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DALLA BATTAGLIA DI CAPITOL HILL ALLA CAMPAGNA ANTI-TRUMP

“Prego che non avremo mai più una giornata come quella di un anno fa”, ha detto il presidente Biden ricordando il violento assalto dei sostenitori di Trump al Campidoglio, il 6 Gennaio 2021. Le immagini di Washington vandalizzata nel cuore delle istituzioni democratiche sconvolse il mondo. Un attentato premeditato per impedire di certificare la sconfitta elettorale di Trump. A cui Biden, per la prima volta, ha riversato una serie di pesanti critiche: “Questa non è una terra di re, dittatori o autocrati”. Incolpando senza mezzi termini l’ex presidente di propagandare falsità, di aver insultato la Costituzione e aver “messo i propri interessi sopra quelli del paese”.
Trump è stato il primo presidente americano ad aver ricevuto due impeachment, ma nessuna condanna. Quando, qualche settimana dopo i tristi avvenimenti, il tycoon scelse l’esilio dorato nella residenza di Mar-a-Lago l’attenzione pubblica e mediatica si abbassarono notevolmente. Da allora, passato lo shock iniziale e l’ampia condanna morale, tra le fila dei repubblicani è andato diffondendosi un atteggiamento di tiepida responsabilità del loro leader nell’aizzare la rivolta. Con il passare dei mesi, e parallelamente al declino nei consensi dell’attuale amministrazione, tale messaggio ha cominciato a prendere consistenza. Almeno stando ad un recente sondaggio pubblicato dal giornale britannico the Guardian. Che dimostra come nell’elettorato di destra sia diffuso considerare il drammatico evento di Capitol Hill al pari di una “protesta” (80%) e ritenere coloro che furono di fatto dei golpisti come semplici “manifestanti” (62%). Una parte degli intervistati, stravolgendo completamente la realtà, incolpa apertamente il partito democratico (30%) e la polizia (23%). Mentre, un 20% ritiene responsabili i movimenti di sinistra, del tutto estranei ai fatti. Inoltre, lascia attoniti che il 71% dei repubblicani presi a campione continui a considerare del tutto illegittima la vittoria di Joe Biden. Non sorprende quindi che la stragrande maggioranza dei conservatori (75%) ritenga che non ci sia nulla da “imparare” e che gli Stati Uniti dovrebbero mettere una pietra sopra a questa storia. Approccio che viene riversato anche sull’intenzione di voto. Un terzo dei repubblicani che ha partecipato ai sondaggi afferma di essere propenso a votare per un candidato che si rifiuta di denunciare l’insurrezione. Che, ricordiamolo, ha portato all’arresto di oltre 700 sospettati, 50 dei quali già giudicati colpevoli con pene minime. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone affiliate a gruppi di estrema destra, una potenziale minaccia interna da non sottovalutare. Ad essere politicamente destabilizzante, tuttavia, è anche la crescente deriva antidemocratica del partito di Abraham Lincoln, l’ondata di restrizioni elettorali proposte e approvate nel 2021 in 19 stati è il chiaro segnale di una democrazia in sofferenza. In una nazione, come ha detto Biden, “che è nel mezzo di una battaglia per salvare la propria anima e decidere cosa essere domani”.

