SHOOT

In Medioriente storie di conflitto, violenza ed effetti “collaterali” drammaticamente si intrecciano. 30 novembre 2023. È mattina. Mentre la tregua della guerra a Gaza è in bilico, Gerusalemme è ancora una volta sotto attacco terroristico. Qualche decina di minuti prima dello scoccare delle otto le agenzie di stampa israeliane battono la notizia che medici e polizia sono impegnati alla periferia della città. Sul posto le ambulanze della Magen David Adom stanno prestando le cure a sei feriti. Le condizioni di alcuni sono gravi. Almeno due assalitori sono stati uccisi nello scontro. Secondo i media uno dei soccorritori intervenuti è un soldato in congedo, si scoprirà essere Aviad Frija, che stava facendo ritorno in prima linea. Nel filmato lo si vede in divisa insieme ad un commilitone uscire dall’auto con la sua arma in dotazione e correre verso i terroristi. Con il passare delle ore il numero delle vittime cresce. Hamas rivendica l’azione. Le immagini riprese dalle telecamere all’incrocio di Weizman street iniziano a circolare in rete. I terroristi sono stati identificati come due fratelli palestinesi residenti nel quartiere gerosolimitano meridionale di Sur Baher.
Yuval Doron Castleman, avvocato israeliano con un passato nei servizi di sicurezza, è stato il primo cittadino ad intervenire. É sceso dalla vettura che viaggiava in senso opposto, ha attraversato a piedi le corsie e sopraffatto i due attentatori. Poi ha gettato a terra la pistola che impugnava, si è aperto la camicia e inginocchiato a terra, alzando le mani in alto. Gridava non sparate. Invece, il sergente della riserva Frija ha premuto il grilletto del fucile.
Per gli avvocati del riservista: “I video dell’accaduto che sono stati pubblicati sui social network, e le diverse angolazioni delle telecamere, creano un’impressione parziale ed errata che non riflette ciò che si vede e sente dalla direzione del militare”. Aggiungono. “Dal posto in cui si trovava, e dai suoni che ha sentito, era convinto con tutto il cuore che stava sparando a un terrorista, che rappresentava ancora un potenziale pericolo”, concludono. ”Dopo aver ascoltato la sua testimonianza, non abbiamo dubbi che in queste insolite particolari circostanze, anche l’Ufficio della procura Generale Militare raggiungerà la chiara conclusione che, con tutto il pesante dolore per il terribile esito, questo è un tragico errore che non giustifica l’adozione di misure penali contro di lui”. Frija, per la cronaca, è stato arrestato. Nei precedenti casi in cui i soldati dell’IDF si sono trovati in simili situazioni, infrangendo le regole di ingaggio e provocando la morte di un palestinese, solitamente l’accusa non è mai stata di omicidio di primo grado, ma semplicemente colposo. Con la conseguente condanna che amministrativamente comporta una pena inferiore ai due anni, addirittura anche solo poche settimane di carcere. A morire però questa volta è stato un israeliano.
Il dibattito politico si accende. Il premier Netanyahu quello stesso giorno in tarda serata dichiara: “La realtà dei civili armati è che molte volte salvano vite e prevengono un disastro maggiore. Nella situazione in cui ci troviamo questo metodo dovrebbe essere perseguito. Pur avendo da pagare un prezzo, questa è la vita”. Il riferimento era sia all’uccisione di Castleman sia alla linea politica introdotta dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che prevede di allentare le restrizioni sulle licenze di armi da fuoco (260 mila sono quelle che sono state rilasciate dopo gli eventi del 7 ottobre).
Ma lo scivolone sul “così è la vita” scatena un’alzata di scudi. Protesta Moshe Castleman, padre della vittima, che critica aspramente il commento, invitando il “falco” della destra a guardare i video prima di parlare. “[Mio figlio] ha seguito tutte le procedure in modo da poter essere identificato. Si è inginocchiato, ha aperto la giacca per mostrare che non aveva esplosivi addosso, ha urlato: “Non sparate, sono ebreo, sono israeliano”. E invece hanno compiuto una vera e propria esecuzione”. A quel punto Netanyahu (che non ne azzecca più una) accortosi dell’errore di comunicazione torna sui propri passi. Chiama al telefono Castleman: “Suo figlio è un eroe israeliano. Yuval, in un atto di supremo coraggio, ha salvato molte vite, ma sfortunatamente si è verificata una terribile tragedia”. Il leader del Likud promette di andare fino in fondo con l’indagine dei fatti. Intanto, il presidente Isaac Herzog, con il suo stile mite e riservato, si presenta personalmente a casa della famiglia Castleman per rendere le sentite condoglianze. “Sono qui non solo come individuo, ma come presidente dello Stato di Israele, per chiedere perdono ed esprimere enorme apprezzamento a un eroe israeliano che ha fatto una cosa grande e coraggiosa”. Herzog va oltre le scuse e dice quello che pensa sull’intera questione della “liberalizzazione” delle armi fortemente voluta dall’estrema destra al governo: “Non dobbiamo aver paura di parlarne, di mettere la questione sul tavolo”.
Sentitosi chiamato in causa, e non perdendo occasione per tacere o andare a passeggiare provocatoriamente sulla Spianata delle moschee, Ben-Gvir ha replicato: “Sapevamo di avere ragione quando dicevamo che ogni luogo dove c’è una pistola può salvare una vita”. Il politico nazionalista chiarisce: “stiamo fornendo 3.000 licenze al giorno”, rispetto alle poche richieste prima del pogrom del 7 ottobre.
Per Israele liberarsi dalla paura provocata da quell’evento è impossibile, almeno per ora. La corsa alle armi è una reazione che ci si poteva attendere. Trasformare lo stato in un far west comunque non risolve il problema e in questo momento andrebbe evitato.

