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LA PARTITA DEL MEDIORIENTE DI BIDEN

Il segretario di stato statunitense Antony Blinken in tre delicati giorni ha fatto la sponda tra il Cairo, Gerusalemme e Ramallah. Il tessitore della diplomazia della Casa Bianca si è fatto latore dell’invito alla calma di Biden difronte all’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi. Missione se non impossibile altamente improbabile per Blinken. Infatti, a tenere banco nel faccia a faccia tra Blinken e il premier Netanyahu non è stata la questione israelo-palestinese, bensì altre criticità globali che si intrecciano. L’Iran arma la Russia nella campagna di invasione dell’Ucraina. E Mosca fa orecchie da mercante sulla brutale repressione al movimento di protesta da parte del regime sciita. Alla luce dello scenario attuale la Casa Bianca ritiene che lo spazio diplomatico per un accordo sul nucleare con Teheran sia da considerarsi morto e sepolto. Il messaggero di Biden ha confermato che gli USA concordano con Israele sull’importanza di prevenire un Iran militarmente nuclearizzato. Era quello che in fondo Bibi voleva sentirsi dire. E passi che Blinken gli abbia tirato le orecchie sulla riforma giudiziaria che l’esecutivo vorrebbe introdurre. Decisione che ha portato in piazza migliaia di israeliani in difesa del ruolo della Corte Suprema e della democrazia.

In sintesi, la politica estera di Biden in Medioriente è un mezzo buco nell’acqua, almeno ad oggi. Buoni propositi, tante parole ma pochi fatti. Perfettamente in linea con quanto ereditato dai suoi predecessori, nulla di più e niente di meno. Eppure, da uno statista di lungo corso e attento conoscitore della regione ci si sarebbe aspettato uno sforzo maggiore. Invece, l’approccio di fondo è stato quello di evitare di commettere imprudenze e farsi impantanare in qualche guerra logorante. Privilegiando, quando possibile, e sostenendo, a spada tratta, gli affari: nel rispetto della consolidata tradizione della centralità degli stati del Golfo. Nel caso dell’Egitto, nell’arco del mandato, la Casa Bianca ha rafforzato le relazioni, anche personali, tra i due presidenti. Al contrario di quanto si pensava inizialmente, quando lo stesso Biden, sia in campagna elettorale che nei primi mesi in carica, aveva dimostrato forti attriti nei confronti di Abdel Fattah el-Sisi. Alla fine, tuttavia, ha prevalso la ragione che l’Egitto resta un partner geograficamente strategico: il canale di Suez è un punto nodale per spostare velocemente la flotta dal teatro del Mediterraneo a quello, sempre più caldo, del mare della Cina e il lavoro dei servizi segreti egiziani nella Striscia di Gaza è un utile strumento di mediazione. Elementi talmente indispensabili che le divergenze tra il Cairo e Washington sui diritti umani e democrazia sono state riposte nell’armadio, insieme ad altri scheletri. Tono conciliante, almeno a parole, persino con Netanyahu. Il quale dopo la formazione del governo di estrema destra è stato messo sotto osservazione da Biden. Seppure i due si conoscono da tempo, e siano amici, il presidente americano sa benissimo di non potersi fidare. Netanyahu è un principe di machiavellismo, difficile da contenere. Spregiudicato al punto da essersi contornato da un miscuglio di nazionalisti, ortodossi religiosi, razzisti e neofascisti, che rendono la sua nuova ricetta di governo imbarazzante e pericolosa. Comunque, se dovesse sopraggiungere la burrasca è chiaro che la Casa Bianca non arretrerà di un metro dal processo di “normalizzazione” degli stati arabi verso Israele, introdotto da Trump con gli Accordi di Abramo. Peccato, come abbiamo scritto altre volte, che in quello schema logico manchino ancora dei tasselli, non ultimo quello della presenza dei palestinesi. Ai quali gli USA hanno riaperto i rubinetti dei fondi, dopo l’interruzione degli aiuti della precedente amministrazione. Che considerò insolente il rifiuto di Abu Mazen a sedersi al tavolo delle trattative, e per questo l’ha punito in modo esemplare. Ora i rapporti sono decisamente migliorati, ma sussiste qualche latente frizione. Biden, ad esempio, non ha gradito il silenzio della Muqata sul recente attentato alla sinagoga di Neve Yaakov, quartiere della periferia di Gerusalemme. Condanna che Abu Mazen non avrebbe pronunciato trincerandosi dietro il “suicidio politico” per l’accresciuta rabbia palestinese dopo i fatti di Jenin. L’erede di Arafat avrebbe però confermato che l’Autorità palestinese è pronta a riprendere il coordinamento sulla sicurezza con Israele appena gli animi si saranno placati. Pare lampante che la debolezza di Abu Mazen nel mantenere ordine è un altro punto dolente e serio della questione.