ALLA CASA BIANCA L’OSPITE NON E’ BIBI

A Washington, il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dovuto attendere un giorno prima di essere ricevuto dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden nello Studio Ovale della Casa Bianca. Visita riprogrammata a causa del devastante attentato di Kabul, dove hanno perso la vita 13 marines.
Tempi infelici per il successore di Trump con il ritiro dall’Afghanistan a tenere banco, diventato nel corso dei giorni una fuga frettolosa e caotica. Debacle amara e bagnata di sangue che ha provocato non pochi dubbi sulla gestione dell’amministrazione Biden nella regione.
Situazione paragonabile, per memoria storica e vicinanza geografica, ai tragici eventi del 1979, quando l’ambasciata statunitense a Teheran venne assaltata dagli studenti islamici e il personale preso in ostaggio. Crisi che si risolse nel 1981 con l’accordo di Algeri e la fine del sequestro. Ma che intanto era costata la mancata rielezione del presidente democratico Jimmy Carter, travolto dalle critiche. 
Di Carter, l’allora giovane senatore del Delaware Joe Biden, era un protetto e di strada in questi anni ne ha fatta molta: “Ho conosciuto tutti i leader israeliani da Golda Meir in poi”. Ha detto in tono amichevole e paternalistico, durante il lungo faccia a faccia, il quasi ottantenne inquilino della Casa Bianca al suo giovane interlocutore israeliano. Gradito ospite che merita essere ricordato, per la prima volta dopo 12 anni, non era Benjamin Netanyahu.
Bennett – nato ad Haifa da genitori americani nel 2013 eletto alla Knesset ha dovuto rinunciare alla doppia nazionalità – è cresciuto politicamente alla corte di re Netanyahu, prima di venirne cacciato ed intraprendere un percorso solitario nella sfera della destra nazionalista israeliana, alla guida del piccolo partito Yamina. Qualche dote nell’hasbara (parola ebraica che significa saper dare una presentazione positiva e selettiva dei fatti politici che riguardano Israele) in prestito dal leader del Likud pare comunque averla presa, se nei 50 minuti di colloqui è riuscito, con il suo fluente inglese, a strappare a Biden tutte le sue richieste, o quasi. Fra tutte quella più impellente, la promessa che l’Iran “non otterrà mai” un’arma nucleare.
Sebbene Biden ha espresso l’opinione di preferire una soluzione prudente, ha ammesso che ci sono “altre opzioni” sul tavolo in caso di fallimento, probabile, delle trattative. Semaforo verde ad una risposta preventiva israeliana all’Iran, ormai prossimo nell’arricchimento dell’uranio al potenziale raggiungimento della realizzazione di una testata atomica.
Nel momento della più bassa credibilità internazionale a stelle e strisce, il politico di lungo corso e di fede obamiana conferma l’interesse ad un solido rapporto protettivo nei confronti del prezioso alleato mediorientale, offrendo il rafforzamento del sistema di difesa missilistico, in funzione del mantenimento del vantaggio militare sui suoi nemici nella calda area.
Dimostrazione che nell’era di Biden si può lavorare bene e in sintonia anche senza Trump e Netanyahu.

FASCISMO TRUMPIANO

La storia ci insegna che c’è protesta e protesta, c’è una profonda differenza tra legittimo dissenso e il tentativo, sleale, di demolire alle fondamenta le istituzioni. L’assalto al cuore politico di Washington è un attentato alla democrazia e non può essere messo sullo stesso piano dei tumulti nelle Università dell’Oriente. I seguaci di Trump rappresentano una generazione di protofascisti, violenti squadristi con valori pericolosi, esempio sconcertante ed inquietante di inciviltà vandalica. Altra cosa sono le dimostrazioni che nel 2020 hanno dato voce agli studenti. A Nuova Delhi lo scorso Dicembre la polizia è entrata in un campus armata di scudi e manganelli, sparando lacrimogeni, picchiando ed insultando chi criticava le decisioni incostituzionali del governo, che mettono a rischio la laicità dell’India. In Turchia la polizia in assetto antisommossa ha disperso con la forza i manifestanti all’ingresso dell’Università Bogazici. A Istanbul lottano per mantenere l’indipendenza dell’istruzione e non accettano la nomina voluta personalmente dal Sultano Erdogan del nuovo rettore, Melhi Bulu. Esponente del partito islamista AKP del presidente e considerato un fedelissimo di corte. Le politiche di Erdogan hanno fatto scendere le tenebre sul Bosforo. La porta verso l’Asia è diventata un pozzo senza fondo di ingiustizie e soprusi con arresti indiscriminati e il permanente bavaglio alla stampa. La vendetta, dopo il fallito colpo di stato, non ha riguardato solo i protagonisti ma tutta l’opposizione, tacciata di terrorismo. Ad Hong Kong dopo mesi di contestazioni è l’ora del “ritorno” all’ordine, imposto dal governo locale e sollecitato dalle pressioni della Cina. Nell’ex colonia britannica con il nuovo anno decine di attivisti sono stati arrestati con l’accusa di attentare “al potere e allo stato”. Incolpati di essere traditori al servizio di potenze straniere e pericolosi sovversivi.

