ovviamente la lunga mano di Damasco, di Assad e degli iraniani. Mentre, il braccio armato è sempre quello riconoscibile del partito di Dio. Sono loro, a questo punto, il vero ostacolo al rinnovamento.

DOSSIER KURDISTAN

Erdogan, il sultano di Istanbul, è determinato ad andare avanti nel suo piano di “decurdificazione” della vicina Siria, con un’operazione militare di pulizia etnica della zona a ridosso del confine tra i due stati del Medioriente. Una pagina di guerra nella guerra destinata a modificare la geografia del Paese martoriato da anni di conflitti. In Siria la minoranza curda rappresenta circa il 10% della popolazione, in Turchia sono circa 13milioni. Nella storia contemporanea la prima vera ribellione di stampo nazionalista dei curdi si ebbe nel 1881, una rivolta che la Sublime Porta represse nel sangue, l’Impero Ottomano aveva iniziato a sgretolarsi, tuttavia, il pugno duro contro la minoranza non venne meno. A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo il regime di Hafez al-Assad ha fornito sostegno strategico al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e rifugio al suo leader storico Abdullah Ocalan. L’aver sposato la causa dell’indipendentismo curdo, seppur non ufficialmente, era per Damasco l’arma puntata su Ankara. In quel periodo, per sfuggire all’ondata di repressione del governo turco e l’intensificarsi delle azioni terroristiche, in migliaia di curdi passarono il confine, stabilendosi in Siria, mantenendo così uno stretto legame tribale e politico con coloro che erano rimasti sul suolo turco. Le tensioni tra i due stati ebbero un picco nel 1988 e un conflitto pareva imminente. Il popolo curdo era diventato ancora una volta una pedina, sacrificabile, al tavolo delle trattative diplomatiche. Come era avvenuto nel 1920 con il trattato di Sevres, dove per la prima volta venne disegnata una carta geografica con lo stato del Kurdistan. Ma già tre anni dopo a Losanna le potenze europee avevano stracciato quella mappa, ammainato e calpestato la bandiera del diritto all’autodeterminazione di quel popolo e raggiunto un’intesa con il nascente stato turco. Il dossier curdo finì in un cassetto delle cancellerie e ci rimase sino alla seconda guerra del Golfo. Intanto, nel 1998 la Siria aveva invertito i rapporti e sottoscriveva ad Adana uno storico accordo con la controparte turca. La cooperazione andò ben oltre quanto siglato nel trattato: la polizia dette un giro di vite all’apparato del PKK, smantellando la rete di comunicazione e propaganda dell’organizzazione, vietarono le pubblicazioni anti-turche e proibirono le manifestazioni; escludendo le candidature alle elezioni per i simpatizzanti del movimento. E acconsentendo ai soldati della mezza luna di inseguire i nemici anche nel proprio territorio. L’ascesa in parallelo di Erdogan e Bashar al-Assad fortificò le relazioni, sia sul piano commerciale che sulla sicurezza, entrò in vigore il principio “zero problemi tra vicini”. Il labirinto della guerra civile avrebbe però qualche anno dopo portato alla rottura dell’amicizia, e ad un riavvicinamento con il movimento autonomista curdo. Mentre, all’orizzonte il sultano con giannizzeri e jihadisti manovra per imporre la dottrina dello “zero vicini”.

