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UN ANNO DALLA CONGIURA AL SULTANO

La lunga notte del 15 luglio 2016 sulle sponde del Bosforo ha fatto calare le tenebre sulla democrazia turca. Le prime notizie televisive arrivarono alla rinfusa, parlavano di una orchestrazione ad opera di alcuni vertici dell’esercito: “In Turchia è in corso un tentativo «illegale» di assumere il potere da parte di alcun militari”. Carri armati nelle strade di Ankara mentre i jet F16 sorvolavano la capitale a bassa quota. Bloccati i media e i social network. Altre azioni dell’esercito in tutta la Turchia. La Cnn turca riferiva che i principali ponti ad Istanbul erano chiusi, occupati da reparti militari. Poche ore di dubbio su quanto stava realmente avvenendo: Erdogan arrestato, ucciso, in fuga? E poi lo stesso presidente compare sullo schermo di un cellulare e chiama in difesa la popolazione civile, la reazione è immediata: migliaia di persone salgono sui ponti dell’Anatolia, minacciate da colpi d’arma da fuoco, mettendo a rischio la propria incolumità. Il popolo turco assedia i golpisti che si arrendono, impauriti. Erdogan ha vinto e può sprigionare con forza tutta la sua rabbia.

Di congiure naufragate tragicamente la storia è piena, si sono abbattute su tutti i continenti in tutte le epoche. La sobillò Catilina nell’antica Roma di Cicerone e il cattolico Guy Fawkes nell’Inghilterra della dinastia Stuart. L’ultima in ordine cronologico è quella dello scorso luglio. Allora, a salvare la poltrona dell’ex calciatore salito al trono di Istanbul fu la sollevazione popolare, e un pizzico di “fortuna” dovuta al fatto che i militari rivoltosi, durante i momenti cruciali del golpe, restarono numericamente un gruppo esiguo, minoritario e mal organizzato. Una oscura trama di commistione tra la burocrazia che ruota intorno al palazzo e le alte cariche dell’esercito che stando alla versione di Erdogan sarebbe stata disegnata dal ricco predicatore Fetullah Gulen. Il quale, in esilio in USA, tuttavia ha sempre negato di essere l’architetto del complotto. Ma che molti, sotto interrogatorio, e presumibilmente anche tortura, avrebbero direttamente indicato come il vero mandante.

Il ripristino della “legalità”, post attentato alle istituzioni, ha innescato un processo antidemocratico, caratterizzato da purghe e arresti indiscriminati. Con lo strumento dello stato d’emergenza prolungato sono state oscurate le libertà, a partire da quella di stampa. La spirale degli eventi ha portato ad una “incrinatura” diplomatica tra Ankara e Bruxelles, allo stesso tempo ha segnato un divario storico tra Ankara e Washington, mettendo una pietra tombale nelle relazioni tra Erdogan e Obama. Dalle ceneri del golpe ha preso corpo uno spostamento degli assetti geopolitici: il patto di ferro con Mosca, per arginare il terrorismo jihadista, e la saldata alleanza strategica nella regione con il Qatar, in chiave di protezione alla fratellanza musulmana e alle sue emanazioni.
Il Sultano di Istanbul dopo aver sventato il pericolo ha “legittimato” il proprio potere attraverso lo strumento referendario, aprendo le porte, a scenari di una possibile deriva dittatoriale. Spaccando la società e facendo risorgere l’opposizione laica e democratica.

Il weekend appena trascorso ha visto celebrazioni ufficiali in tutta la Turchia per il primo anniversario del fallito golpe. Un tripudio di bandiere e slogan, cerimonie imponenti, retorica populista e nazionalista. Per ricordare l’epopea di quelle ore travagliate e convulse, di cui ci resta il dramma delle oltre duecento vittime e delle migliaia di persone finite nelle maglie della rete dell’epurazione senza fine. Ai morti l’onore dell’eroica narrazione della propaganda. Ai secondi l’accusa infamante e imperitura del vigliacco tradimento della patria, un’onta sprezzante che merita il “taglio della testa”. Questo ha promesso il Sultano dal palco alla folla, ad una Turchia euforica e cieca, diventata una insidia per l’Europa e per i suoi ideali.