A Teheran un’anno fa veniva repressa la rivolta degli atenei, che ciclicamente contestano la brutale dittatura degli ayatollah, rischiando la vita. La miccia che allora fece scattare la piazza iraniana fu l’abbattimento di un velivolo civile. A Bangkok il movimento studentesco ha preso un periodo di pausa festiva, stop ai cortei fiume che hanno attraversato e colorato pacificamente la capitale. Promettono di non arrendersi e voler tornare con maggiore intensità nel nuovo anno. In questi mesi i giovani thailandesi sono arrivati persino a sfidare il re Maha Vajiralongkorn, mettendone in discussione assurdi privilegi di casta. Invocano una nuova costituzione ed elezioni libere per l’antico Siam. Nell’era della pandemia la passione, e il sogno, per la democrazia non è venuta meno. Il virus ha imposto misure restrittive, talvolta strumentalmente manipolate dalle dittature per silenziare il dissenso. In altri casi ignobilmente si è scelto di negare il coronavirus, e dare adito ad allucinanti e vergognose teorie del complotto. Tesi fallaci e criminali. Trump ci ha lasciato anche questo triste ricordo.

L’ULTIMO VIAGGIO DEL TRUMPISMO

Il viaggio del segretario di stato statunitense Mike Pompeo in Israele è probabilmente una delle ultime pagine della politica estera di Trump in Medioriente. L’ormai pro tempore presidente, prima del commiato, ha voluto ringraziare, e rassicurare, pubblicamente gli alleati. Dedicandogli il tour finale delle visite ufficiali di stato. Ha inviato, il fedelissimo Pompeo a manifestare sentita amicizia a Netanyahu e profonda solidarietà alla destra nazionalista israeliana. In Terrasanta, in un mix di gesti simbolici, retorica e propaganda, l’ex direttore della CIA ha ripercorso il cammino dell’amministrazione Trump in questo quadriennio. Rendendo omaggio alle decisioni più significative del mandato presidenziale: dal riconoscimento ad Israele del Golan, a quello dei prodotti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. La visione di pace di Trump lungimirante o meno, ha indubbiamente introdotto una svolta di approccio significativo. Senza rimuovere gli ostacoli alla trattativa israelopalestinese, ha nascosto le criticità del contesto offrendo un’unica non concordabile soluzione. Gelando le attese dei palestinesi e allargando lo spiraglio di normalizzazione tra Israele e il mondo arabo. Fardello che viene lasciato in eredità a Biden. Investito a questo punto del compito di riportare al tavolo la controparte palestinese, ormai, dopo la recente scomparsa di Saeb Erekat, priva di una classe di credibili negoziatori. Orfana di figure di spessore che non siano riconducibili alla casta di Fatah o all’organizzazione terroristica di Hamas. Non è escluso che Biden valuti attentamente l’opzione di una terza via. Quella dell’élite palestinese con passaporto americano, imprenditori di successo o intellettuali vicini al partito democratico. Se Arafat portò ad impiantarsi alla Muqata di Ramallah la corte di Tunisi, Biden potrebbe fare altrettanto con una nuova generazione di governanti. Sul versante israeliano Netanyahu, con il cambio nei palazzi di Washington, ha effettivamente il rischio di vedersi obbligato ad accettare qualche compromesso, mostrando segnali distensivi che ne minerebbero l’indiscussa leadership nel proprio campo politico. Nel 1953 con l’uscita di scena del democratico Truman e l’elezione del repubblicano Eisenhower vi fu un repentino capovolgimento, e deterioramento, delle relazioni tra USA e Israele. Fu la prima storica rottura. L’entratura con il potente protettore traballava, e l’allora premier Ben Gurion per evitare l’isolamento incominciò a guardare con interesse a Londra e Parigi. Strategia che irritò sicuramente Eisenhower. Poi Israele, preso atto della debolezza del vecchio imperialismo, tornò mestamente sotto l’ala di Washington. Oggi, Netanyahu si trova nella medesima condizione affrontata da Ben Gurion, avendo perso le influenze che aveva sulla Casa Bianca a marchio Trump. Per il “falco” della destra l’eventuale ricerca di uno spazio di manovra alternativo è assai limitato, la manifesta idiosincrasia per l’Europa lascia aperta la porta di Mosca. E l’abbraccio non proprio affidabile di Putin.

