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ISRAELE A SPICCHI

Israele è un paese in tilt, e la ragione non è solo la guerra, che non è comunque un corollario. Il caos imperante è attribuibile a una classe politica che, pur eletta democraticamente, si sapeva aprioristicamente avrebbe potuto deragliare, trascinando la nazione in un condensato di tensione e attesa. È il fallimento attestato e drammatico di un governo tutt’altro che all’altezza del compito affidato: non ha garantito la sicurezza dei propri cittadini, non ha mantenuto la tenuta sociale, ha invece puntato a smantellare il patto “costituzionale” vigente. Di questa crisi è parte integrante Benjamin Netanyahu, principe machiavellico pluri indagato che ha saturato “l’ambiente” con una narrativa inadeguata, una prospettiva infelice e una pessima gestione del potere. Culminata nella mancata liberazione degli ostaggi. Come spiega su Haaretz Noa Landau: “Netanyahu cerca di presentare alla sua base politica una scioccante equazione populista: o un accordo per liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra, o la sicurezza di tutti gli altri cittadini israeliani. Come primo ministro deve prendere la strada maestra: sacrificare gli ostaggi per un bene immaginario più grande. Questa, tuttavia, è un’equazione completamente falsa… l’uomo che ha costruito, esaltato e reclamizzato il marchio di ‘Mr. Sicurezza’ per tutta la sua carriera politica, con costanza esemplare, ha in realtà ottenuto l’esatto contrario”. Viceversa, la disgrazia per i palestinesi si chiama Hamas. Che non rispetta nessuna regola “civile”, ma non può essere annientata totalmente con le armi. Sconfitta invece sì. Ed in parte militarmente è stato fatto, in questi mesi, al costo di migliaia di civili palestinesi e centinaia di soldati israeliani. Dissente dalla strategia in atto Yitzhak Brik, generale riservista: “Se continuiamo a combattere a Gaza penetrando e compiendo raid sempre sugli stessi obiettivi, non solo non porteremo Hamas al collasso, ma crolliamo noi stessi. Non molto lontano da oggi non saremo in grado di effettuare questi ripetuti attacchi, perché ogni giorno che passa le Forze di Difesa Israeliane si indeboliscono e il numero di morti e feriti in azione tra i nostri soldati aumenta. Hamas, al contrario, ha già riempito i suoi ranghi con ragazzi di 17 e 18 anni”.

La realtà di Israele è nella fotografia di un giorno qualunque: nella notte di domenica una marea umana è scesa in strada a Tel Aviv, chiedendo la liberazione degli ostaggi. La mattina seguente alla protesta si è aggiunto lo sciopero generale, indetto dal sindacato Histadrut e poi revocato dal tribunale. Intanto, l’estrema destra inscenava la sua contromanifestazione a Gerusalemme, accusando la federazione dei lavoratori di incoraggiare il terrorismo, stessa linea che adotterà anche Netanayhu nel corso della giornata. Contemporaneamente fuori dall’ufficio di reclutamento dell’esercito a Tel Hashomer decine di giovani religiosi ultraortodossi protestavano per il diritto all’esenzione dalla leva obbligatoria. Mentre a Gaza si sparava e al confine con il Libano sistematicamente risuonano le sirene di allarme missilistico. Infine, il partecipato e commovente funerale di Hersh Goldberg-Polin. Lacrime e scuse, portate dal presidente Isaac Herzog: “a nome dello Stato di Israele, per non essere riusciti a proteggervi nel terribile disastro del 7 ottobre, per non essere riusciti a riportarvi a casa sani e salvi”. Persino Netanyahu nell’appello televisivo serale chiede perdono, ma non torna indietro sulla trattativa. Fuori dal coro, e come al solito inappropriate, le parole del ministro Itamar Ben-Gvir che non si vergogna a dire pubblicamente di fare tutto ciò che è in suo potere per impedire il negoziato.