IL GIALLO DI PADRE DALL’OGLIO, UNA VICENDA SIRIANA

La speranza è vedere Paolo Dall’Oglio libero, il prima possibile, non dimenticandolo. Sono passati quattro lunghi anni dal rapimento del padre gesuita in Siria, sequestrato, presumibilmente, da un gruppo islamico di affiliazione qadeista. Dal triste giorno della sua sparizione a Raqqa di lui non si hanno più notizie: ucciso o detenuto in qualche prigione, venduto e passato di mano in mano tra diverse fazioni siriane? Le ultime tracce risalgono alla notte del 29 luglio mentre lavorava, con molta probabilità, alla mediazione per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Una trattativa delicata che forse avrebbe messo il padre gesuita sulla strada della guida spirituale dell’Isis, il califfo al-Baghdadi. Questo, per quanto lacunoso, è quanto sappiamo di Dall’Oglio, poi un lungo inesorabile e pesante silenzio. Servizi segreti e pressioni vaticane, ad oggi, hanno condotte ricerche infruttuose. Senza tuttavia chiudere mai alla speranza di veder tornare tra noi un uomo che ha dedicato la propria vita all’integrazione e amava dal profondo la Siria. Con la sua missione aveva scelto di ritirarsi in un luogo della regione impervio, solitario e mistico. Dove predicava la comunione con le chiese d’oriente e l’incontro tra le fedi che si richiamano ad Abramo. Sulle colline desertiche e incastonato tra le pietre, al nord di Damasco, aveva fondato nel 1991 la comunità monastica di Deir Mar Musa. Una luce di tranquillità e accoglienza dove, nel corso degli anni, migliaia di fedeli sono transitati: “Cercavo un posto per fare 10 giorni di preghiera, di silenzio. Ero interessato al Medioriente, alla pace, al dialogo islamocristiano, e sono venuto qua. Sono arrivato la sera, non c’erano tetti, porte, niente e ogni pietra andava per conto suo. Però questo luogo mi ha stregato e parlato della tradizione cristiana, convissuta nel contesto islamocristiano per quattordici secoli, parlandomi di speranza, bellezza e incontro con dio. E di ospitalità”. Raccontava il prete romano con voce calma ma ferma, barba lunga e ben curata, una kefiah al collo, parole semplici e ispirate al dialogo in una straordinaria testimonianza di pace. In quella intervista è tracciato il percorso ecumenico di padre Dall’Oglio, per raggiungere una sintesi completa con l’islam, attraverso lo scambio interreligioso nella totale affinità delle radici. Al punto da arrivare a definirsi “simbolicamente musulmano”. Conoscitore della lingua araba e studioso del Corano. “Come esiste quella giudeo-cristiana centrata su Sara, così a partire dai simboli biblici prolungati dalla meditazione coranica musulmana, c’è la possibilità di vedere prefigurata la Chiesa nella linea di Agar e Ismaele”. La visione di padre Dall’Oglio è manifestata nella regola che la comunità di Deir Mar Musa si è imposta, l’utilizzo della lingua araba come strumento di comunicazione sociale e liturgico, affiancata nelle preghiere al greco, all’aramaico e al latino. Impegno religioso e politico scandiscono la vita di questo monaco, pronto a sfidare il regime di Assad, schierandosi apertamente al fianco della piazza durante le rivolte della Primavera Araba: democrazia e dignità. Rendendolo un personaggio scomodo, a tanti. Facendo di lui una voce indignata, che protesta per la repressione e il massacro del popolo siriano. Prima che i riflettori delle televisioni si accendessero è testimone diretto della tragedia della guerra civile. È un punto d’informazione ma anche il pulpito di un monito, profeticamente avverte il sopraggiungere del caos. Capisce in anticipo che la violenza innescherà la fuga in massa, l’insorgere del problema dei profughi è prossimo. La Siria del dialogo si eclissa, coperta dalla strumentalizzazione e dal fanatismo religioso, sotto gli occhi di un occidente cinico: “la paura legittima la repressione, che legittima l’estremismo, che legittima la paura”. È il ciclo vizioso di un Medioriente senza pace e futuro, la frontiera “estrema” del Mediterraneo dove continuare a cercare padre Paolo Dall’Oglio.