IL NEGOZIATORE

C’è un antico proverbio arabo che recita: un uomo che non possiede neppure un pezzetto di terra non è un uomo. Lo si sente ripetere spesso in Palestina. In un lembo di terra che non è ancora uno stato. E qualcuno forse pensa non lo diventerà mai. Tra coloro che hanno continuato a credere nella soluzione di due popoli, palestinesi ed israeliani, per due stati, merita essere annoverato Saeb Erekat: politico e negoziatore palestinese, spentosi all’età di 65 anni all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. Dove era giunto in condizioni critiche a causa del Covid. Ci lascia una figura chiave del Medioriente contemporaneo. Prominente esponente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Se ad Arafat è stato affibbiato il soprannome di Mr Palestine non c’è dubbio che Erekat passasse per Mr Gerico, città e governatorato dove viveva e ha incarnato il ruolo di rais. In quella antica oasi e città biblica sulle sponde del Mar Morto in giovane età aveva frequentato la scuola francescana imparando qualche parola d’italiano. Anni fa ci disse che era fiero che anche i figli andavano in quello stesso istituto.

Poco distante dall’antico palazzo dei califfi e dalle pendici del Monte delle Tentazioni si ergeva la sua Muqata, una miniatura di quella di Ramallah. Lì era solito incontrare le delegazioni e rilasciare interminabili interviste, accompagnate da ettolitri di caffè e montagne di datteri. Tra le sue doti non aveva la puntualità. È stato una costante presenza nei media anglosassoni, vuoi per la perfetta grammatica inglese o per la qualità dei commenti. Aveva costruito il proprio riconoscimento partecipando all’accordo di pace di Oslo. Dietro alla firma in calce che incornicia insieme i tre leader Rabin-Peres-Arafat c’è il lavoro oscuro delle seconde file, i negoziatori della trattativa, un pò diplomatici e un pò cacciatori di teste. Nomi meno noti. Come quello dell’attivista israeliano Ron Pundak, scomparso prematuramente nel 2014, che di quell’evento storico è una delle colonne portanti. Furono proprio Pundak, fiduciario di Shimon Peres, ed Erekat, insignito plenipotenziario di Arafat, i primi a sedersi al tavolo e capirsi. Poi qualche tempo dopo quell’architrave cominciò a rotolare, ma la colpa della violenza che si generò non fu certo loro, al contrario. In quanto colombe e difensori del processo di dialogo si trovarono ben presto in una situazione assai scomoda. Pundak è stato tacciato di essere un filopalestinese, e quindi un traditore. Erekat non se la passò meglio con Arafat, che rivolgendosi a lui era solito apostrofarlo: “l’amico degli israeliani”. C’è addirittura chi gli rimproverava che Gerico non avesse mai dato un martire alla causa. Di lui non si è mai parlato come di un possibile erede ad Abu Mazen. Hanno sicuramente pesato le critiche che gli sono piovute addosso anche dentro Fatah. Nel corso degli anni ha sposato la dottrina del pessimismo. Non vedeva nulla di buono per il futuro dei palestinesi e nella visione di Trump per risolvere il conflitto. Restano, oggi, le sue promesse di pace che l’ex inquilino della Casa Bianca non ha però nemmeno voluto ascoltare.