Israele è divisa in spicchi: il fronte degli anti-Bibi e pro tregua è in crescente ebollizione. La fazione dei filo-Bibi e per tenere ad oltranza i piedi a Gaza è guardinga. La porzione dei dogmatici, coloro che osservano la fede, prima della legge, viaggia invece in un mondo chiuso. Mentre, la quarta fetta o componente di Israele, gli arabi, è silente e teme di essere isolata ancora di più. Uscire da questo labirinto senza la frantumazione è oggettivamente il vero problema da dirimere. A trainare la pacificazione sociale non basta il dolore per le vittime e nemmeno la guerra a Gaza, forse una guerra su larga scala potrebbe cambiare lo stato d’animo generale. Sicuramente in questo contesto non può essere fatto affidamento sul fattore economico, per tenere i rami della pianta ben saldi al tronco. La stima dei costi dell’attuale conflitto è tra 50 e 70 miliardi di dollari. Il ministero della difesa prevede che occorrano investimenti di circa altri 6 miliardi. Nel 2024 il giudizio del rating finanziario dei mercati non è stato positivo. Lo shekel ha perso potere d’acquisto. Il deficit in estate è balzato all’8,1%. Il settore del turismo (3% del PIL) è evaporato. Last but not least, il fatto che a presentare la legge di bilancio è il ministro di estrema destra Bezalel Smotrich, poco avvezzo alle oscillazioni del paniere ma diligente nello spostare risorse verso gli insediamenti in Cisgiordania, anche a quelli illegali per la legge israeliana.

Del tutto improbabile che la riconciliazione interna avvenga su ispirazione del procuratore generale Gali Baharav-Miara. Le sue raccomandazioni, compresa quella dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre e sui presunti crimini di guerra compiuti a Gaza, sono state immancabilmente respinte dal governo. Che non la vuole ascoltare, pensando di rimuoverla.

E allora appena ci sarà la tregua militare, l’unica soluzione praticabile è il ritorno al voto, con l’incognita del risultato. Perchè se vincesse Bibi vi sentirete ripetere: “Questa è la democrazia”.

HAMAS PORTA LA STRAGE NEI KIBBUTZIM

“Dov’è l’esercito?”. Domanda che si sono chiesti molti cittadini israeliani durante l’attacco di Hamas. La risposta è la stessa di 75 anni fa: la vostra difesa, e sicurezza, siete voi stessi. Prima linea del fronte di guerra. Dove l’alternativa è combattere o scappare.
La mattina del 7 ottobre 2023 prime ad essere investite dall’orda terroristica sono state le comunità che risiedono lungo il confine, a pochi metri dalla barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele. Be’eri, Kfar Aza e Re’im, le più colpite dalla violenza assassina e dalla caccia all’ostaggio. Piccoli centri dediti da sempre al lavoro della terra, dove dalle finestre delle case si vede la periferia della città di Gaza e si respira aria di mare. Prima del ’48 erano insediamenti, strutturati nella forma di cooperative agricole secondo lo schema del kibbutz o del moshav. Furono fondati e difesi dai pionieri dello stato di Israele.
Il kibbutz in passato ha rappresentato lo specchio della società israeliana, lì sono cresciuti e si sono formati interi quadri, l’élite politica e militare del Paese. Quel modello di vita ha nel corso degli anni affrontato notevoli cambiamenti di assetto confrontandosi con la realtà dei tempi, cedendo ovviamente a ineludibili compromessi. L’esperimento cominciò nel 1909, quando sulle sponde del lago di Tiberiade il sogno del socialismo applicato veniva realizzato. Il primo esempio fu la piccola comune di ebrei marxisti di Degania Alef (anche se i suoi membri preferirono sempre chiamarlo Kvutzat Deagania ovvero “Il frumento di Dio”). Spinta ideologica incentrata sull’uguaglianza, sul lavoro a favore della comunità, sul rispetto di regole ben precise e condivise, sull’obbligatorietà di lavorare per gli altri.

Chi ha fatto quella scelta di vita ha preso, e prende, il nome di chaverim o kibbutznik. Oggi sono decine di migliaia di persone. Nel 2005 il Ministero del Lavoro israeliano ha classificato i kibbutzim (plurale di kibbutz) in tre tipologie: shitufi con sistema cooperativo, mitchadesh dove persistono, almeno nell’intenzione, minime forme di cooperativismo e urban kibbutz di fatto un agglomerato cittadino. Quando nel 2011 decidemmo di scrivere il libro “Kibbutz 3000” compleanno di un sogno, attualità di un’idea (edizione Ets), accompagnati dalla fotografa Nili Bassan, abbiamo intrapreso un viaggio alla scoperta di chi ci vive. Il nostro peregrinare dal Nord al Sud di Israele ci portò nel kibbutz Nir Am, due ore di macchina da Gerusalemme, non distante dal valico di Eretz. Nir Am per l’esattezza si trova a 457 metri dal confine con Gaza, letteralmente a un tiro di scoppio o a uno sputo dalla Striscia di Hamasland. Sabato scorso i suoi residenti hanno respinto l’assalto palestinese. “Sembra che i terroristi abbiano cercato di penetrare in un grande allevamento di polli vicino a Nir Am, probabilmente scambiando la sua recinzione per la recinzione del kibbutz”, ha dichiarato Ami Rabin. Sentiti i primi spari è scattata la difesa. “Siamo stati vigili, preparati ed efficaci, ma siamo stati anche molto fortunati”. Nessuno dei residenti è rimasto ferito, due attentatori sono stati uccisi. Fallito anche l’attacco al moshav (raggruppamento di fattorie di proprietà individuale con estensione fissa e uguale per i suoi membri) di Ein Habsor. Dove hanno respinto un numero soverchiante di terroristi: “Dobbiamo tutto alla sorveglianza, ed in parte al miracolo”.