Mentre, sul fronte opposto il governo di Netanyahu in risposta all’ondata terroristica che ha sconvolto il Paese ha approvato una serie di misure punitive, dal dubbio effetto. In un sondaggio condotto da iPanel lo scorso novembre la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non credere che Netanyahu sia in grado di combattere il terrorismo. Pessimisti? No, è semplicemente la realtà.

5783

Manca oramai poco meno di un mese al voto in Israele, che anticipa qualche giorno le elezioni di midterm statunitensi. Il 1 novembre 2022 sarà la quinta volta che gli israeliani tornano alle urne in meno di 4 anni. Nei recenti sondaggi i due principali blocchi, quello pro e quello anti-Netanyahu, non ottengono la maggioranza qualificata 61 seggi. La coalizione di destra che sostiene il falco del Likud sarebbe comunque leggermente sopra gli avversari.
In generale i sondaggi accreditano il partito di Netanyahu primo nel Paese, con almeno 8 seggi di vantaggio sulla forza Yesh Atid, guidata dallo sfidante e attuale premier ad interim Yair Lapid. Staccati di molte lunghezze le altre compagini che compongono il panorama politico della futura Knesset. Dove entreranno a rinforzare le file dell’uno o dell’altro schieramento: ortodossi religiosi, nazionalisti, centristi, ex-likud ed ex generali, laburisti, sinistra sionista e movimenti arabi. Oh almeno ci sperano.
Gli israeliani, secondo quanto si evince dal canonico sondaggio della vigilia del capodanno ebraico (che ha segnato l’inizio del 5783), si aspettano un anno migliore di quello passato. Con un cauto ottimismo l’opinione pubblica crede che le cose andranno meglio o al massimo non peggioreranno (59% degli intervistati). Il 21% invece è convinto del contrario. Mentre, il 20% attende di vedere i prossimi sviluppi, a partire proprio dall’esito delle incombenti elezioni politiche.
Il prefigurare della perdurante instabilità è avvertita da Ronen Bar, direttore dello Shin Bet (agenzia dell’intelligence per gli affari interni), come un problema preoccupante per le dirette conseguenze sulla sicurezza del Paese. L’immagine di uno stato che dal 2019 non riesce a trovare una quadra, e allo stesso tempo vede crescere esponenzialmente le divisioni, è sintomatica di un malessere esistente, diffuso e condiviso con altri stati occidentali.
Nel caso israeliano tuttavia le ramificazioni della crisi politica potrebbero comportare ricadute a breve termine sul piano regionale, Hezbollah e Iran sono un assillante imprevedibile pericolo alla porta. Ma non l’unico, da mesi i funzionari della sicurezza israeliana infatti continuano a porre la questione dell’implosione in atto nella Cisgiordania. La Muqata di Ramallah replica accusando a sua volta i continui raid militari dell’IDF come elemento delegittimante del proprio ruolo. Sul piano internazionale l’amministrazione Biden non nasconde i propri timori per il rapido deterioramento del contesto.
Palestinesi ed israeliani non hanno alternative che trovare un punto comune d’incontro che vada oltre lo status quo attuale e le pretese ingiustificabili. Il crollo dell’Autorità palestinese può avvenire da un momento all’altro. In queste settimane il premier, in scadenza, Lapid ha rilanciato sul piano diplomatico la soluzione dei due stati, ma anche in questo caso il consenso popolare all’idea è molto basso. A Gerusalemme vale come del resto a Roma il motto omnia cum pretio. E non tutti, di qua e di là dal muro sono disposti a pagarlo per raggiungere la pace.