Russia e Siria nella spirale del terrore

Russia e Siria ancora nella spirale del terrore. Tritolo nella stazione della metropolitana di San Pietroburgo e bombe chimiche sulla cittadina di Idlib. A mietere civili inermi nell’estremità orientale dell’Europa è stato un kamikaze di origine kirghisa mentre, nel Medioriente sono gli aerei di Damasco a disseminare morte. Il denominatore in comune ai due eventi è il presidente siriano Assad e la sua alleanza con Mosca: Putin è al fianco del dittatore nella guerra civile con armi e soldati. Il terrorista che ha colpito la città natale dello zar Putin tuttavia non è nato e cresciuto in Siria, non proviene nemmeno dalla Cecenia ma da una sperduta ex provincia dell’Unione Sovietica. Dunque l’indottrinamento dell’attentatore andrebbe imputato, con molta probabilità, alla radicalizzazione dei giovani in quella remota regione. L’ondata di terrore che ha colpito la Russia a partire dagli anni ’90 è, in particolar modo, legata alle richieste indipendentiste cecene. Negli ultimi anni altri gruppi di ispirazione jihadista hanno aderito al terrorismo nel nome di un emirato Caucaso conforme al Califfato dell’Isis. Tra le file dei foreign fighters che combattono in Siria o in Iraq per l’Isis c’è una presenza cospicua di miliziani reclutati nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Brigate di assassini senza pietà, persone di estrazione povera, cresciuti in regimi autocratici, con trascorsi in prigionia tra torture e indottrinamento fondamentalista. Figli di un malessere generalizzato, vittime di società oppresse sia economicamente che culturalmente, giovani che sognano in qualche modo una rivincita con l’uso della forza e della bestialità. L’attentato di San Pietroburgo, gli attacchi in Turchia ed in Europa, come del resto tutti quelli di questi ultimi anni a partire dal 11 settembre 2001 pongono sistematicamente la questione di come confrontarci con l’Islam fondamentalista: la condanna è unanime mentre le soluzioni proposte sono varie e spesso contrastanti, a seconda della visione sociopolitica dei vari interlocutori e soprattutto (e questo è un guaio) degli interessi confessabili ed inconfessabili. Militarmente siamo sufficientemente “agguerriti” per far fronte e sconfiggere, sul campo, manipoli di combattenti fanatici che hanno come vero autentico culto solo la morte, lo dimostrano le varie campagne lanciate in questi mesi contro il Califfato dall’Iraq alla Libia, oppure gli esiti del conflitto ceceno e di molte altre guerre poco conosciute. Due distinti fattori, geografico e geopolitico, alimentano il persistere di questo dilemma del nostro secolo. Il teatro principale del conflitto è una striscia di terra che include Mediterraneo, Medioriente, ex repubbliche sovietiche asiatiche e nord Africa. Tutti paesi a maggioranza mussulmana privi di democrazia reale. Dove però i giochi, il controllo, l’influenza sono sostanzialmente riconducibili al blocco occidentale, alla sfera di Mosca e all’espansione turca. Nella crisi siriana questi elementi sono venuti alla luce con effetti deleteri e ripetuti. In Siria assistiamo ad un massacro giornaliero, le scuole e gli ospedali bombardati dall’aviazione siriano-russa, le violenze dei ribelli al regime di Assad, i rastrellamenti, le torture nelle carceri. Lo scontro frontale al fondamentalismo ha finito per alimentarlo e dittature destinate a crollare resistono solo grazie ad aiuti internazionali. Spesso la soluzione è più semplice di quanto si possa pensare, ma fare la cosa giusta non è così facile: esportare la democrazia ha un prezzo, invadere un altro. Il secondo assicura un serbatoio enorme di miliziani per lo Stato Islamico e per tutte le sigle jihadiste.