BOJO IL POCO SERIO

“La vita non può tornare alla normalità”, almeno per ora. Ha ammesso il primo ministro britannico Boris Johnson. Eccentrico ed istrionico politico anglosassone. Crociato della hard Brexit. Populista e sodale di Trump. Ha prima sconfessato la pericolosità del virus per poi convertirsi, dopo essere finito in terapia al Saints Thomas’s Hospital a Londra in condizioni cliniche realmente serie. Duro con Bruxelles e debole nel prendere decisioni nella lotta al coronavirus. Sulla cui questione ha demandato pieni poteri al segretario alla sanità Matt Hancock.
Lentezze nella definizione della strategia di contrasto alla pandemia sono valse non poche critiche all’operato di governo. Lontano il successo elettorale del 2019, dovuto indubbiamente alla sua trascinante personalità. Oggi, ha perso appeal sul pubblico. L‘esecutivo da lui presieduto ha iniziato ad oscillare pericolosamente, mettendo in bilico la sua poltrona.
Il nome insistentemente invocato per sostituirlo è quello del giovane ministro delle finanze, e cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, che, tuttavia, nega di essere il predestinato alla successione. Avere in mano in questo momento specifico il cordone della borsa, le armi per affrontare la crisi economica, è un punto, se giocato bene, a suo vantaggio per il dopo Johnson.
Intanto, in aula del parlamento a spingere per defenestrare l’attuale premier sono il laburista Sir Keir Starmer, successore dello sbiadito Corbyn e impegnato a ricostruire la credibilità del movimento, ma anche una parte del partito conservatore. Quella referente all’ala più moderata e conciliante nella trattativa da tenere con l’Unione europea sulle clausole di distacco.
La ribellione interna ai Tories è montata parallelamente al diffondersi dei contagi. L’accusa principale è di aver perso il controllo in un momento drammatico per il Paese. Sbeffeggiato dai tanti casi di “covidioti”. Screditato nei sondaggi. Stretto tra le richieste di un’azione meno confusa e dalle pretese dei ferventi libertari a non accettare l’introduzione di misure di restrizione “coercitive”, considerate assurde e troppo severe.
L’ex sindaco di Londra viene annoverato insieme ai sovranisti, Trump e Bolsonaro, tra gli scettici al virus. È stato il primo esponente della lista dei negazionisti a risultare positivo alla malattia. Ha inizialmente indicato la strada dell’immunità di gregge per uscire dall’epidemia. Per ripensarci ed affidarsi al futuro vaccino di Oxford. Potrebbe non mangiare il panettone a Downing street a Natale. Se invece calma le acque lo scoglio è spostato a primavera con le amministrative, dal quel risultato dipende il suo futuro.
D’altronde l’unico assolutamente certo della propria permanenza in carica è il presidente brasiliano. Mentre, Trump alla Casa Bianca e Johnson al Numero 10, tra voto presidenziale e maggioranza a Westminster sono ad un passo dal flop. Colpa del Covid e delle loro megalomani e strambe idee.