DALLA BATTAGLIA DI CAPITOL HILL ALLA CAMPAGNA ANTI-TRUMP

“Prego che non avremo mai più una giornata come quella di un anno fa”, ha detto il presidente Biden ricordando il violento assalto dei sostenitori di Trump al Campidoglio, il 6 Gennaio 2021. Le immagini di Washington vandalizzata nel cuore delle istituzioni democratiche sconvolse il mondo. Un attentato premeditato per impedire di certificare la sconfitta elettorale di Trump. A cui Biden, per la prima volta, ha riversato una serie di pesanti critiche: “Questa non è una terra di re, dittatori o autocrati”. Incolpando senza mezzi termini l’ex presidente di propagandare falsità, di aver insultato la Costituzione e aver “messo i propri interessi sopra quelli del paese”.
Trump è stato il primo presidente americano ad aver ricevuto due impeachment, ma nessuna condanna. Quando, qualche settimana dopo i tristi avvenimenti, il tycoon scelse l’esilio dorato nella residenza di Mar-a-Lago l’attenzione pubblica e mediatica si abbassarono notevolmente. Da allora, passato lo shock iniziale e l’ampia condanna morale, tra le fila dei repubblicani è andato diffondendosi un atteggiamento di tiepida responsabilità del loro leader nell’aizzare la rivolta. Con il passare dei mesi, e parallelamente al declino nei consensi dell’attuale amministrazione, tale messaggio ha cominciato a prendere consistenza. Almeno stando ad un recente sondaggio pubblicato dal giornale britannico the Guardian. Che dimostra come nell’elettorato di destra sia diffuso considerare il drammatico evento di Capitol Hill al pari di una “protesta” (80%) e ritenere coloro che furono di fatto dei golpisti come semplici “manifestanti” (62%). Una parte degli intervistati, stravolgendo completamente la realtà, incolpa apertamente il partito democratico (30%) e la polizia (23%). Mentre, un 20% ritiene responsabili i movimenti di sinistra, del tutto estranei ai fatti. Inoltre, lascia attoniti che il 71% dei repubblicani presi a campione continui a considerare del tutto illegittima la vittoria di Joe Biden. Non sorprende quindi che la stragrande maggioranza dei conservatori (75%) ritenga che non ci sia nulla da “imparare” e che gli Stati Uniti dovrebbero mettere una pietra sopra a questa storia. Approccio che viene riversato anche sull’intenzione di voto. Un terzo dei repubblicani che ha partecipato ai sondaggi afferma di essere propenso a votare per un candidato che si rifiuta di denunciare l’insurrezione. Che, ricordiamolo, ha portato all’arresto di oltre 700 sospettati, 50 dei quali già giudicati colpevoli con pene minime. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone affiliate a gruppi di estrema destra, una potenziale minaccia interna da non sottovalutare. Ad essere politicamente destabilizzante, tuttavia, è anche la crescente deriva antidemocratica del partito di Abraham Lincoln, l’ondata di restrizioni elettorali proposte e approvate nel 2021 in 19 stati è il chiaro segnale di una democrazia in sofferenza. In una nazione, come ha detto Biden, “che è nel mezzo di una battaglia per salvare la propria anima e decidere cosa essere domani”.