 

Siria, caschi bianchi da Premio Nobel

In Siria tra esplosioni, distruzione, cumuli di macerie, polvere e sangue nel buio del terrore compaiono degli spiragli di luce, sono “angeli” i volontari di varie associazioni umanitarie che aderiscono alle Forze di difesa civile (SCDF), gente comune che corre in aiuto dei propri connazionali per salvare, quando possibile, delle vite umane. I volontari del SCDF hanno in questi anni raccolto stima e gratitudine da tutte le parti in conflitto ma, allo stesso tempo, ricevuto anche la critica di parteggiare esplicitamente per i rivoltosi contro il regime e di essere sostenuti da britannici, americani e turchi. Sono disarmati e diplomaticamente neutrali, impugnano vanghe e zappe, scavano per ore per estrarre gli intrappolati tra i detriti. Non guardano la bandiera politica o l’appartenenza religiosa, soccorrono tanto i seguaci quanto i nemici del regime di Assad. Perseguendo il motto, citato nel Corano: «salvare una vita è salvare l’umanità». Cittadini qualunque: panettieri, maestri, sarti, ingegneri, operai, medici. Raggiungono le 3mila unità e sono dislocati in quasi tutto il paese per portare soccorso a rischio costante della propria sicurezza. Tra loro anche una sessantina di donne, addestrate in tecniche di pronto intervento e salvataggio, fianco a fianco con i colleghi maschi, sfidando le tradizioni: «Da sotto le macerie una società nuova sta emergendo». Hanno salvato oltre 60mila persone ma il numero è destinato a crescere in queste ore di acutizzarsi delle violenze. Non sono invulnerabili ai proiettili e lo dimostra la triste nota che decine di loro sono morti, molti hanno perso la vita durante il drammatico interminabile assedio di Aleppo, l’evento bellico che gli ha dato notorietà internazionale e le prime pagine dei giornali. Indossano un casco bianco, è il loro segno distintivo. Spesso portano una mascherina sul volto, delle cuffie e una piccola telecamera sulla visiera. L’organizzazione è da tempo impegnata a denunciare l’uso delle barrel bomb. «I siriani perdono la vita per colpa di diverse tipologie di armi da fuoco, ma quelle più letali sono le barrel bomb a causa della loro natura indiscriminata». Queste le parole pronunciate da Raed Saleh, leader dei The White Helmets, al recente Consiglio di Sicurezza del Palazzo di Vetro. Gli uomini dal casco bianco sono un embrione di protezione civile, spontanea ed emblematica. Un simbolo di speranza. Sfidano i cecchini, le mine e i bombardamenti. La candidatura dei caschi bianchi siriani è in corsa per la massima onorificenza del Premio Nobel per la Pace, sono ore di attesa e Venerdì mattina a Stoccolma sapremo se ce l’avranno fatta. In appoggio alla loro candidatura si sono mossi i più famosi attori di Hollywood, da George Clooney a Susan Sarandon e Daniel Craig. Le possibilità che i caschi bianchi possano essere insigniti sono alte. Tuttavia le indiscrezioni danno per favoriti Juan Manuel Santos, il presidente colombiano, e Rodrigo Londoño, il leader dei guerriglieri marxisti delle Farc, che pochi giorni fa hanno siglato uno storico accordo di pace per porre fine all’ultimo grande conflitto dell’America Latina, dopo 50 anni di guerra civile e decine di migliaia di vittime. In Siria, durante questi cinque anni di guerra i media hanno raccontato storie di un conflitto da altre prospettive, abbiamo assistito alla resistenza di Kobane, all’ingresso delle bandiere nere del califfo a Palmira, agli aerei russi e ai carri armati turchi. Abbiamo visto i profughi, una marea umana, in fuga per disperazione ammassarsi sui gommoni. E poi piano piano i riflettori hanno incominciato ad accendersi su di loro, “impensabile” la notizia della candidatura al Nobel e in “contemporanea” l’uscita su Netflix di un cortometraggio, dedicato a questi “eroi qualunque”. In un genocidio senza fine, “se non sono i siriani a salvare i siriani chi altro lo farà?”. I caschi bianchi contribuiscono a dare un salto di notorietà straordinario ed un’immagine nuova alla Siria, un messaggio a cui non si può essere indifferenti.

