In Tunisia il bicchiere della stabilità sociale era già al bordo da tempo, la pandemia ha fatto il resto. Oltre 18mila morti, sistema sanitario al collasso con il 90% dei letti di terapia intensiva occupati, ossigeno che scarseggia e la campagna di vaccinazione che stagna sotto il 10%. Sui social video di cadaveri lasciati a terra nei reparti: la prima testa a saltare è stata quella del ministro della Sanità la scorsa settimana. L’estate è diventata calda quando il “Movimento 25 Luglio” ha scatenato la piazza, chiedendo lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni. La rabbia dei manifestanti ha preso di mira il partito islamista Ennahada, di fatto perno del governo di questa ultima decade post dittatura, sedi assaltate e uffici dati alle fiamme. Scontri con la polizia e decine di arresti nelle strade. Poche ore dopo il presidente Kais Saied ha tagliato corto liquidando il primo ministro Hichem Mechichi e ha revocato i poteri del Parlamento, per un periodo di 30 giorni. Fine della democrazia, introdotto lo stato d’emergenza, militari con l’ordine di sparare. Aperta di fatto non solo una crisi istituzionale ma anche una frattura politica dai difficili risvolti. Cosa c’è dietro a quello che viene visto come un golpe è presto detto: Saied e l’eterna guerra per la leadership sunnita. Eletto nel 2019, accademico e giurista di fama internazionale. Indipendente, non è “affiliato” a nessun partito. Considerato un conservatore, lontano da posizioni radicali, vicino al populismo: il suo manifesto era retorica anticorruzione e neutralità nelle relazioni internazionali, in apparenza. La sua elezione era stata applaudita come una potenziale chiave di svolta, e lo stesso partito Ennahada colto forse di sorpresa da questa candidatura “atipica” non fece molto per frenarla. Soprannominato Robocop per la cadenza nel parlare, a differenza di gran parte dei politici non ha inflessioni dialettali, un aspetto non indifferente di questo personaggio. La mossa di liberarsi della fazione islamica ora rischia di far imboccare alla Tunisia la strada della deriva autoritaria. L’articolo 80 della costituzione invocato consente al presidente di adottare “misure eccezionali in caso di pericolo imminente”, ma tale applicazione nel rispetto del diritto avrebbe dovuto avvenire di concerto con i rappresentanti del governo e del parlamento, e soprattutto non avrebbe dovuto implicare la revoca dell’immunità ai parlamentari. Saied ha dalla sua parte l’esercito e gode di larga popolarità. Dietro di lui c’è ovviamente l’Egitto di Al- Sisi. Mentre, a questo punto entra in aperto conflitto con Erdogan, principe e difensore della Fratellanza musulmana a cui è ispirato il movimento Ennahada. Giochi di potere, guerre che investono il Medioriente e l’Africa, riconducibili alle divisioni tra sunniti qatarini ed emirati. Nella lunga estate tunisina non c’è il turismo, principale industria di un Paese allo sconquasso, ad alleviare la povertà. Con questo ultimo terremoto politico c’è solo da aspettarsi nuove migrazioni nel Mediterraneo.
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SABOTAGGIO SAUDAFRICA
Da giorni il Sudafrica è attraversato da proteste e saccheggi. Un picco di violenza e sangue che non veniva riscontrato dai tempi dell’apartheid. Arterie stradali, ferrovie e porti sono stati bloccati. Negozi, centri commerciali e uffici devastati. Il bestiame depredato, fabbriche e cliniche assaltate. Esercito e riservisti dislocati a presidiare e contenere le barbarie. Le stime dei danni sono altissime.
Nel Paese africano, il più colpito del continente dalla pandemia (due milioni di casi e oltre 60mila decessi) e ora nel pieno della terza ondata di contagi, ad accendere la miccia dei disordini è stato l’arresto dell’ex presidente Jacob Zuma, che deve scontare una pena di 15 mesi in carcere per oltraggio alla corte. Per nove anni consecutivi Zuma ha rivestito la massima carica tra scandali ed eccessi, prima di essere letteralmente licenziato con il voto del parlamento e sostituito nel 2018 da Cyril Ramaphosa, che oggi parla di sabotaggio alla democrazia.
Zuma è stato una figura di primo piano dell’African National Congress di Mandela, impegnandosi nella lotta contro il regime segregazionista dei bianchi. A lungo imprigionato e poi in esilio. Molto popolare nelle township e nelle aree rurali del Paese, meno nel Gauteng, il distretto che comprende le due capitali Johannesburg e Pretoria, dove si concentra la classe media e l’élite nera. Zuma, con l’uscita di scena di Mandela, ha contribuito a trasformare l’ANC da movimento di liberazione a partito stato, connotandolo di pratica clientelare ed incline alla corruzione. L’eredità lasciata da questo “maldestro” politico è stata pesante per le casse pubbliche: spese dissennate, svalutazione della moneta, il rand, e crollo del PIL. La condanna inflittagli ha simboleggiato per molti una vittoria dello stato di diritto sugli abusi e la diffusa illegalità impunemente perpetrati in questi anni. Il populista Zuma invece si considera una vittima di una caccia alle streghe ordita nei suoi confronti.
La narrativa propagandistica che ha fatto particolarmente breccia nella comunità zulu, tribù a cui appartiene lo stesso Zuma. E al cui spirito etnico ha fatto appello in sua difesa. Il nazionalismo zulu è una delle componenti delle tante identità tribali del Sudafrica (Mandela ad esempio era di origine xhosa), e rappresenta una evidente minaccia alla tenuta della stabilità sociale se veicolato verso l’estremismo sciovinista. Una miscela che diventa ancora più esplosiva se concatenata ad altri fattori: virus, inflazione, disoccupazione, sistema sanitario vicino al collasso, criminalità, povertà e fame.
Secondo l’ultimo rapporto dell’organizzazione IPC dallo scorso Gennaio, a Marzo 2021 in Sudafrica sono diventate 11,8 milioni (su un’intera popolazione di circa 60 milioni di abitanti) le persone classificate in situazione di allarme alimentare. Disuguaglianze che la pandemia ha finito per acutizzare e Zuma per manipolare. La rinascita africana e la riconciliazione pacifica sognata da Mandela sembrano davvero un lontano ricordo.