BIDEN E LA PARTITA A BRISCOLA CON LA CINA

La “NATO asiatica” non è più solo un laboratorio astratto di concetti ed idee. Una vera e propria alleanza strategico-militare in chiave anti-cinese sta prendendo forma, e le ultime mosse diplomatiche della Casa Bianca nella regione ne sono la prova evidente.
Pochi giorni fa l’annuncio di Joe Biden, del britannico Boris Johnson e del premier australiano Scott Morrison di aver formalizzato un partenariato per la sicurezza nell’Indo-Pacifico, dal nome AUKUS (acronimo dei tre stati firmatari). Nel pacchetto è prevista la realizzazione di sottomarini nucleari. Motivo questo di veementi rimostranze di Parigi, che si è vista saltare una commessa miliardaria con Canberra.
La seconda mossa di Biden per tentare di mettere sotto scacco Pechino è stato l’incontro, a latere della Conferenza Generale delle Nazioni Unite, dei membri del Quad (Quadrilateral Security Dialogue), alleanza informale a cui aderiscono Australia, Giappone, India e Stati Uniti. La funzione di questo “esclusivo” club del mercato “libero e aperto” è contenere l’imperialismo del Dragone. E rastrellare materiali semiconduttori per l’industria.
Per una Kabul persa il Pentagono ha ottenuto un forte riposizionamento in Asia. Dove alla vigilia del secondo conflitto mondiale l’impero britannico occupava un ruolo di primo piano. Governava l’India, la Birmania, la Malesia, Singapore, il Borneo britannico, Hong Kong e controllava una serie di isole minori. In aggiunta ovviamente ai domini: Australia, Nuova Zelanda e Canada. Nei primi sei mesi di guerra Churchill non era riuscito a frenare l’invasione giapponese, arretrando fino a trincerarsi in difesa estrema dell’India. Al termine del conflitto il suo sforzo di riconquistare le aree d’influenza era diventato insignificante rispetto al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.Il destino dell’impero di Sua Maestà era segnato, il sipario era calato ed un nuovo protagonista aveva preso posto sul palcoscenico.
Questo cambiamento di leadership era sostanzialmente il frutto di ripetuti errori da parte di Churchill. Il primo fu di puntare strategicamente su Singapore come base navale per il Pacifico, con proiezione verso il Medioriente, ma lasciando vulnerabile la Malesia. Sottovalutando le debolezze di tale scelta difronte ad un eventuale attacco nipponico. Il secondo è invece imputabile al fatto che l’Australia venne “affidata” o spinta nelle braccia di Washington. La crescente pressione di una possibile invasione da parte del Giappone fece spostare l’asse geopolitico di Canberra in favore degli Stati Uniti. Che invece intesero tale alleanza in chiave sia offensiva che logistica per controbattere il nemico asiatico. La nascente linea della Casa Bianca era che l’Australia rafforzasse il ruolo di attore nel Pacifico del Sud. Principio che nel 1951, con la Guerra Fredda, portò alla ratifica del trattato ANZUS, in vigore sino alla metà degli anni ’80. Patto trilaterale dichiaratamente anti-maoista tra Australia, Nuova Zelanda e USA. L’estromissione di Londra dall’Asia era oramai sancita ufficialmente, e a partire dagli anni ’60 il Regno Unito optò per una politica di ritiro coloniale ad Est di Suez. Conclusasi nel 1997 con il passaggio di Hong Kong alla Cina.
Oggi, AUKUS e il Quad non sono altro che la continuazione della sovrapposizione statunitense sugli interessi dell’ex impero di Sua Maestà in Oriente. Non sotto forma di colonialismo ottocentesco ma, attraverso cooperazione e la creazione di un patto di “difesa collettiva”. In questo scenario gli spazi di azione dell’Ue sono minimi. Forse Biden teme che l’infiltrazione cinese sia già pericolosamente contagiosa nel Vecchio Continente.

ALLA CASA BIANCA L’OSPITE NON E’ BIBI

A Washington, il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dovuto attendere un giorno prima di essere ricevuto dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden nello Studio Ovale della Casa Bianca. Visita riprogrammata a causa del devastante attentato di Kabul, dove hanno perso la vita 13 marines.
Tempi infelici per il successore di Trump con il ritiro dall’Afghanistan a tenere banco, diventato nel corso dei giorni una fuga frettolosa e caotica. Debacle amara e bagnata di sangue che ha provocato non pochi dubbi sulla gestione dell’amministrazione Biden nella regione.
Situazione paragonabile, per memoria storica e vicinanza geografica, ai tragici eventi del 1979, quando l’ambasciata statunitense a Teheran venne assaltata dagli studenti islamici e il personale preso in ostaggio. Crisi che si risolse nel 1981 con l’accordo di Algeri e la fine del sequestro. Ma che intanto era costata la mancata rielezione del presidente democratico Jimmy Carter, travolto dalle critiche. 
Di Carter, l’allora giovane senatore del Delaware Joe Biden, era un protetto e di strada in questi anni ne ha fatta molta: “Ho conosciuto tutti i leader israeliani da Golda Meir in poi”. Ha detto in tono amichevole e paternalistico, durante il lungo faccia a faccia, il quasi ottantenne inquilino della Casa Bianca al suo giovane interlocutore israeliano. Gradito ospite che merita essere ricordato, per la prima volta dopo 12 anni, non era Benjamin Netanyahu.
Bennett – nato ad Haifa da genitori americani nel 2013 eletto alla Knesset ha dovuto rinunciare alla doppia nazionalità – è cresciuto politicamente alla corte di re Netanyahu, prima di venirne cacciato ed intraprendere un percorso solitario nella sfera della destra nazionalista israeliana, alla guida del piccolo partito Yamina. Qualche dote nell’hasbara (parola ebraica che significa saper dare una presentazione positiva e selettiva dei fatti politici che riguardano Israele) in prestito dal leader del Likud pare comunque averla presa, se nei 50 minuti di colloqui è riuscito, con il suo fluente inglese, a strappare a Biden tutte le sue richieste, o quasi. Fra tutte quella più impellente, la promessa che l’Iran “non otterrà mai” un’arma nucleare.
Sebbene Biden ha espresso l’opinione di preferire una soluzione prudente, ha ammesso che ci sono “altre opzioni” sul tavolo in caso di fallimento, probabile, delle trattative. Semaforo verde ad una risposta preventiva israeliana all’Iran, ormai prossimo nell’arricchimento dell’uranio al potenziale raggiungimento della realizzazione di una testata atomica.
Nel momento della più bassa credibilità internazionale a stelle e strisce, il politico di lungo corso e di fede obamiana conferma l’interesse ad un solido rapporto protettivo nei confronti del prezioso alleato mediorientale, offrendo il rafforzamento del sistema di difesa missilistico, in funzione del mantenimento del vantaggio militare sui suoi nemici nella calda area.
Dimostrazione che nell’era di Biden si può lavorare bene e in sintonia anche senza Trump e Netanyahu.