Israeliani abituati a convivere con l’emergenza della violenza. Nel 2013 nel moshav di Netiv Ha’Asara, alla vigilia delle elezioni che consacrarono l’ascesa di Netanyahu, ci raccontarono che “non di rado prima senti il botto del razzo e poi la sirena”. Questi centri periferici, per lo più composti da villette familiari, lunghi viali alberati, bambini che scorrazzano in bicicletta e auto elettriche per muoversi al suo interno, non sono solo vulnerabili ai razzi, che ti possono piovere in salotto in qualunque istante del giorno e della notte, ma anche ai tunnel che partono da Gaza e sbucano nel giardino di casa. Tunnel che Hamas scava minuziosamente dal 2014, per far entrare i suoi uomini. A volte scoperti e fatti saltare dall’esercito israeliano prima di essere utilizzati, altre, come in questo caso, no.
Nonostante la minaccia che incombe su quelle terre – dal momento che scatta l’allarme missilistico ci sono circa 4 secondi per raggiungere un luogo protetto, stanza blindata o rifugio – molti giovani hanno optato per questo standard di vita. Una sorta di riscoperta delle radici del kibbutz di fronte alla crisi economica, ambientale e culturale, in risposta all’individualismo imperante nella nostra società. Siamo certi che il mito del kibbutz resisterà anche a questa dura prova.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

CONTENERE L’INCONTENIBILE

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu fa orecchie da mercante al richiamo di Joe Biden e non ferma la rappresaglia su Gaza. Seconda settimana di guerra. Respinto l’appello al cessate il fuoco del successore di Trump, apparso tardivo nella tempistica. Puntuale invece la consuetudine della Casa Bianca nel calare sul tavolo internazionale il diritto di veto a risoluzioni marcatamente anti-israeliane. In una guerra regionale intrappolata nella spirale di ideologie disfunzionali, dove si mescolano dottrine rigide, farcite di nazionalismo, fondamentalismo ed antisionismo. Di cui è impregnata la propaganda di Erdogan, autoproclamatosi difensore dei palestinesi per evidente tornaconto personale: risalire di popolarità e difendere Hamas. Che di alleati nello scacchiere ne conta parecchi. A partire dal legame di appartenenza alla famiglia della “Fratellanza musulmana”, di cui Hamas stessa è figlia. Rete che permette rapporti politici stretti con la Turchia ed aiuti economici dal Qatar, che offre anche asilo sicuro ai suoi vertici. Chi cerca maggior spazio operativo nella Striscia è l’Iran, che fornisce al regime di Gaza e ai jihadisti tecnologia militare, in cambio vorrebbe imporre strategia e obiettivi da colpire. In Libano Hezbollah ha messo mano alle armi, infiammando il confine con Israele. Il patto tra il partito di Dio di Nasrallah e il movimento terroristico fondato dallo sceicco Yassin è saldato nel nome della umma musulmana, sintesi della congiuntura tra sunniti palestinesi e sciiti libanesi. Improntato alla moderazione l’approccio della Giordania, non basta un drone abbattuto sui cieli israeliani a far precipitare le ottime relazioni. Re Abdullah, volente o dolente, il piede dentro la questione israelo-palestinese deve tenerlo ben piantato. Non fosse altro perchè i palestinesi sono la maggioranza della popolazione del Regno. E la famiglia hascemita degli Hussein ha la custodia a Gerusalemme della Spianata delle Moschee. Generalmente, la corte anglofona di Amman non va oltre le proteste formali, mantenendo una stretta “cooperazione” col Mossad. Infine, l’Egitto che nella crisi di Gaza ha la funzione del mediatore certificato, a negoziare il cessate il fuoco sono le sue delegazioni. L’indirizzo diplomatico egiziano è improntato ad arginare influenze ostili, turche e iraniane, e promuovere il rafforzamento del blocco all’ombra degli Accordi di Abramo: monarchie del Golfo + Israele. Sulle sponde del Nilo prevale ancora la convinzione che un equilibrio tra palestinesi (riconciliati) ed israeliani possa essere trovato più facilmente responsabilizzando il “realista” Netanyahu ed accelerando il passaggio di potere da Abu Mazen a Mohammed Dahlan. Riuscire a far incastrare contemporaneamente questi due tetramini è però al momento assai complicato. Biden, al contrario, probabilmente preferirebbe non avere Netanyahu e mantenere Abu Mazen come interlocutore, ma dovrà attendere, il falco della destra è saldamente al comando delle operazioni e non pare intenzionato a cedere il posto.