 

LE PRIGIONI SIRIANE

Abbiamo tutti visto gli occhi persi nella paura del piccolo Omran, immobile e scalzo su quel sedile arancione di un’ambulanza ad Aleppo, un pulcino fragile, incenerito e macchiato di sangue. Nella storia di quel bambino c’è il simbolo della guerra civile siriana. Poi c’è quello che non vediamo e che ci viene svelato solo in parte, è la fotografia della vita nelle prigioni: fame, senza cure mediche, confessioni estorte con la tortura. È sufficiente il sospetto di far parte dell’opposizione al regime di Damasco per aprirti le porte di un calvario. Amnesty International pochi giorni fa ha diffuso sulla Siria dati allarmanti: 17.723 i carcerati morti nelle prigioni governative dall’inizio della rivolta ad oggi. 10 persone ogni giorno hanno perso la vita tra le sbarre. Il nuovo rapporto del movimento per i diritti umani fondato negli anni ’60 dall’attivista britannico Peter Benenson porta alla luce inquietanti dettagli sulle sevizie, sull’uso sistematico delle violenze corporali ai prigionieri da parte delle guardie carcerarie: frustate, bruciature con sigarette, acqua bollente versata sul corpo, scosse elettriche. Il governo siriano ha ripetutamente negato tutte le accuse. Chi è passato per le prigioni della dittatura racconta: «Le feste di benvenuto consistevano in percosse con barre di metallo e cavi elettrici».

Celle sovraffollate, sporche. Poca aria. «Mi hanno bendato prima di consegnarmi ad un ufficiale che ha iniziato ad insultarmi, quando mi ha detto che non avrei mai più rivisto la luce del sole gli ho creduto». Decine rinchiusi nella stessa stanza. Obbligati a dormire a turno. Costretti a bere l’acqua del gabinetto. Racconti raccapriccianti di costrizioni ad abusi sessuali tra detenuti. Sotto le minacce delle pistole. Picchiati a sangue dalle aguzzine guardie per giorni. «Abbiamo visto il sangue colare fuori dalla cella. Dentro erano tutti morti». Il luogo peggiore si chiama Saydnaya, carcere militare a 25 km al Nord di Damasco. È un carcere di massima sicurezza invalicabile. Un buco nero dei diritti umani: «Riconosci le persone dal suono dei passi. Avverti che stanno distribuendo il cibo dal tintinnio delle ciotole. Le urla annunciano nuovi detenuti. Durante le punizioni cala il silenzio, qualsiasi lamento prolunga l’agonia». Nelle carceri di Assad si annienta l’essere umano nello stesso modo di quelle degli insorti: “Un Inferno senza diavoli e fiamme” la definizione del giornalista italiano Domenico Quirico rapito in Siria nel 2013. La denuncia delle organizzazioni umanitarie chiama in causa anche i rivoltosi. Le crudeltà commesse dai miliziani del Califfo sui civili sono una piaga: crocifissioni, amputazioni di arti, lapidazione e fustigazioni. Massacri di massa, individuate almeno 17 fosse comuni. Uccisioni sommarie e guerriglieri liberi di compiere efferatezze senza limiti. Un genocidio dove villaggi vengono sistematicamente ed interamente sterminati. La popolazione che vive nel terrore, persone trattenute per lunghi interrogatori solo a causa delle loro opinioni politiche o culto religioso. Nelle zone in mano ai gruppi armati di matrice fondamentalista sono state create delle istituzioni amministrative e semi-giudiziarie. Un sistema processuale parallelo, basato sull’applicazione, più o meno rigida, della legge islamica (shari’a). Giovani portati in cella perchè: trovati a fumare in pubblico, indossavano abiti troppo aderenti oppure avevano avuto la malaugurata idea di radersi la barba. «Russia e Stati Uniti dovrebbero pretendere la fine dell’uso della tortura nelle carceri. Fermiamo le sofferenze di massa, è una vergogna». Le parole di Philip Luther direttore di Amnesty per le aree del Medioriente e del Nord Africa rinnovano il dibattito e le polemiche. In Siria fa paura ciò che si vede, ma non è meno terribile di quanto non vedremo mai.

