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Da Roma a Roma, per una nuova Europa

Nel 1957 con i trattati di Roma prendeva forma un nuovo modello di relazioni internazionali tra gli stati europei incentrato sull’integrazione. La voglia di chiudere il capitolo delle guerre apriva le porte ad una futura Europa. L’idea di essere uniti offriva un antidoto al totalitarismo e alle sue emanazioni. Questo approccio, tra mille sollecitazioni, ha portato nel corso degli anni ad espandere i confini europei ben oltre le naturali frontiere geografiche del Vecchio Continente. Una volta innescato il processo di allargamento è sembrato irreversibile, facendo credere che non potesse essere arrestato. La Brexit e il populismo antieuropeista hanno dimostrato il contrario. L’eurozona oggi non gode di buona salute. Nel frattempo la Turchia, che avrebbe dovuto aderire all’Europa, ha lentamente ma inesorabilmente sancito un nuovo confine per l’Europa. Lo spirito europeo è naufragato nel Bosforo, affondato dalla leadership turca. Bruxelles, spinta da Berlino, si era completamente messa nelle mani di Erdogan, il quale si è dimostrato del tutto inaffidabile. E oggi vediamo e viviamo le conseguenze di questo tragico errore di giudizio, che tuttavia parte da lontano. Nel 2003 giunto al potere venne coccolato da gran parte dei capi di stato, di destra e di sinistra. Quando il partito di Erdogan nel 2015 uscì ridimensionato dalla tornata elettorale, perdendo la maggioranza nel parlamento, nessuno mise in discussione la credibilità democratica di Erdogan. La sconfitta dell’Akp si tramutò ben presto però in una dura repressione della minoranza curda e dei suoi esponenti politici. Ma Bruxelles, sollecitata non solo dalla Merkel, preferì chiudere un occhio pur di arrivare ad un accordo sulla questione dei migranti con Ankara. Detto fatto, esattamente un anno fa veniva siglato un abominio diplomatico, che piegava l’Europa alle volontà (economiche) del Sultano. Il quale, ovviamente, ha liberamente continuato nella sua violenta politica contro il popolo curdo. Ha “sfruttato” il fallito golpe per eliminare gli avversari e imbavagliare la stampa. Cinicamente ha utilizzato e manipolato la propaganda sostenendo che lui solo e il suo partito potessero salvare la Turchia dai “terroristi” e dai cospiratori stranieri. Gli stati europei e i partiti d’opposizione sono stati accusati di essere nemici: simpatizzanti del terrorismo o addirittura dei nazisti. “Con noi o contro di noi” è diventato il grido di battaglia dell’aspirante sultano nella sua folle corsa verso l’instaurazione di una quasi dittatura. Cosa che potrebbe accadere il prossimo 17 aprile, il giorno dopo il referendum indetto per cambiare la costituzione e introdurre il presidenzialismo. L’unico ostacolo alle tattiche di Erdogan è l’urna. Se il popolo turco accetterà l’uomo forte come salvatore della Repubblica il nazionalismo islamico prenderà il sopravvento e l’Europa dovrà trarne le dovute conseguenze. Pur di vincere Erdogan non esita a brandire la “carta religiosa” e l’odio verso l’Europa “cristiana”. Facendo uso della retorica più gretta e becera, volendo così dimostrare che la Turchia non ha bisogno dell’Europa e che la rabbia del popolo turco è un fiume in piena che non può essere arginato. Con la minaccia, invoca una netta contrapposizione che sfocerà, a suo dire, con l’abbandono dei negoziati e con zero tolleranza. Schiaffeggia mezza Europa e abbraccia Mosca. Erdogan senza nessun scrupolo getta il sale sulla ferita provocata dall’avvento di Trump. Cerca in tutti i modi un confronto con l’Europa, non esita a sfidare e provocare. 60 anni fa l’élite politica presente in Campidoglio dimostrava tanto realismo e una spinta propulsiva ottimista. Ecco se a Roma nascerà, non solo a parole, una nuova Europa dovrà farlo rispolverando praticità e coraggio. Altrimenti rischiamo di essere vittime, oggi di Erdogan e domani di Trump.

