LE VICENDE TURCHE

La Turchia è attraversata da un’ondata di violenza inaudita, una catena di attentati che minano la coesione sociale, e dimostrano una pericolosa fragilità dello stato. La fredda mano del giovane folle attentatore che colpisce alle spalle il plenipotenziario di Putin è l’ennesima dimostrazione della fragilità di Ankara. L’enigmatico scenario ha una spiegazione nell’ascesa di Recep Tayyip Erdogan. L’uomo forte di Istanbul salito al potere nel 2003 ha saputo allargare e radicare il proprio consenso in particolare tra la classe media del paese, proponendosi agli occhi e alle tasche della gente come garante incondizionato e soprattutto incontestabile. E così il liberismo islamizzante di Erdogan ha corretto il percorso democratico e laicizzante che avrebbe dovuto portare la Sublime Porta dentro i confini di una nuova Europa. Deviando dagli obiettivi di una grande unione per il progresso e la civiltà: il ponte strategico tra Occidente e Oriente rischia di non essere inaugurato, almeno a breve. Il governo turco ha mostrato al mondo il vero volto di un sultano vendicativo e con lo sguardo al passato: deciso a consolidare il potere personale e allo stesso tempo impegnato a sopprimere il dissenso interno in modo drastico. Mentre il Bosforo sprofondava nel caos tipicamente mediorientale, il terrorismo insanguinava i luoghi pubblici e i militari occupavano i ponti, Erdogan adottava la repressione autoritaria ed estendeva le sue ingerenze sulla regione. Il fallito golpe del 15 luglio, per quanto ingiustificabile, ha avuto l’effetto di rendere la preda a sua volta uno spietato cacciatore. La vittoria schiacciante del leader turco, dovuta sostanzialmente alla discesa in campo del popolo, ha avuto una portata maggiore di un successo elettorale. Gli argini della democrazia e dei diritti umani sono stati spazzati via non con voto plebiscitario ma per acclamazione della piazza. Il giro di vite, il governo che ordina di imprigionare decine di migliaia di presunti golpisti e persone vicine a colui che sarebbe secondo Erdogan il vero ispiratore delle manovre di destabilizzazione, la guida spirituale Fethullah Gulen. La drammatica epurazione tra le fila dell’esercito e della burocrazia, il sistematico arresto di giornalisti non allineati, la sospensione di accademici e insegnanti, sono state le risposte di Erdogan ai propri nemici. E la fine di vecchie amicizie.  Una cosa che ancora oggi sfugge è il fatto che, alla vigilia del colpo di stato, nessuno abbia potuto prevedere che la Turchia sarebbe scivolata nel dramma del Medioriente, assorbita dal vortice di violenza. Il senso comune era che in fondo Ankara è sempre stato un fraterno alleato politico e militare dell’Occidente, un muro all’espansione russa, un affidabile referente nelle tribolate questioni arabe. In pochi sospettavano che Erdogan volesse realmente costruire uno stato islamico sunnita e che tentasse di portare in vita il sogno del ritorno dell’Impero Ottomano, la convinzione più diffusa era che avrebbe preservato l’ordine sociale, con scelte conservatrici ma mantenendo in piedi la struttura dello stato turco costruito da Kemal Ataturk. Così non è stato. Ed oggi la Turchia è un concentrato pronto ad implodere. Con un parlamento senza opposizione e gli effetti della crisi siriana oramai dentro casa. Con la morsa del terrorismo, vuoi per mano dei fondamentalisti dell’Isis o per quella della minoranza curda del PKK e delle sue cellule più o meno affiliate. Le recenti stragi di Istanbul e in Cappadocia rafforzano ulteriormente l’impressione che la Turchia isolandosi è diventata sempre più debole, insicura e instabile, e che le geopolitiche di Erdogan, spinte sino all’alleanza con l’ex nemico Putin, non sono in grado di riportare tranquillità, sviluppo e pace. Il sultano dovrà presto decidere se dispiegare le armate dei giannizzeri ai quattro venti del Vicino Oriente oppure avere una numerosa rappresentanza al parlamento europeo. Le due strade oggi sono incompatibili. E le minacce all’Europa non sono più ammesse.