RIVINCITA TALEBANA

Caduta Kabul, i talebani sono tornati al potere in Afghanistan. Chiuso il capitolo del governo filo-occidentale di Ashraf Ghani, scappato dal Paese. Sconfitta amara per Washington & alleati, impegnati da due decadi in una difficile guerra, combattuta con successo dal cielo ma non altrettanto sul suolo. Il frettoloso rimpatrio degli ultimi stranieri rimasti, il caos della fuga di migliaia di persone, il panico nei volti della gente attestano il fallimento completo della missione di esportare democrazia e libertà in quel remoto angolo del pianeta. Il sogno di Osama bin Laden di cacciare gli “infedeli” a stelle e strisce dalle terre dell’islam aleggia come un fantasma, tanto nelle strade di Kandahar quanto negli sperduti villaggi. Nel 2011 dopo la sua morte al Qaeda venne rapidamente eclissata dall’insorgere della “stella” nera dell’Isis. La strategia del terrorismo nell’ombra profetizzata da bin Laden pareva essere stata offuscata dalla nascita, e dalla propaganda, dello stato islamico del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. La storia dell’Isis si dimostrerà di corto respiro e in uno spazio geografico circoscritto a Siria ed Iraq, dove governano con violenza brutale e inumana. Il vaso è già pieno a Settembre 2014, quando l’amministrazione Obama chiama alla crociata, alla coalizione aderiscono 83 stati, l’obiettivo è cancellare il califfato dalla mappa del Medioriente. Dal 2016 è chiaro a tutti l’esito dello scontro. Il collasso dell’Isis è alle porte. Ad Ottobre 2019 l’evento conclusivo, al-Baghdadi braccato dalle forze speciali statunitensi si toglie la vita, facendosi saltare in aria. L’impero del fondamentalismo nel mondo perde un’area di riferimento, ed un prolifico ufficio di reclutamento. Nel preciso istante in cui veniva assaporato il successo contro un regime pericoloso e distorto “inavvertitamente” è tolto lo sguardo, e l’attenzione, da un altro palcoscenico. Dove tutte le sigle del franchising del terrorismo jihadista hanno presenza fissa e una sicura tana, le montagne dell’Afghanistan. La voglia di disimpegno USA dalla regione è confermata nel 2020. A Doha le prime prove di riavvicinamento. Nel negoziato il segretario di stato Mike Pompeo e la controparte il mullah Baradar raggiungono un accordo bilaterale di pace. La promessa in cambio del ritiro delle truppe alleate è che i vecchi padroni una volta tornati non daranno mai più riparo ai proseliti di bin Laden. In pratica la trattativa ruota intorno ad un doppio tradimento, da una parte viene abbandonato il governo di Ghani, dall’altra è al Qaeda ad essere scaricata. In fondo, come in un suk arabo dopo una estenuante trattativa entrambi sono stati venduti al miglior offerente. È ovvio che sulla bilancia pesa l’11 Settembre e le imminenti elezioni presidenziali americane che Trump perderà. Con Biden però la musica non cambia: si torna a casa. L’incognita ora è se veramente i talebani rispetteranno la parola data prima che le forze statunitensi sloggiassero, lasciando un vuoto che oggi troppi rimpiangono.