Un tavolo di pace ancora è possibile

Roma crocevia del futuro assetto politico della sponda Sud del Mediterraneo. Il viaggio del Segretario di Stato americano John Kerry nella città eterna è stato denso di contenuti, al centro dei colloqui questioni delicate come Libia e Siria, a sottolineare l’ultimo atto o tentativo di politica internazionale dell’era Obama. “E lui ora può fare ciò che vuole” libero da vincoli di mandato, l’opinione è di Isaac Herzog, leader del centrosinistra israeliano, rilasciata durante la sua visita romana. Herzog ha presentato a Kerry, in un incontro non ufficiale, un piano strutturato per la ripresa del percorso di pace tra palestinesi ed israeliani che prevede il disimpegno militare dalla West Bank, la fine di fatto dell’occupazione: “separazione” e organizzazione di una conferenza regionale sulla sicurezza in cooperazione con i paesi arabi. “Israeliani vengono uccisi nelle strade e nel mondo vediamo sorgere iniziative surreali e boicottaggi. Il ritiro – dalla West Bank – è il cammino, l’unico, per la soluzione di due Stati.” Il leader laburista, sconfitto nelle passate elezioni da Netanyahu, non è ottimista, non elude il problema del governo di destra che governa il suo paese, a differenza del falco della politica israeliana è consapevole di avere un forte ascendente e un canale privilegiato nei rapporti con Washington. Dove gode di quella amicizia che Netanyahu letteralmente ha portato ai minimi termini, i rapporti tra il leader della Knesset e il presidente degli USA sono pessimi, non c’è fiducia tra i due storici alleati tanto da arrivare, nei passati mesi, ad aperte accuse di spionaggio. Quanto Herzog sia riuscito a convincere il capo della diplomazia della prima potenza mondiale lo capiremo a breve. Intanto c’è tornata alla memoria una vecchia intervista a Khaled abu Awwad, palestinese e pacifista: “Noi e gli israeliani viviamo nel luogo più bello al mondo, eppure non c’è normalità e umanità nel nostro agire.” Khaled ha trascorso un lungo periodo di detenzione nelle carceri israeliane per motivi politici, oggi è considerato uno delle 500 personalità arabe più influenti e in Palestina è impegnato nel promuovere la via della non violenza e del dialogo: “la scelta delle armi è sbagliata, non è con la violenza, con il terrorismo dei kamikaze che raggiungeremo la libertà. C’è un cammino da fare insieme agli israeliani ed è quello del dialogo, dobbiamo sederci e chiarirci una volta per tutte: Qual è il vostro problema? Qual è il nostro problema? Ebrei, cristiani e musulmani siamo su questa terra per costruire e non per distruggere ed uccidere. Pace è una bella parola solo se ha un valore è un contenuto.” Forse hanno ragione Herzog e Khaled una possibilità per mettersi al tavolo, ancora una volta, è possibile. Il problema, a questo punto, è chi invitare.

 