TRUMP E LA SIRIA

Trump tratta la politica estera come lo stereotipo del giocatore di poker che con sigaro in bocca e bicchiere di whisky in mano rallegra il tavolo da gioco con battute demenziali e scadenti, quanto stia in realtà bleffando, in questo periodo di transizione, lo scopriremo ben presto. Indubbiamente il protrarsi di toni bellicosi nelle concitate settimane che hanno seguito l’esito elettorale non sono di buon augurio, ma la troppa vaghezza e le sintomatiche contraddizioni sul Medioriente potrebbero alla fine spingerlo a più ragionevoli consigli, ovviamente se ci saranno delle colombe e non dei falchi a suggerirgli all’orecchio cosa dire e fare. Delle simpatie del successore di Obama per taluni discutibili leader mondiali già sappiamo abbastanza, personaggi politici che se in Europa non fanno rabbrividire almeno diciamo che non lasciano sogni tranquilli a metà delle capitali del Vecchio Continente. Come non citare ovviamente la quasi referenziale ossessione di Trump per Putin. Vigilia di amichevoli incontri in qualche dacia nelle sperdute tundre caucasiche o in un ranch nel far west, tra abbracci, colbacchi e cappelli da cowboy, fucili da caccia e cartine geografiche da ridisegnare con nuovi confini. USA e Russia restano, ad oggi, le uniche forze in grado di imporre un piano di stabilizzazione per il Medioriente o almeno di risultarne in modo determinante l’ago della bilancia. La sintonia tra la retorica populista del neo presidente della più grande potenza al mondo e la visione imperiale dello zar del Cremlino sono una metamorfosi geopolitica verso la creazione di un nuovo ordine mondiale. Dove la futura collaborazione tra Donald e Vladimir aprirebbe, per ricaduta, uno spiraglio di sopravvivenza al regime di Bashar al-Assad in Siria, a quel punto uomo forte e presentabile alla comunità internazionale come male minore rispetto al caos dilagante e alla presenza dell’Isis nell’area. Eppure più che grande statista amato e adorato dal suo popolo Bashar è un tiranno che massacra e affama la sua gente, tortura gli avversari, rade al suolo interi villaggi. Un leader impresentabile che ha provocato immani sofferenze. L’assedio di Aleppo è il simbolo di un ignobile capitolo della disumanità che si protrae giorno dopo giorno in Siria. Una guerra civile che non risparmia nessuno, dove non c’è tregua o bandiera bianca che venga rispettata: scuole, asili e ospedali sono un bersaglio quotidiano. In Siria c’è una guerra resa ancor più schifosa dall’indifferenza internazionale. In quella regione martoriata l’integralismo islamico ha trovato linfa vitale e creato il suo falso mito, elevandolo a fine supremo. Anche se le milizie del califfato sono in ritirata su quasi tutti i fronti, lasciando dietro di loro una scia di sangue, la battaglia finale è lontana. E nessuno oggi è in grado di predire cosa sorgerà dalle ceneri di questo scontro, non siamo nell’Olimpo greco o nel Valhalla vichingo, siamo nel mondo terreno attraversato da distruzione e dall’incubo di ideologie aberranti. Credere che Trump possa essere la soluzione di tutti i mali non è una fiaba ma una barzelletta di pessimo gusto. Forse però non è nemmeno ciò che da lui pretendono i suoi elettori americani e i suoi sostenitori fuori dai confini statunitensi, in fondo a lui chiedono tutt’altro, qualcosa di assai semplice, appariscente e pacchiano: erigere un muro che impedisca di vedere altrove, porre un velo su quanto avviene oltre il loro piccolo recinto quotidiano. Allora è lecito ancora una volta domandarsi cosa effettivamente farà Trump una volta insediatosi nell’ufficio ovale per risolvere la catastrofe siriana? Agli occhi degli analisti scettici l’indirizzo dell’era trumpiana in Medioriente si preannuncia come benzina sul fuoco di un contesto già altamente esplosivo, oggi purtroppo partiamo da qui.