TREGUA

Medioriente. Storie di normalità paradossale. Dalla Striscia di Gaza piovono su Israele centinaia di razzi, provocando il panico tra la popolazione della regione mediorientale del Paese. L’esercito con la stella di Davide risponde con i caccia dell’aviazione, colpendo le strutture militari di Hamas, coinvolti nei bombardamenti anche i civili. Ore di tensione e spirale di violenza. Morti da entrambi gli schieramenti. Le Nazioni Unite invitano alla calma, il presidente Turco Erdogan accusa apertamente di terrorismo Israele, Trump al contrario lo difende schierandosi al suo fianco al 100%. Tregua. Pare. Sospensione delle ostilità siglata grazie al lavoro svolto sul campo dalla Mukhabarat, i servizi segreti del Cairo. È una nuova pagina dell’eterno conflitto tra i due popoli, asimmetrico o meno negli ultimi dieci anni si sono svolte tre guerre (2009, 2012 e 2014) e un numero impressionante di “schermaglie”. La guerra, l’ennesima, è dietro l’angolo. La pace, se di pace si possa mai parlare, è appesa ad un filo. Tenue. In gioco troppe varianti: Israele è alla vigilia della ricorrenza della sua nascita (che coincide con la nakba, l’inizio della catastrofica disavventura palestinese) e nel bel mezzo della formazione del prossimo governo, la maggioranza uscita dalle elezioni del 9 aprile ha dato mandato, riconfermandolo, a Netanyahu per la formazione dell’esecutivo. Per dar vita ad un governo solido (con più di 61 dei 120 seggi) il falco della destra necessita tuttavia dell’appoggio del partito nazionalista Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, ministro della difesa dimissionario per divergenze con il premier proprio sulla questione della gestione della crisi di Gaza lo scorso novembre. Il grattacapo di Netanyahu, in queste ore, è se fare un passo indietro e offrirgli nuovamente quel dicastero, in una fase così altamente delicata. L’altra variabile è dal lato palestinese la jihad islamica, organizzazione terroristica responsabile del massiccio lancio di missili, longa manus dell’Iran e ai ferri corti con Hamas, per la spartizione dei fondi promessi dal Qatar. Sono una scheggia impazzita, e pericolosa, in un contesto già caldo.