TUTTI I DUBBI DEL PRESIDENTE

La prima visita ufficiale del presidente israeliano Reuven Rivlin in Italia, avvenuta la scorsa settimana, è stata contrassegnata da un profilo mediatico con riflettori bassi, quasi spenti. Tuttavia, durante gli importanti colloqui qualche magagna è arrivata all’orecchio del presidente. In particolar modo il successore di Shimon Peres ha dovuto registrare dissenso all’operato del governo e alle scelte personali del suo Primo Ministro Netanyahu. La costruzione del Muro di separazione nella Valle di Cremisan, a Beit Jala vicino a Betlemme ha innervosito il Vaticano. Il patriarcato latino di Gerusalemme ha espresso critiche pesanti, parlando apertamente di “un insulto alla pace”. Non meno spigolosa la questione della nomina ad ambasciatrice di Israele in Italia di Fiamma Nirenstein (giornalista, ex parlamentare PDL, candidata con una propria lista alle passate elezioni della comunità ebraica romana ma che vive in Israele da tempo a Gilo, oltre la linea verde del ’67). La scelta dell’incarico alla Nirenstein è stato espressamente voluto da Netanyahu, provocando la reazione della comunità ebraica italiana dove la decisione ha trovato pochi consensi e tanti malumori finiti in queste ore sulle prime pagine della stampa nazionale ed internazionale. Problemi “marginali” se confrontati con lo scenario della Terra Santa dove la tensione è salita ad un punto di ebollizione. L’ala estrema del movimento dei coloni lancia azioni terroristiche a tappeto, compiendo aggressioni armate contro civili palestinesi, danneggiando le loro proprietà, in una diffusa impunità dalla legge. Gli scontri tra la polizia e i giovani palestinesi di Gerusalemme Est sono ormai all’ordine del giorno, come durante i giorni della prima Intifada. La navigazione per la risicata maggioranza governativa è a vista, l’attuale governo di Netanyahu, forse quello più marcatamente di destra della storia di Israele, appare un ensemble di nazionalismo e ortodossia religiosa mescolata a conservatorismo. In alternativa resta sullo sfondo lo scenario del ritorno alle urne il prossimo anno oppure la costruzione di un governo di larghe intese, caldeggiato da Rivlin. Non è un segreto che non ci sia mai stato feeling tra il presidente Rivlin e il primo ministro Netanyahu. Bibi lo scorso anno ha tentato inutilmente di contrastare l’elezione di Rivlin, il quale pare non aver ancora dimenticato lo sgarbo del collega di partito. Tuttavia i due, in questi mesi, hanno mantenuto, almeno di facciata, un rapporto cortese. La luna di miele è terminata e l’ostilità è tornata in campo. A dimostrarlo il fatto che le due massime cariche dello stato israeliano non hanno una riunione di lavoro da due mesi. Il motivo del dissidio è direttamente imputabile alla condotta del governo israeliano nei confronti dell’amministrazione americana. Rivlin è fortemente preoccupato dei possibili danni della linea politica di Netanyahu alle relazioni di Israele con gli Stati Uniti. Fautore di un approccio più morbido nei confronti dell’amministrazione Obama il presidente d’Israele ha criticato la decisione di Netanyahu di affrontare il Congresso senza coordinarsi con la Casa Bianca, in quello che passerà alla storia come l’ultimo atto dello scontro Obama-Netanyahu. “Israele riesce decisamente bene nell’obiettivo di mantenersi in vita, ma si tratta di uno sforzo che non conosce fine poiché minacce esistenziali come quella del nucleare iraniano e pericoli più contingenti ma comunque gravi come quello del terrorismo fondamentalista, la impegnano in modo costante. Ciò che dovrebbe risolvere tale situazione sarebbe il conseguimento della pace con i palestinesi e con il mondo arabo, ma in questo finora il sionismo ha fallito. È chiaro che in questo caso la partita non dipende da un solo giocatore: per fare la pace è necessaria una controparte che sia d’accordo nello stipularla e mantenerla. E per assurdo, storicamente, la parte che più la ostacola è anche quella che soffre maggiormente della sua mancanza.” Questa l’analisi del politologo israeliano Avraham Diskin, professore con forte ascendente sul presidente Rivlin. Diametralmente opposta invece la lettura della sociologa arabo-israeliana Khawla Abu Baker: “Purtroppo è innanzi tutto l’approccio politico dell’opinione pubblica generale israeliana a non essere cambiato: il governo non dà nessuna speranza di cambiamento. Per Israele è come se tutto fosse iniziato il giorno della firma di Oslo e tutto ciò che era avvenuto prima non sia mai avvenuto, sia stato cancellato. Ma la pecca maggiore di Oslo è in ogni caso, che tutto è stato fatto a livello di leader ma i popoli non sono stati coinvolti. Le ferite sono rimaste aperte e hanno impedito la penetrazione dell’iniziativa all’interno dei popoli. I settori delle società che sono stati coinvolti sono stati i convinti e non è stato fatto nulla o quasi per convincere i contrari.” Almeno una persona si è convinta della necessità del dialogo per portare alla nascita di due Stati in pace, quell’uomo è Rivlin. Ieri era un falco del Likud contrario ad uno Stato palestinese oggi è la colomba che vola sul cielo del Medioriente.