BIDEN IN TOUR

Il viaggio in Europa del presidente Joe Biden segna il ritorno prepotente degli USA sullo scacchiere internazionale. Tre le tappe significative. Il G7 in Cornovaglia è stato forse il momento più rilassante per il presidente statunitense, tra vecchi amici e le rituali foto di gruppo. Molta allegria e tanta convergenza, almeno nel puntare il dito contro il grande pericolo che incombe: “il rafforzamento militare della Cina, la sua crescente influenza e il suo comportamento coercitivo pongono sfide alla nostra sicurezza”.
Il problema dell’impero del Dragone è stato posto senza sotterfugi al centro della discussione tra i capi di stato. In conclusione si è tracciata una marcata linea rossa per Pechino. Poi la risposta a questo nuovo confronto Biden l’ha delineata al summit NATO di Bruxelles, nel cuore dell’eurocentrismo, strigliando con tatto e diplomazia qualche “discolo” alleato, che ultimamente aveva dato segnali non proprio conformi allineamento del blocco atlantico: pace fatta, almeno così sembra, tra il sultano Erdogan e la Casa Bianca.
Con un patto che prevede il supporto logistico turco al ritiro statunitense dall’Afghanistan. E infine l’incontro a Ginevra con Putin, il faccia a faccia con il nemico numero due e un potenziale futuro partner. A differenza di quanto accadde nel 2018 a Trump, a Helsinki, Biden ha evitato di fare la figura del pupazzo manovrato dallo zar di Mosca. Uscendo indenne da un delicato confronto.
Nel complesso, questi tre eventi concatenati hanno certificato come proprio l’era Trump sia un capitolo chiuso della gestione della geopolitica internazionale. Fine delle pagliacciate, gli USA di Biden hanno rispetto per gli alleati. C’è tuttavia bisogno di ricomporre alleanze e imporre nuove strategie collettive. Il successo della NATO sull’Unione sovietica ha messo in evidenza la capacità dell’organizzazione di adattarsi su larga scala ai mutevoli cambiamenti che si sono susseguiti da Yalta ad oggi.
Fin dall’inizio la NATO è stata molto di più di una semplice alleanza militare, ha rappresentato uno spazio comune con una sua identità politica. E una forza in grado di operare in tutti i continenti. Il Medioriente, resta però il teatro più complesso. Il non intervento in Siria ha spalancato la porta alla Russia nella regione. Lo scontro tra Turchia ed Egitto è motivo di particolare allarme, perché ha assunto un livello che va ben oltre il controllo del suolo libico. Equilibri del mondo arabo che direttamente mettono in causa altri due attori cari a Washington, Arabia Saudita e Qatar.
Mentre, la questione israelo-palestinese è ancora un labirinto inestricabile. Infine, il dilemma Iran, la strada imboccata in questo caso è la riapertura delle trattative. L’esito, scontato nel risultato, delle elezioni presidenziali, pur segnando la vittoria dell’ultraconservatore Raisi, lascia un filo di speranza al processo di dialogo con gli Stati Uniti per il rilancio dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, che ha il sostegno della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Un dossier caldo sul tavolo di Biden.