NETANYAHU PERDE GERUSALEMME E PEZZI DEL GOVERNO

Al confine di Gaza è tregua tra israeliani e palestinesi, dopo un intenso scambio di lancio di razzi e missili tra le parti. Netanyahu e Hamas non vogliono una escalation, lasciando campo alla mediazione egiziana premono su fronti opposti per il cessate il fuoco. “Calma” nel giorno dell’ultimo round del voto amministrativo. Nella corsa per la poltrona di Gerusalemme vince il candidato della destra e dei religiosi. Moshe Lion, espressione di un vasto blocco di partiti che andava dagli ortodossi dello Shas ai nazionalisti di Israel Beitenu, si è imposto con un vantaggio del 3% su Ofer Berkovitch, astro nascente della politica israeliana. Una sfida dove il giovane politico gerosalemitano, dato per perdente nei pronostici della vigilia, ha provocato non pochi timori alla macchina elettorale di Lion. Alla fine missione fallita per Berkovitch, anche se i dati premiano il partito da lui fondato Hitorerut quale forza più votata. Una campagna elettorale con ripercussioni turbolente sul piano nazionale. Bruciante sconfitta per Netanyahu, il candidato che godeva del suo appoggio è uscito di scena al primo turno. Lasciando fuori dai giochi il “falco”, che non si è nemmeno presentato al seggio. Rientrato a Gerusalemme ad urne chiuse, non ha rilasciato nessun commento. Ha poi voluto complimentarsi con i sindaci eletti nelle file del Likud in quest’ultima tornata elettorale. L’effetto Gerusalemme apre un caso, la destra dimostra di poter fare a meno del suo leader indiscusso per mettere in piedi una larga e variegata coalizione. Il clima è teso nella maggioranza di governo prossima all’implosione: divergenze insanabili tra il premier e Avigdor Lieberman sulla questione della gestione della crisi di Gaza hanno portato alle dimissioni il ministro della difesa e l’uscita del suo partito dal governo. Una coalizione già a rischio di frantumazione alla vigilia della presentazione di un pacchetto di emendamenti non graditi ai partiti religiosi. Nel Likud c’è chi lavora nel tentativo estremo di usurpare il suo trono. Le inchieste della magistratura incalzano la famiglia e potrebbero ripercuotersi sui sondaggi. Mentre dalla sua può saldamente contare sul fatto che nell’opposizione non esiste un reale avversario. Tutto questo potrebbe convincere il longevo politico a scegliere la via delle elezioni anticipate. Il dubbio resta. Nelle passate settimane ironicamente si profetizzavano tre date storiche imprevedibili per la Terra Santa: la presentazione del piano di pace di Donald Trump, l’arrivo del Messia e quando Benjamin Netanyahu avrebbe indetto il voto. Aggiungendo che Trump e il Messia potevano aver già deciso, Netanyahu ancora no. In queste ore forse ci pensa con insistenza, altrimenti per lui c’è il rischio di prendere atto della sconfitta in aula.

MORTE NELLA STRISCIA PALESTINESE

La Primavera della protesta palestinese è iniziata con un bagno di sangue. Lungo il confine di Gaza avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione dedicata al Giorno della Terra, la prima di una lunga serie, per ricordare i territori confiscati da Israele. La propaganda di Hamas ha prontamente aderito all’evento. Dall’altra parte della frontiera i soldati israeliani ricevevano l’ordine di sparare. Alla fine manifestanti uccisi e feriti. Tutto questo a poco più di un mese dall’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme e nei giorni che precedono la ricorrenza della tragedia palestinese, la Nakba. Il livello di tensione si alza notevolmente. Con un movimento palestinese destinato a crescere nei prossimi giorni, nelle cui file affluisce un fiume di giovani. E che coagula differenti componenti della politica palestinese, da chi professa l’approccio non violento, alle frange di miliziani fondamentalisti. Gaza in queste ore è una pentola a pressione. Una “prigione” che ospita quasi 2milioni di palestinesi, in un fazzoletto densamente popolato dove comanda il regime di Hamas. A partire dagli anni ’90 Israele ha introdotto la limitazione di movimento ai cittadini della Striscia. Ma solo nel 2007 Egitto e Israele mettono i sigilli alle frontiere. Allo stesso tempo, Ramallah entra in collisione con Gaza, la frattura politica tra Fatah e Hamas si incancrenisce e diventa anche geografica.
A Gaza oggi la situazione di criticità è endemica nei servizi, da quelli idrici alla sanità. Peggiorata da scarse forniture di carburante e dalla ripetuta emergenza elettrica. Israele che dal 2017 aveva tagliato l’elettricità, ha ripreso la fornitura. Le spese sono a carico dell’Autorità Nazionale Palestinese, riluttante a coprire i debiti di Hamas. È collasso anche nella gestione dei rifiuti, decine di migliaia di tonnellate di spazzatura lasciata in strada a marcire. A febbraio 12 ospedali pubblici non erano in grado di fornire la diagnostica. Uno stop aggravato dallo sciopero del personale medico per il mancato pagamento degli stipendi arretrati. Gli aiuti internazionali, pur rilevanti, non bastano a migliorare il contesto. La sforbiciata di Trump ai fondi umanitari delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi ha trovato altri canali di finanziamento. Chiudere la borsa è stato l’ultimo affronto pubblico di Trump ad Abu Mazen. Le relazioni tra USA e Palestina sono ormai compromesse dal riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele, avvenuto lo scorso dicembre. Decisione che ha isolato Washington sul piano internazionale, provocando una reazione nel mondo arabo, anche fuori i confini del Medioriente. Trump potrebbe decidere di partecipare personalmente all’inaugurazione della nuova sede diplomatica di Gerusalemme, nel qual caso l’erede di Arafat non avrebbe alternative a rispondere con una dichiarazione di pari portata: se non “guerra” quasi.
La scelta della Casa Bianca ha alimentato contrapposizione, lasciando il cielo della Terra Santa a falchi, pronti a gettare benzina sul fuoco. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, minaccia che: “non cederemo un pezzo di terra di Palestina, né riconosceremo l’entità israeliana”. Proclama bellico che estende a Trump: “Promettiamo di non rinunciare a Gerusalemme ”. Jason Greenblatt, inviato statunitense per le negoziazioni tra Israele e Palestina, ha lanciato pesanti accuse incolpando a sua volta Hamas di “incoraggiare una marcia ostile” e “istigare alla violenza”. Ormai in secondo piano Abu Mazen, relegato in una posizione marginale, compromessa dall’età e dalla salute. Il suo partito Fatah non è al momento in grado di veicolare o controllare la protesta, tantomeno a Gaza. In questa fase l’escalation garantirebbe quindi ad Hamas un maggiore consenso popolare e una posizione di forza. Che potrebbe sfruttare nella scelta del futuro presidente del popolo palestinese. Sul fronte israeliano, qualsiasi conferma che non esiste una controparte con cui dialogare, porta solo acqua al mulino di Netanyahu.