Un viavai nel Golfo

Il segretario di stato americano Rex Tillerson, braccio destro di Trump, ha siglato con il Qatar uno storico memorandum nella lotta al terrore che prevede di tracciare e punire i finanziamenti al fondamentalismo, prima di volare a Jeddah e a Doha per intensi incontri diplomatici nel tentativo di sanare una crisi complessa e intricata tra i Paesi del Golfo. Attenuare la rivalità nella regione è lo scopo primario della Comunità internazionale. Ci ha provato nei giorni scorsi, senza ottenere risultati, il Ministro degli Esteri britannico Boris Johnson. Durante il suo viaggio l’esponente di spicco dei Tories ha stretto mani, è apparso sorridente, ma in realtà attendeva l’esito dell’Alta Corte di Londra, che doveva giudicare la regolarità della vendita di materiale bellico ai sauditi da parte dell’industria britannica, contratti fortemente voluti dallo stesso politico artefice della Brexit. Il verdetto ha dato ragione a Johnson ma è stato accolto con disapprovazione da parte di molte ONG che richiamavano e reclamavano la violazione del diritto internazionale. Il governo di Theresa May è anche accusato dall’opposizione di “nascondere” i risultati delle indagini sui rapporti tra fondamentalismo islamico e Arabia Saudita, volute dal suo predecessore Lord Cameron. Il report, stando ad indiscrezioni giornalistiche, inchioderebbe gli emiri alle loro responsabilità, accusandoli, prove alla mano, di collusione con il jihadismo globale attraverso una rete di finanziamenti ponte. Parte dei milioni di petrodollari arrivati sulle sponde del Tamigi sarebbe stata utilizzata per creare cellule radicalizzate. Più o meno la stessa denuncia che i sauditi muovono ai qatarioti in uno scontro avvallato, così si mormora, dallo stesso Trump, che per vendetta ad un mancato “aiuto” alle sue aziende di famiglia da parte qatariota, saltato all’ultimo momento, avrebbe dato il via libera alle sanzioni dei vicini. Al presidente americano, lo scorso maggio, sono bastati appena due giorni di permanenza nelle tende dorate del deserto arabo per provocare un terremoto nell’area: armando di fatto entrambi i “nemici” e facendo saltare i fragili equilibri del Medioriente. Sauditi e qatarioti hanno imboccato da tempo strategie geopolitiche dissonanti. Il Qatar avrebbe “tradito” le “promesse” siglate tra il 2013 e il 2014 con le altre monarchie arabe, inclusa quella di “ammorbidire” la propaganda mediatica di Aljazeera. Sul piano delle relazioni internazionali gli sceicchi della Medina e della Mecca hanno un saldo legame con l’Egitto del faraone Al Fattah al Sisi. Mentre gli sceicchi della piccola penisola araba sono affini, cuore e portafoglio, al sultano di Istanbul Erdogan. I primi hanno dichiarato guerra ai fratelli musulmani, i secondi invece concedono protezione e fondi alla fratellanza. Ancora più controversa è la questione in Libia, ai nostri confini e lontano dalle acque turbolente del Golfo. Nelle coste della Cirenaica e della Tripolitania la partita delle monarchie arabe è tesa. Doha appoggia il governo di Al Serraj, in linea con l’Italia. Riyad è al fianco delle armate del generale Haftar, con il quale trattiamo a fasi alterne. La natura dei rapporti e delle relazioni tra il Golfo e il Sahel Mediterraneo ovviamente non è solo economica. Il dubbio è che le armi made in USA vendute al suk da Trump possano finire, attraverso vari canali, in quello spicchio di terra a noi adiacente, come già successo in passato. Uno dei consiglieri più ascoltati a Washington RC Hammond ha dichiarato che c’è uno spiraglio di ripresa della trattativa tra i paesi del Golfo solo se il Qatar accetterà alcune concessioni in cambio di un approccio più morbido da parte degli altri stati: “siamo in una strada a doppia percorrenza”. Il giallo dei fondi per l’estremismo islamico provenienti dai Paesi arabi non ha ancora un colpevole: “Qualcuno ha le mani sporche”.