DEM O REP, LO SHOW DELLE CONVETION

Pochi giorni fa alla convention democratica 2020 uno dei commenti amareggiati era rivolto al fatto che nella chiusura mancava il classico lancio di palloncini in aria a salutare la sfida di Joe Biden. Donald Trump, invece, ha fortemente voluto una coreografia solenne e la standing ovation della folla (largamente senza mascherina) per la sua incoronazione. Lo show della politica a stelle e strisce ha dovuto adeguarsi alla pandemia, rinunciando ad alcuni tradizionali cliché. In un paese che oltre all’esponenziale contagio da Covid19 è infettato dal razzismo, attraversato da violente tensioni sociali, spazzato ripetutamente da devastanti uragani. Tra il sipario abbassato all’evento democratico di Milwaukee e la serata finale della nomination repubblicana, decentrata per protagonismo ed effetto televisivo nei giardini della Casa Bianca, è trascorsa una settimana. Se la kermesse di Biden ha avuto come filo conduttore l’incapacità di Trump, il presidente ha contrattaccato con lo spauracchio del voto postale truccato ed il pericolo socialista. Ai principi di giustizia e uguaglianza invocati dalla Harris, che affianca Biden, ha replicato il vicepresidente Pence richiamando i valori di legge e ordine. In uno scontro dove la retorica della sanità pubblica obamiana e lo slogan del taglio alle tasse reaganiano sono oramai riconosciuti brand di fabbrica delle due forze politiche. Ciascuna con un proprio linguaggio: la sottile satira dell’attrice democratica Julia Louis-Dreyfus contrapposta alle urla incendiarie di Kimberly Guilfoyle, ex presentatrice di Fox News e partner di Trump junior. Immancabili le luci sulle due first lady, Jill che parla tra i banchi vuoti della scuola di Wilmington, Melania tra le rose della residenza presidenziale. Due format distinti nell’immagine proiettata al pubblico, quella sobria che ruota intorno all’unità nel partito e quella più appariscente che esalta il capofamiglia della dinastia. Nel 2016 il tycoon, reduce dalla conduzione di un fortunatissimo reality, era riuscito a catalizzare anime differenti sotto la bandiera dell’elefantino statunitense: establishment conservatore, evangelici e cattolici antiabortisti, classe media e destra alternativa, coacervo di suprematisti e paranoici cospirazionisti. In questi quattro anni l’irrequieto e irascibile miliardario ha licenziato una moltitudine di consiglieri, a partire dallo stratega della vittoria elettorale Steve Bannon, bandito da corte, esiliato in Italia e recentemente arrestato per frode. Hanno “congiurato” per impedirne la rielezione un gruppo di dirigenti repubblicani, denominati Lincoln project. Ha rotto con i potentati dei Bush e dei McCain, con personalità come Colin Powell e John Kasich. Ciononostante, oggi l’immobiliarista newyorchese non è ancora fuori gioco. Se The Donald vincesse nelle urne il 3 novembre avrebbe ipotecato il dominio di un partito che non è mai stato completamente suo. Se dovesse perdere – e non abbiamo ancora capito nemmeno cosa avrebbe fatto nel caso della vittoria della Clinton – possiamo aspettarci la trumpata del secolo.

IL FUTURO CIRCOLO DELLA PACE E QUELLO DELLA GUERRA

Le comuni radici bibliche e coraniche sono solo un aspetto esteriore dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, formalizzato con il beneplacito della Casa Bianca. Nella tela di fili tessuta internazionalmente da Trump c’è un nodo: la Palestina. Mentre, il buco della trama trumpiana è l’Unione europea, marginalizzata e ininfluente nelle dinamiche geopolitiche.

Quando al termine di una cena di gala a Tel Aviv chiedemmo a Shimon Peres – tre anni dopo sarebbe stato eletto presidente – se pensasse che l’allargamento dell’Ue avesse dovuto abbracciare anche la costa meridionale del Mediterraneo, la risposta fu: “Why? Perchè? Sarebbe un’idea sbagliata. Questa è la nostra casa con i suoi vicini, la tranquillità arriverà, inesorabilmente”. Dalla nascita, nel ’48, fino al governo populista di Netanyahu l’impostazione della politica estera israeliana è stata di discostarsi il meno possibile dalle indicazioni di Washington. Un arco temporale in cui Israele è stato stretto tra l’incudine dell’ottusità del mondo arabo arroccato nel voler continuare a riconoscere questo piccolo stato come un’entità estranea al Medioriente. E il martello del conflitto insoluto con i palestinesi: lo status di Gerusalemme Est, l’occupazione in Giudea e Samaria, le politiche di espansione coloniale.