L’ARMENIA, IL NEMICO TURCO E L’AMICO AMERICANO

Armeni e Turchia ancora divisi da una guerra e dalla storia. Ferite lontane dall’essere ricucite se prima non si mette da parte l’ottusità, per l’indifendibile. Il castello di sabbia del negazionismo turco sul genocidio armeno, che per oltre un secolo ha imperversato, incomincia a franare, ormai messo sotto accusa da più lati. Le ripetute stoccate di papa Francesco, rasoiate diplomatiche al vetriolo, sono culminate con la lezione di moralità del richiamo al “grido soffocato dei cristiani”, non gradita da Erdogan.
Cade il velo della propaganda di stato, smentita dalla ricostruzione storica dell’intellettuale Taner Akçam, perseguitato in patria e rifugiato negli Stati Uniti, i cui studi portano alla luce particolari inediti, oggi di dominio pubblico. Prezioso e coraggioso lavoro alla scoperta dei veri colpevoli, prove del diretto coinvolgimento dei vertici al potere: messaggi del gran visir Talat Pasha – riconosciuto architetto del Metz Yeghern, il Grande Crimine – in cui ordina di massacrare. Telegrammi, che ovviamente Ankara bolla non autentici, dove ai funzionari delle province viene intimato di procedere allo sterminio di massa, in cambio della promessa di un rapido avanzamento di carriera: “Nessuno deve essere risparmiato, nemmeno i bambini nella culla”.
Appelli ai fanatici perchè sollevino la folla, spingendola al saccheggio. Testimonianze inequivocabili della premeditazione, fredda e organizzata, nell’eliminazione di circa 1,5 milioni di armeni. Mentre, a rompere il tabù internazionale sulla parola genocidio è stato il presidente Usa Joe Biden. Non è la prima volta che la Casa Bianca esprime un giudizio critico nei confronti della Turchia per quei fatti drammatici. Ma mai nessun presidente si era spinto a tanto. Nel 2008 Obama si impegnava pubblicamente a riconoscere l’olocausto armeno. Non lo fece. A prevalere allora fu invece la logica della realpolitik. Ad imporsi furono le ragioni espresse dal Dipartimento di Stato, che riteneva strategico il ruolo della Turchia, nel Medioriente e nella lotta all’Isis. Obama passò la mano e la questione venne “insabbiata” nel tempo, lasciando ad altri il gravoso compito di dire la verità su quegli eventi.
C’è voluto Biden a riaprire il fascicolo. La sua decisione sarà molto utile, anche sul piano giudiziario visto permetterà ai familiari delle vittime di chiedere risarcimenti. E adottando il termine genocidio non ha solo espresso un giudizio, ha ricambiato il favore agli elettori della lobby della diaspora armena che lo hanno votato, e allo stesso tempo presenta la candidatura a sostituire Putin quale protettore della cristianità nella crisi in Nagorno Karabakh, tra azeri (“fratello” che la Turchia sostiene con ogni mezzo militare) e armeni (“culturalmente” con un forte ascendente su Mosca). Il messaggio di Washington è un chiaro segnale di stanchezza nei confronti degli atteggiamenti di Erdogan, che avrebbe passato il limite acconsentito. Joe Biden sposa pienamente la linea espressa da Mario Draghi sul “dittatore necessario”. E pone così limiti invalicabili.

L’ULTIMO VIAGGIO DEL TRUMPISMO

Il viaggio del segretario di stato statunitense Mike Pompeo in Israele è probabilmente una delle ultime pagine della politica estera di Trump in Medioriente. L’ormai pro tempore presidente, prima del commiato, ha voluto ringraziare, e rassicurare, pubblicamente gli alleati. Dedicandogli il tour finale delle visite ufficiali di stato. Ha inviato, il fedelissimo Pompeo a manifestare sentita amicizia a Netanyahu e profonda solidarietà alla destra nazionalista israeliana. In Terrasanta, in un mix di gesti simbolici, retorica e propaganda, l’ex direttore della CIA ha ripercorso il cammino dell’amministrazione Trump in questo quadriennio. Rendendo omaggio alle decisioni più significative del mandato presidenziale: dal riconoscimento ad Israele del Golan, a quello dei prodotti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. La visione di pace di Trump lungimirante o meno, ha indubbiamente introdotto una svolta di approccio significativo. Senza rimuovere gli ostacoli alla trattativa israelopalestinese, ha nascosto le criticità del contesto offrendo un’unica non concordabile soluzione. Gelando le attese dei palestinesi e allargando lo spiraglio di normalizzazione tra Israele e il mondo arabo. Fardello che viene lasciato in eredità a Biden. Investito a questo punto del compito di riportare al tavolo la controparte palestinese, ormai, dopo la recente scomparsa di Saeb Erekat, priva di una classe di credibili negoziatori. Orfana di figure di spessore che non siano riconducibili alla casta di Fatah o all’organizzazione terroristica di Hamas. Non è escluso che Biden valuti attentamente l’opzione di una terza via. Quella dell’élite palestinese con passaporto americano, imprenditori di successo o intellettuali vicini al partito democratico. Se Arafat portò ad impiantarsi alla Muqata di Ramallah la corte di Tunisi, Biden potrebbe fare altrettanto con una nuova generazione di governanti. Sul versante israeliano Netanyahu, con il cambio nei palazzi di Washington, ha effettivamente il rischio di vedersi obbligato ad accettare qualche compromesso, mostrando segnali distensivi che ne minerebbero l’indiscussa leadership nel proprio campo politico. Nel 1953 con l’uscita di scena del democratico Truman e l’elezione del repubblicano Eisenhower vi fu un repentino capovolgimento, e deterioramento, delle relazioni tra USA e Israele. Fu la prima storica rottura. L’entratura con il potente protettore traballava, e l’allora premier Ben Gurion per evitare l’isolamento incominciò a guardare con interesse a Londra e Parigi. Strategia che irritò sicuramente Eisenhower. Poi Israele, preso atto della debolezza del vecchio imperialismo, tornò mestamente sotto l’ala di Washington. Oggi, Netanyahu si trova nella medesima condizione affrontata da Ben Gurion, avendo perso le influenze che aveva sulla Casa Bianca a marchio Trump. Per il “falco” della destra l’eventuale ricerca di uno spazio di manovra alternativo è assai limitato, la manifesta idiosincrasia per l’Europa lascia aperta la porta di Mosca. E l’abbraccio non proprio affidabile di Putin.