L’INFINITA BATTAGLIA DI ALEPPO

Sul piano teorico in Siria ci dovrebbe essere la tregua, ma le continue violazioni dell’accordo sono peggiorate sino alla definitiva riapertura del conflitto. Aleppo in mano ai ribelli è assediata da mesi dall’artiglieria del regime. Intrappolati oltre 250mila civili, il 60% sono donne e bambini che vivono da troppo tempo tra le bombe. Il governo di Damasco ha annunciato corridoi umanitari per i civili e coloro disposti a deporre le armi. Tuttavia la Comunità Internazionale esprime ancora scetticismo e la catastrofe umanitaria pare inevitabile. È la deriva inesorabile di questo paese. La fuga di milioni di profughi, verso i quali manca ancora umana solidarietà, è un problema organico. Nella lettura della storia attuale del Medioriente prevale disordine e discordia, la cronaca è ripetitiva e talvolta ossessiva. Il conflitto, in questa terra tre volte santa, si è radicalizzato e globalizzato a partire dall’informazione. Eppure ad Aleppo tutti annunciano di aver vinto. Anche l’esito finale della battaglia è caos per una regione che non ammette sconfitte. Subissati dalle notizie, aggiornati in tempo reale sul numero dei morti, sull’evoluzione dei combattimenti o sul macabro rituale degli attentati. Correndo il rischio di finire assuefatti alla violenza barbarica giornaliera e di assimilare come verità assolute le retoriche della propaganda. In Siria non ci sono solo due schieramenti, buoni e cattivi, i ” pro” o “contro” Assad, i “filo” e gli “anti”. È un micro sistema di situazioni – drammatiche e disastrose – che si intrecciano con le passioni – odio, rabbia e paura – e la religione nelle aberrazioni più fanatiche. Una crisi quella siriana che affonda le robuste radici nella stagione delle “primavere arabe”. Un periodo delicato e complesso, un vaso di Pandora che ha innescato rivolgimenti e poi conclusosi con l’esplosione di contraddizioni antidemocratiche per gran parte del mondo arabo investitone. Cinque anni ininterrotti di morte, eventi infausti a catena hanno partorito solo mostri. Uomini venali lanciati in una impresa spregevole: mantenere in vita un regime dittatoriale o edificare un nuovo califfato. Deporre il tiranno laico o elevare la teocrazia del fondamentalismo islamico. Per quasi tredici secoli, dalla morte di Maometto al rovesciamento dell’ultimo sovrano ottomano, il Medioriente è stato governato da un “successore” del profeta. Nel maggio 2014 Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato ufficialmente la nascita del nuovo califfato, lanciando la guerra “santa” al mondo. Nei mesi a seguire il terrorismo colpisce l’Europa, non per caso. È guerra: il 14 Luglio a Nizza in una notte muoiono 84 persone. In Siria nello scorso mese 1590 civili hanno perso la vita. Quanto accade in queste ore nel golfo della Sirte in Libia, lungo le rive del Tigri a Mossul in Iraq, tra le dune del Sinai in Egitto è geograficamente fuori dai nostri confini ma, non può essere trascurato. Che la cittadella di Aleppo cada in mano ad Assad o vinca l’offensiva dei rivoltosi l’onda d’urto avrà in e per l’Europa un effetto negativo. I fallimenti della diplomazia internazionale per porre fine alla guerra civile, l’assenza di transizione politica, i profughi che supplicano soccorso e vengono respinti, i massacri compiuti dai fedelissimi al regime, l’azione militare russa sono tutti elementi che hanno contribuito in maniera diretta all’innalzamento del livello del conflitto, aumentando, purtroppo, in modo crescente la “popolarità” del radicalismo islamico. Sino a giungere all’impossibilità oggettiva di essere in grado di neutralizzare e prevenire devastanti ondate terroristiche. L’Isis non può essere sconfitto con un assalto al palazzo del sedicente califfo perchè deve essere prima di tutto ridimensionato il potere attrattivo che emana sia dentro che fuori il Medioriente. Occorrono reali e concreti colloqui di pace, c’è una regione da ricostruire dalle macerie, mattone dopo mattone.