Gli accordi di pace con l’Egitto a Camp David, quelli di Wadi Araba con la Giordania, le collaborazioni commerciali di Tel Aviv con la Turchia e oggi il canale diretto con Abu Dhabi sono passi importanti in una regione ibrida e tribale, poco democratica e per nulla liberale. L’annunciato trattato “Abramo”, tra Israele e gli EAU, è un corollario del progetto di conciliazione lanciato in pompa magna da Trump, era pre-coronavirus, lo scorso dicembre: Pace nella prosperità. Il piano, quello che il presidente statunitense ha definito l’accordo del secolo per palestinesi ed israeliani, non è un’idea inutile, ma una scatola vuota. Fumosa e avulsa dalle “sensibilità”. Quindi, difficilmente applicabile, praticamente irrealizzabile. Innegabilmente, l’intesa con gli emiri è una vittoria diplomatica di Netanyahu, pagata al prezzo di congelare l’annessione di parti della Cisgiordania. Rappresenta, al tempo stesso, l’ultima sconfitta politica della classe dirigente palestinese post Arafat. Dimostra che l’approccio della Lega araba nei confronti di Israele è in una fase di rapido cambiamento, irreversibile. Il cerchio della pace è in espansione, altri stati, dall’Oman al Sudan, muovono verso la normalizzazione dei rapporti, attraverso trattative più o meno segrete che Netanyahu ha affidato, non a caso, al Mossad. L’evoluzione dello scenario è dovuto a l’impellente necessità delle monarchie sunnite del Golfo di stringere una doppia alleanza strategica: contro l’accerchiamento dell’Iran sciita e di contenimento delle ambizioni imperialiste di Erdogan. Due vulcani attivi. In questo quadro la chiamata del principe Mohammed bin Zayed all’ex nemico sionista è eloquente.

HOMELAND PRESIDENZIALI 2020

Nelle presidenziali USA è tempo di convention. Al via nei prossimi giorni le tradizionali kermesse, prima il 17 agosto i Democratici, subito dopo i Repubblicani. Intanto vengono ufficializzati i vice, che affiancheranno nella corsa Trump e Biden. Per il repubblicano lo scontato Mike Pence, una vera novità per il democratico, Kamala Harris. Causa pandemia – primo paese al mondo per numero di contagiati da Coronavirus – il comitato nazionale democratico ha sconsigliato ai delegati di presenziare personalmente all’evento di Milwaukee, invitandoli a partecipare in remoto. Virtuale anche la presenza dell’anti Trump, Joe Biden è sigillato da settimane tra le mura domestiche. Nell’altra sponda politica il virus ha ridimensionato il programma dei repubblicani: scartata la Florida la scelta più plausibile è la Nord Carolina, mentre dall’Ufficio Ovale si preferirebbe la Casa Bianca o Gettysburg. Luogo in cui si svolse la celebre battaglia, il primo luglio del 1863, decisiva per le sorti della guerra civile americana. Il mito di Gettysburg è onnipresente nell’immaginario collettivo statunitense. Tanto che gli autori della famosa serie Homeland fecero di quella location simbolica lo sfondo alla tormentata scelta del marines Brody di schierarsi contro le proprie istituzioni: tradire per mantenere fede ai propri ideali, sbagliati o meno. Combattuti sotto la bandiera confederata o nordista. Gli ultimi sondaggi elettorali sono impietosamente a favore dell’ex vice di Obama: la forbice pronosticata varia tra 15 e 8 punti di differenza, a seconda dell’emittente che ha commissionato la ricerca. Ma come ci insegna l’esperienza del 2016 la vittoria di Donald fu soprattutto “uno smacco umiliante per i mezzi d’informazione e per gli istituti di sondaggi”. Il partito democratico non è lo stesso di 4 anni fa, quando il gruppo dirigente era fortemente influenzato dai Clinton. Oggi, prevale la linea di Obama. La nuova era è legata al prestigio di Kamala Harris e alla moderazione di Biden, entrambi espressione obamiana. La Harris, che si definisce battista e il cattolico ex governatore del Delaware, hanno tuttavia da recuperare lo svantaggiato ai blocchi di partenza della fascia del Bible Belt, le regioni dove sono culturalmente dominanti i protestanti, bianchi e fondamentalisti. Un elettorato che propende ideologicamente a destra, che però potrebbe “inaspettatamente” rivoltarsi contro il candidato naturale. L’amministrazione Trump è imbrigliata tra la combinazione negativa dell’economia, nel breve e lungo periodo, e la pressione mediatica degli scandali, interni ed esterni. Con il 2020 Trump ha deragliato consensi sia sulla questione della protesta sociale della componente afroamericana che sulla gestione dell’emergenza covid. Henry Kissinger era solito dire: “un leader non è tenuto a correre dietro ai sondaggi d’opinione, ma a preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni”. A condizionare l’esito, a questo punto, sono solo il voto postale e la scoperta, eventuale, del vaccino.