DEM O REP, LO SHOW DELLE CONVETION

Pochi giorni fa alla convention democratica 2020 uno dei commenti amareggiati era rivolto al fatto che nella chiusura mancava il classico lancio di palloncini in aria a salutare la sfida di Joe Biden. Donald Trump, invece, ha fortemente voluto una coreografia solenne e la standing ovation della folla (largamente senza mascherina) per la sua incoronazione. Lo show della politica a stelle e strisce ha dovuto adeguarsi alla pandemia, rinunciando ad alcuni tradizionali cliché. In un paese che oltre all’esponenziale contagio da Covid19 è infettato dal razzismo, attraversato da violente tensioni sociali, spazzato ripetutamente da devastanti uragani. Tra il sipario abbassato all’evento democratico di Milwaukee e la serata finale della nomination repubblicana, decentrata per protagonismo ed effetto televisivo nei giardini della Casa Bianca, è trascorsa una settimana. Se la kermesse di Biden ha avuto come filo conduttore l’incapacità di Trump, il presidente ha contrattaccato con lo spauracchio del voto postale truccato ed il pericolo socialista. Ai principi di giustizia e uguaglianza invocati dalla Harris, che affianca Biden, ha replicato il vicepresidente Pence richiamando i valori di legge e ordine. In uno scontro dove la retorica della sanità pubblica obamiana e lo slogan del taglio alle tasse reaganiano sono oramai riconosciuti brand di fabbrica delle due forze politiche. Ciascuna con un proprio linguaggio: la sottile satira dell’attrice democratica Julia Louis-Dreyfus contrapposta alle urla incendiarie di Kimberly Guilfoyle, ex presentatrice di Fox News e partner di Trump junior. Immancabili le luci sulle due first lady, Jill che parla tra i banchi vuoti della scuola di Wilmington, Melania tra le rose della residenza presidenziale. Due format distinti nell’immagine proiettata al pubblico, quella sobria che ruota intorno all’unità nel partito e quella più appariscente che esalta il capofamiglia della dinastia. Nel 2016 il tycoon, reduce dalla conduzione di un fortunatissimo reality, era riuscito a catalizzare anime differenti sotto la bandiera dell’elefantino statunitense: establishment conservatore, evangelici e cattolici antiabortisti, classe media e destra alternativa, coacervo di suprematisti e paranoici cospirazionisti. In questi quattro anni l’irrequieto e irascibile miliardario ha licenziato una moltitudine di consiglieri, a partire dallo stratega della vittoria elettorale Steve Bannon, bandito da corte, esiliato in Italia e recentemente arrestato per frode. Hanno “congiurato” per impedirne la rielezione un gruppo di dirigenti repubblicani, denominati Lincoln project. Ha rotto con i potentati dei Bush e dei McCain, con personalità come Colin Powell e John Kasich. Ciononostante, oggi l’immobiliarista newyorchese non è ancora fuori gioco. Se The Donald vincesse nelle urne il 3 novembre avrebbe ipotecato il dominio di un partito che non è mai stato completamente suo. Se dovesse perdere – e non abbiamo ancora capito nemmeno cosa avrebbe fatto nel caso della vittoria della Clinton – possiamo aspettarci la trumpata del secolo.