K DI KISSINGER

Tra le tante memorie che stanno condendo il ricordo del grande e discusso statista Henry Kissinger ce ne è una che merita di essere ricordata, proprio in questi giorni di violenza. Quando nel 1973 scoppiò la guerra dello Yom Kippur, la premier Golda Meir si rivolse alla Casa Bianca, chiedendo consistenti aiuti militari. Il conflitto con l’avanzata degli eserciti arabi aveva preso una brutta piega per Israele, che stava rischiando di perderlo in modo catastrofico. Passarono diversi giorni prima che gli Usa lanciassero in soccorso degli alleati un massiccio ponte aereo, composto sostanzialmente dai rifornimenti richiesti. Per anni ha prevalso l’idea, o meglio la sensazione, che l’amministrazione Nixon, e quindi il suo consigliere più fidato, il segretario di stato Henry Kissinger, avessero deliberatamente ritardato l’invio di armi per ragioni che sono oggetto di dibattito storico. Secondo questa lettura una parte delle colpe del ritardo sarebbero sia imputabili a James Schlesinger, il segretario alla Difesa, che all’atteggiamento “machiavellico” dello stesso Kissinger.
Recenti studi hanno invece messo in luce una diversa spiegazione dei fatti, adducendo che la lentezza della tempistica era dovuta alla logistica per l’invio di materiale bellico sul fronte mediorientale. Alcuni storici hanno persino evidenziato difetti nella comunicazione tra Washington e Gerusalemme, dove ci sarebbe stato più di un fraintendimento sull’urgenza dell’operazione.
Cosa accadde realmente è nascosto in una famosa storiella, che passa da tanti anni ormai di bocca in bocca. Si dice, che nel corso di una drammatica riunione del gabinetto di guerra Golda Meir chiamò personalmente Kissinger, per premurarsi dell’appoggio militare di cui aveva disperato bisogno. Leggenda narra che la telefonata fu piuttosto burrascosa, e volarono parole grosse. Che tra i due non corressero buoni rapporti era cosa risaputa. L’ammirazione che Henry mostrava pubblicamente nei confronti di Golda non era ricambiata, per vari motivi. A partire dalla differente visione sull’Urss. D’altro canto il demiurgo della geopolitica internazionale dichiarerà, intervistato, che il suo interlocutore preferito fosse Yitzhak Rabin.
Quanto Meir, convinta socialista, non stimasse troppo il Richelieu statunitense è oggetto persino di una famosa frecciata al presidente Richard Nixon, reo di averle ricordato che in comune avevano due ministri degli Esteri, entrambi ebrei. Sentita l’affermazione rispose senza peli sulla lingua che l’allora ministro israeliano Abba Eban (educato a Cambridge) però parlava perfettamente inglese, alludendo al fatto che Kissinger, nato in Germania, si esprimeva nella lingua anglosassone ancora con marcato accento tedesco.
Ritornando a quel colloquio di 50 anni fa, che forse cambiò le sorti della guerra, ad un certo punto della chiamata la “lady di ferro” avrebbe tuonato: “Le ricordo che è un ebreo come noi!”. Kissinger indispettito replicò: “E io le ricordo che prima di tutto sono un cittadino statunitense, poi sono il segretario di Stato e infine sono anche ebreo”. Pronta la risposta di Meir: “Appunto, caro Kissinger. Come sa benissimo, in Israele leggiamo da destra a sinistra”. E riattaccò il telefono. Poco dopo alla chetichella gli aiuti arrivarono e la guerra fu vinta. Fine della barzelletta, inizio della storia.