LA POLTRONA DI ARAFAT

Mentre, la notizia del ritiro dalla politica del presidente palestinese Abu Mazen prende consistenza a Gaza il Primo Ministro Rami Hamdallah scampava, illeso, a un attentato. Hamas che controlla la Striscia ha negato veementemente ogni coinvolgimento nell’episodio. Che potrebbe invece significare l’innalzamento delle lotta interna al campo palestinese, con le frange più radicali del jihadismo intenzionate a compromettere il difficile colloquio di conciliazione tra i due principali partiti palestinesi, Fatah e Hamas. Processo di unità nazionale impantanato in un clima di sospetto reciproco e scambio di pesanti accuse. Infuocata, anche la campagna per la successione alla poltrona che fu di Arafat. Mr Palestina, l’uomo dalle sette vite si spense in Francia l’11 novembre 2004. Da mesi viveva confinato nel palazzo presidenziale della Muqata, nell’ala del complesso che l’esercito israeliano non aveva raso al suolo con i bombardamenti. Invecchiato, ambiguo, megalomane e molto sospettoso, forse a ragione. La parabola di Arafat volgeva al termine, ormai, era internazionalmente isolato e il mito dell’eroe nazionale offuscato, dagli errori politici e dai segreti finanziari. Dopo i funerali il partito di Fatah passò di fatto in mano a Mahmud Abbas, meglio noto con il nome di Abu Mazen, che iniziò la scalata al potere culminata con l’elezione a Presidente nel 2005. Prima di allora aveva ricoperto vari incarichi, da Segretario Generale dell’OLP a capo delegazione durante i colloqui di pace con Israele. Per un breve periodo era stato Primo Ministro, dimettendosi dopo la rottura dei rapporti con lo stesso Arafat. Meno pittoresco e carismatico del suo predecessore è da sempre considerato una figura moderata all’interno del movimento per la liberazione della Palestina. Ha saputo intrecciare ottime e solide relazioni con la Casa Bianca, confermate sino all’avvento di Trump. Abu Mazen ha rappresentato per l’Occidente il referente politico e garante della causa palestinese, fiducia e credito mai venute meno da parte di Bruxelles. Sopratutto dopo l’affermarsi di Hamas nelle urne e l’instaurarsi del regime islamista a Gaza. Attualmente le trattative di riconciliazione nazionale, più volte evaporate, reggono grazie alla delicata mediazione egiziana e al sostegno economico promesso dai sauditi. Se l’accordo dovesse tenere il capo di stato palestinese è disponibile ad indire nuove elezioni legislative per il 2018, sulle quali però non avrebbe modo di incidere. È la vigilia del capitolo finale della sua lunga carriera, il livello di popolarità è assai ridotto rispetto al plebiscito della sua nomina e il sistema di corruzione nel suo partito è dilagante. Oggi alla soglia degli 83 anni e con 13 anni consecutivi di presidenza Abu Mazen è malato, secondo fonti di stampa le condizioni sarebbero peggiorate negli ultimi mesi, al punto che le dimissioni parrebbero imminenti. Aprendo la via ad una nuova era politica, tra mille incognite. Il contesto è critico: gli USA di Trump hanno rotto l’argine del contrappeso diplomatico con la scelta di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di tagliare i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite UNRWA; gli accordi di Oslo sono morti e i diritti dei palestinesi ancora negati; nei sondaggi Hamas è la prima forza e l’espansione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania è irrefrenabile; livello di disoccupazione giovanile è ai massimi storici e la situazione umanitaria a Gaza è gravissima. La possibilità di una nuova escalation di violenza tra la Striscia di Gaza e Israele è una spada di Damocle implacabile. In questo quadro, l’uscita di scena di Abbas potrebbe favorire la corsa di un suo nemico giurato Mohammed Dahlan, politico palestinese in esilio e molto considerato a Tel Aviv. Prende forza nelle ultime ore la possibile candidatura del nipote di Arafat, Nasser al Qudwa, già ambasciatore al Palazzo di Vetro. La resa dei conti è alle porte, l’ultima parola però spetta al carcerato Marwan Barghuthi, il più temuto e rispettato in Palestina.