LA PACE IN SIRIA PER PAPA FRANCESCO

Siria. Per fare le guerre servono tre cose: soldati, armi e denaro. Per fare la pace una sola: la volontà. “La pace è possibile!” Ripete instancabilmente Papa Francesco e inaspettatamente, in queste ore, anche Ankara apre uno spiraglio: “Stabilità in Siria”. È stata la dichiarazione rilasciata dal neo premier turco Binali Yildirim che ha aggiunto: “sono certo che arriveremo alla normalizzazione delle relazioni con la Siria.” Il governo di Erdogan, dopo il recente attentato di Istanbul, stende per la prima volta la mano a Bashar Al Assad, in un gesto di disgelo che potrebbe avere rilevanti ricadute. Intanto però nel paese dopo 5 anni di guerra non c’è tregua che regge. Esplosioni nel mercato di Idlib, bombe a Homs mentre, ad Aleppo si combatte di nuovo nei quartieri della città vecchia e lungo l’arteria principale per l’entroterra del paese. La Siria oggi, di fatto, non esiste più, quello che rimane è una cartina geografica con tante bandierine colorate che si spostano come il vento. Zone sotto il controllo delle forze governative e quelle in mano agli eserciti antigovernativi, aree che si allargano e poi si restringono nella quotidianità più totale, terre dove spadroneggiano i signori della guerra. Formazioni “rivoluzionarie buone e cattive”, partigiani e fascisti islamici: giovani ragazze curde che combattono per difendere la casa e incappucciati jihadisti con l’obiettivo di portare il mondo sul baratro. Spazio vitale del peggiore fondamentalismo di matrice terroristica: Isis e Al Qaeda. Interessi più o meno velati di mezzo mondo:. In un conflitto che da locale ha assunto il livello di uno scontro globale. In mezzo stretti in una morsa di morte milioni di profughi, ai quali la storia, come ricorda Papa Francesco, ha provocato una “indicibile sofferenza”. Vittime della catastrofe siriana “costretti per sopravvivere alla fuga verso altri Paesi”. E per loro il Vescovo di Roma ha lanciato un nuovo accorato appello, chiedendo una sensibilizzazione nelle parrocchie nella diffusione di un messaggio di unità e speranza: “sostenere i colloqui di pace verso la costruzione di un governo di unità nazionale”. L’azione diplomatica della Santa Sede è in piena attività da mesi, la Caritas internazionalis ha ufficialmente aperto una campagna umanitaria, l’operazione prevede oltre all’invio di generi di prima necessità anche rifugio e protezione alla popolazione stremata. Il pensiero di Bergoglio è per la comunità araba cristiana: vittime dell’odio e delle discriminazioni. Più volte la minoranza cristiana è stata al centro delle parole del Santo Padre che in queste ore invoca un salto di qualità, il passaggio dalle preghiere alle opere concrete: negoziati tra i principali attori di questo eccidio. “Affinché prendano sul serio gli accordi e si impegnino ad agevolare l’accesso agli aiuti umanitari”. In 50 anni di storia la Siria ha avuto due rivoluzioni: la presa del potere del partito Ba’th nel ’63 e la primavera araba nel 2011. Entrambe degenerate in due controrivoluzioni: la prima nel ’70 con l’ascesa del gruppo Alawita e l’instaurazione della dittatura, la seconda con l’attuale massacro civile. Un conflitto intestino drammatico che come crede Francesco potrà terminare solo “con una soluzione politica”, spezzando il nodo gordiano degli opportunismi. Mutuando Ernest Hemingway “in una lotta tra cani non è la stazza ma la ferocia che spesso decide le sorti della sfida”. Per placare le belve che popolano la Siria c’è da mettere molte museruole, rilanciare il ruolo della diplomazia e applicare una risoluzione Onu mai rispettata. Congelata in attesa di un dialogo realistico basato su condizioni etiche.