VATICANO E OLP ACCORDO GLOBALE

La mattina del 25 maggio 2014 Papa Francesco concludeva l’incontro ufficiale con il presidente palestinese Abu Mazen, Betlemme era in festa per il pellegrinaggio del Santo Padre in Terra Santa. La vettura con a bordo Francesco muoveva in direzione della piazza della Mangiatoia dove erano ad attenderlo migliaia di fedeli. Durante il tragitto inaspettatamente Francesco fece fermare la sua auto, scese dalla vettura e a piedi raggiunse il muro di separazione tra israeliani e palestinesi. Toccò il blocco di cemento della barriera dove compariva una scritta rossa inneggiante alla Palestina libera, appoggiò la testa e pregò in silenzio per alcuni minuti. Il mondo incredulo assistette ad un gesto significativo. Un anno dopo a Roma Francesco suggella un altro passaggio storico, l’accordo globale del Vaticano con l’OLP. Un trattato riguardante libertà religiosa, giurisdizione, luoghi di culto, attività sociale e caritativa, questione fiscale. Sono norme e principi che regolamenteranno i rapporti tra il Vaticano e lo Stato della Palestina nei prossimi anni. Fonti governative israeliane e alcune personalità italiane esprimono delusione per il riconoscimento da parte del Vaticano dell’esistenza dello Stato palestinese, che il trattato de iure implica, ma questo è un atto, come espresso dalla Santa Sede, formalmente dovuto dopo la risoluzione adottata nel 2012 dall’Assemblea Generale dell’ONU per il riconoscimento della Palestina quale Stato Osservatore. Tutto questo avviene, e non è un caso, mentre in Palestina si ricorda la Nakba (grande catastrofe in arabo), quando nel 1948 l’esercito israeliano espulse gran parte dei palestinesi dai propri villaggi e dalle loro case. La Nakba è un episodio come scrisse una volta l’attivista pacifista Amaya Galil che “non è solo la memoria e la storia della Palestina, ma è un evento che fa parte della mia memoria ed identità collettiva ed individuale in quanto israeliana”. Lo scorso anno Francesco durante l’incontro con i giovani del campo profughi di Dheisheh a Betlemme, discendenti degli esuli del ’48, aveva pronunciato queste parole: “Non lasciate mai che il passato vi condizioni la vita. Guardate avanti!” Nakba e riconoscimento della Palestina sono due questioni aperte, irrisolte: la prima non ha portato alla seconda, la seconda, se e quando avverrà, dovrà accettare la prima come un capitolo chiuso. Oltre alla rinuncia palestinese di eventuali pretese pesa su tutto il veto di Israele, apertamente critico sul riconoscimento unilaterale della Palestina da parte di molti Paesi. In tal senso in Europa si sono già espressi Gran Bretagna, Francia e Spagna per citarne solo alcuni. La Germania è contraria, mentre l’Italia tentenna. Il nostro Parlamento ha approvato pochi mesi fa una doppia risoluzione sul riconoscimento della Palestina, sancendo con due voti discordanti e ambivalenti il “riconoscimento con preclusione”. Un modo tutto italiano per confermare che la soluzione “due stati due popoli” e’ sempre attuale. Casualità o meno nei giorni della Nakba il presidente “dimezzato” del popolo palestinese in visita a Roma dall’amico Francesco ha sentito sicuramente ripetere che “ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni.”