PROVE DI RICONCILIAZIONE PALESTINESE

In Medioriente. Hamas accetta di smantellare il governo di Gaza. Con un comunicato stringato, l’organizzazione terroristica palestinese, che da 10 anni controlla la Striscia di Gaza, annuncia di accogliere le condizioni del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e intraprendere una fase di riconciliazione interna, sotto l’egida dell’Egitto del generale al-Sisi. Aprendo alle elezioni e ad un governo di unità nazionale per il periodo di transizione. Prove di dialogo, in passato sempre fallito, tra le principali fazioni palestinesi, che sono state ad un passo dal far precipitare la Palestina in una guerra civile. Le prossime ore segnano anche la vigilia degli incontri, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, tra Trump, il primo ministro israeliano e il presidente palestinese, per discutere del processo di pace.
Hamas nell’arco di un trentennio ha saputo mantenere una doppia linea d’indirizzo: proseguire nello scontro militare contro Israele e promuovere capillarmente il consenso popolare. Due approcci interconnessi. L’organizzazione terroristica palestinese ha sconvolto l’opinione pubblica internazionale con i suoi attentati ai civili israeliani. Ha frastornato i commentatori di mezzo mondo stravincendo libere e democratiche elezioni legislative nel 2006, lasciando la Comunità Internazionale nello sconcerto per quel risultato elettorale, raggiunto contro ogni pronostico, e nonostante qualche ostacolo. Diventando la prima forza politica tra i palestinesi. Oscurando Fatah, il partito di Arafat, che già prima della scomparsa del suo storico fondatore, era accusato di: fauda (caos), fasad (corruzione), fitna (incitamento al conflitto) e falatan (immoralità). Abu Mazen, l’erede di Mr Palestina, è al dodicesimo anno consecutivo di mandato. È politicamente logorato, non può contare nemmeno sull’appoggio incondizionato della Casa Bianca. Ha perso la fiducia del suo popolo, lo testimoniano le recenti elezioni amministrative, a maggio di quest’anno, in Cisgiordania, con Fatah ridimensionato nei numeri e fuori dal governo delle principali città. Coinvolto in una faida per la sua successione alla Muqata. Molto meno convulsa la situazione dentro Hamas, dove con linearità le varie anime che compongono l’organizzazione – ala militare, religiosa e caritatevole, politica ed estera – evitano contrapposizioni e litigi. Alternando al vertice in questi ultimi anni figure chiave come Khaled Meshal prima, e Ismail Haniyeh, oggi. Meshal è il collettore degli aiuti internazionali dal mondo arabo e il pontiere delle alleanze strategiche nella regione mediorientale, dalla Turchia al Qatar. Haniyeh, elevato al ruolo di capo supremo è il mediatore con l’ al-Sisi, rinnegando i Fratelli Mussulmani. Sua l’iniziativa di cedere Gaza, in quella che era una mossa quasi forzata: le pressioni egiziane e la crisi economica strutturale davano poche alternative. L’inverno alle porte e la precarietà di energia elettrica per la popolazione gazawa, le ripetute guerre con Israele, l’altissima disoccupazione, le condizioni di povertà diffuse, le carenze nei servizi, il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione, la chiusura dei valichi, sono fattori e difficoltà che sfiancherebbero qualsiasi regime. La decisione della dirigenza di Hamas di fare un passo indietro e indire il voto è, quindi, una svolta ambigua e il gioco è pericoloso. Il gesto eclatante di consegnare le chiavi di Gaza pone Abu Mazen difronte a seri imbarazzi: quella di Hamas infatti non è una resa incondizionata, le milizie non deporranno le armi e tantomeno saranno dismesse. E sul piano internazionale se il presidente palestinese non dovesse accogliere la proposta di Haniyeh andrebbe ad incrinare seriamente le relazioni con il Cairo, perdendo un prezioso alleato. Al contrario se, il condizionale è d’obbligo, ratifica l’offerta, dovrà aspettarsi ritorsioni da parte di Israele. Nel 2050 Gaza rischia di essere un luogo invivibile, ma prima di allora Hamas potrebbe governare in tutta la Palestina non occupata da Israele.