FINE DI UNA “AMICIZIA”

Mentre Trump enfatizza “l’accordo del secolo”, 181 pagine di propositi, progetti e mappe geografiche, per dare una soluzione all’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, questi ultimi replicano di aver ricevuto “uno schiaffo storico”. Due punti di vista completamente opposti. Inconciliabili. Il processo di pace in quella terra martoriata dai conflitti, ancora una volta, imbocca una strada a senso unico. Appunto, nessuna via d’uscita se non quella dell’unilaterale. Eppure, la leadership palestinese di Ramallah con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca aveva dimostrato apertamente un certo ottimismo per il nuovo corso post Obama. Appena insediatosi il neo presidente statunitense aveva ricevuto apprezzamenti dalla Muqata: Abu Mazen si era detto certo che il miliardario newyorchese “avrebbe sbalordito” e rilanciato i negoziati con un interessante approccio. Poco dopo, Jason Greenblatt inviato di Trump per il Medioriente fu ben accolto al suo arrivo nella regione, proverbiale ospitalità palestinese terminata con scambio di offese e rottura dei rapporti. Oggi Greenblatt è dimissionario da quel ruolo diplomatico immane, svolto unicamente in funzione della dottrina del suo capo, tra difficoltà insormontabili, con il crescente divario dal lato palestinese e l’avvicinamento alle posizioni della destra israeliana. A maggio del 2017, Abu Mazen e Trump si incontrano a Washington, il successore di Arafat esprime soddisfazione all’omologo per non aver trasferito l’ambasciata degli USA a Gerusalemme, come aveva promesso in campagna elettorale. Trump commentò che era un atto dovuto per riaprire lo spiraglio di dialogo, e “massimizzare le probabilità” di riuscita della futura soluzione. Secondo alcuni analisti è stata la prima e ultima volta che il presidente a stelle e strisce ha tentato “realmente” la mediazione tra le parti, da una posizione di neutralità, super partes. E allo stesso tempo con quella scelta di campo, che non durerà molto, ha offerto una finestra ai suoi più stretti collaboratori, proprio Greenblatt e il genero Jared Kushner, le due “colombe” che volavano sulla Terra Santa in suo nome.

Quando a dicembre 2017 Donald Trump annuncia al mondo di voler spostare l’ambasciata di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, contrariamente alla posizione della Comunità internazionale che su questa decisione si romperà perdendo lentamente pezzi, in poche ore si consuma la fine delle relazioni con i palestinesi e allo stesso tempo si palesa il futuro fallimento della missione di Kushner. Per l’Autorità Nazionale palestinese il percorso imboccato dall’amministrazione americana non è accettabile. Il piano di pace viene ufficialmente boicottato. Scattano le prime ritorsioni di Trump, i tagli al budget dedicato agli aiuti alla Palestina. Poi finalmente a gennaio 2020 annuncia miliardi per i palestinesi se accetteranno le sue condizioni. Intanto ha scatenato la collera e il rifiuto palestinese di continuare a collaborare. La Lega araba è con loro nella protesa, ma con qualche distinto.