IL GOLFO DEGLI EMIRI IN LOTTA

Il Golfo si spacca, una rottura senza precedenti tra gli Stati arabi sta segnando queste ore. È crisi diplomatica tra Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Yemen ed Egitto che interrompono i rapporti con il Qatar, isolandolo. Doha è accusata di collusione con il terrorismo internazionale, finanziando gruppi islamici fondamentalisti e alimentando l’ideologia jihadista attraverso i media nazionali e Al Jazeera. È una nuova fase di preconflitto per il dilaniato Medioriente.
Nel mezzo a tentare di abbassare i toni e contenere lo scontro gli USA di Trump, impegnati in una delicata operazione diplomatica di ricucitura delle relazioni. Il Qatar è una delle sedi strategiche delle forze aeree statunitensi. Proprio lì nel 2013 il Congresso di Washington ha autorizzato spese di decine di milioni di dollari per rafforzare l’edilizia militare nella base a stelle e strisce di Al Udeid. La crisi attuale è stata innescata, forse involontariamente, dal recente viaggio nella regione di Trump. Il sogno trumpiano di una grande coalizione sunnita in chiave anti sciita è tramontato ancor prima di concretizzarsi. Il fragile equilibrio arabo non ha retto alle dinamiche tribali di perenne contrapposizione. Gli affari commerciali di Trump con i custodi della Mecca e di Medina hanno finito per destabilizzare gli assetti politici e militari.
Era iniziata come guerra di narrativa, con i sauditi che accusavano i qatarioti di avere rapporti con gli iraniani e di sostenere attivamente sia Hamas che i Fratelli Musulmani. La spirale di tensione è salita nelle ultime ore sino al punto di criticità quando Doha, per voce della sua emittente più famosa e seguita al mondo, ha pubblicato la notizia che l’account dell’ambasciatore saudita a Washington era stato violato. Se il contenuto delle email dell’ambasciatore Yousef Al Otaiba, figlio dell’ex presidente dell’OPEC, dovesse trovare fondatezza, e non dimostrarsi invece parte del sistema di fabbricazione di notizie false oggetto del contenzioso tra i due stati arabi, per l’Arabia Saudita il problema diventerebbe caldo: le email hackerate, infatti, rivelerebbero l’ingerenza dei sauditi nel fallito golpe turco e la partecipazione diretta nell’estromissione del presidente Morsi in Egitto, dove avrebbero favorito il colpo di stato del generale al-Sisi. Porterebbero alla luce collegamenti tra le alte sfere di Riyad e una potente lobby americana vicina al premier israeliano Netanyahu. Svelando compromettenti connessioni con il jihadismo globale. Manovre di geopolitica locale, in una cornice assai più ampia, che mette sulla stessa bilancia accusati e contro accusatori. E se dietro le quinte entrambi, sauditi e qatarioti, fossero complici dell’Isis? Ad oggi non ci sono prove che sia il Qatar che gli emiri arabi stiano finanziando il Califfato islamico. E’ fuori di dubbio che capitali privati provenienti dal Golfo coprono il fondo, stimato intorno ai 2miliardi di euro, a disposizione del terrorismo. L’inchiesta sui flussi di denaro da Riyad a Londra per sovvenzionare l’integralismo islamico in Gran Bretagna è al centro di una lunga indagine commissionata dall’ex primo ministro Cameron e non ancora resa nota dalla premier May, congelata per la campagna elettorale ed a questo punto nella mani del prossimo premier. I paesi arabi del Golfo hanno tollerato, in un accordo verbale, la presenza di Al-Qaida e dell’Isis creando un buco nero dove le organizzazioni terroristiche islamiche hanno trovato terreno fertile.
Il blocco wahabita si è frantumato in un potenziale scenario di guerra che dividerebbe ulteriormente il già compromesso scacchiere libico, oltre che l’Occidente. La Russia prudentemente si tiene fuori dalla mischia. La Turchia si dice pronta a mediare, anche se Ankara propende per Doha. Greggio a basso costo, imponenti flussi d’investimento bancari, l’acquisto di prestigiosi e titolati club calcistici europei e asset del turismo, hanno strozzato in gola le proteste e le critiche delle capitali europee in questi anni. Ma il terrorismo e l’impennata del prezzo del petrolio potrebbero far finire l’amicizia e indurre a concrete azioni, Trump permettendo.