BUS NUMERO 12

Gerusalemme ancora una volta piomba in una angosciante sciagura. Alla vigilia della Pesach, la Pasqua ebraica, poco dopo le 17.30 di un lunedì pomeriggio in una calda primavera, esplode un bus di linea: 21 persone ferite, alcune in gravissime condizioni. Tra queste il presunto kamikaze palestinese. L’attacco terroristico interrompe settimane di relativa calma, se di calma si possa mai parlare in Medioriente, dopo l’escalation, nei passati mesi, dell’Intifada dei lupi solitari i giovani “martiri” palestinesi ripongono il coltello e indossano le cinture esplosive, copiando l’esempio dei loro coetanei di Bruxelles e Parigi. L’attentato a Gerusalemme segna quello che viene commentato dagli analisti come “un salto di qualità del terrorismo palestinese”, ovviamente in negativo. In realtà è il ritorno ad una strategia “vecchia” che non si vedeva da anni, dalla Seconda Intifada e le bombe nei luoghi pubblici. Bus, bar, ristoranti, pizzerie, discoteche macchiati di sangue innocente, una lunga scia di morti, di lenzuoli bianchi a coprire i cadaveri che giacevano a terra. Ieri come oggi quando Israele è attaccato a Gaza si festeggia con pasticcini e canti. Nella striscia di terra più densamente popolata al mondo regna il fondamentalismo islamico di Hamas, alleato dell’Isis in Sinai nel nome della jihad: la guerra santa globale colpisce il vagone della metropolitana alla fermata del quartiere multietnico di Maelbeek e l’autobus numero 12 a Talpiot, periferia meridionale della città Santa. Luogo di centri commerciali, meccanici e carrozzerie dove quotidianamente palestinesi ed israeliani lavorano fianco a fianco e dove dividono la fila nei supermercati. “Dopo l’esplosione non si vedeva più niente era buio, c’era fumo ovunque. Mi sono messa a cercare mia figlia, l’ho trovata sdraiata a terra aveva tutto il corpo ustionato. Tra un mese avrebbe compiuto 16 anni, ora è sedata da farmaci e attaccata ad un respiratore. Adesso prego che sopravviva”. È il ritorno ad una triste cronaca: il boato, un rumore sordo che ti entra dentro, un brivido che ti scuote. E poi un istante di silenzio innaturale, il fumo, le grida, le sirene delle ambulanze in una corsa contro il tempo, i paramedici con i lettini e le flebo, i poliziotti che transennano l’area, gli elicotteri, il caos e la paura che si diffondono ovunque. Quando finirà tutto questo? C’è chi dice quando ci sarà uno stato palestinese indipendente e c’è chi dice quando non esisterà più uno stato di Israele. È lecito pensare che non finirà mai. A meno che “qualcuno” non decida di porvi fine, a chiare lettere. Dando ascolto, per una volta, alle voci di pace, al lamento e alle lacrime della gente che soffre. “Non ho mai intenzionalmente fatto del male ad un’altra persona. Non mi è mai venuto in mente di maltrattare un altro essere umano solo perché la pensa in modo diverso”. Legge il testo del comunicato in inglese Renana Meir, 17 anni israeliana, spiegando che sua madre è stata uccisa davanti a lei, sotto i suoi occhi: brutalmente accoltellata da due minorenni palestinesi. Parla la giovane Renana, nelle stesse ore in cui a Gerusalemme ancora una volta si salta in aria, e lo fa alla platea di diplomatici del Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro. “È difficile esprimere a parole quanto sia profondo il mio dolore”. Eppure, aggiunge “Io non odio, non riesco ad odiare. Con il cuore a pezzi siamo venuti qui oggi a chiedere il vostro aiuto. Aiutateci a creare la pace attraverso l’amore e a trovare il buono che è in ciascuno di noi”.