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FLOP ELEZIONI, BIBI EVITA IL PRIMO OSTACOLO

Israele al voto, in tempo di guerra. Le elezioni amministrative, in origine previste a fine ottobre e posticipate a causa dell’intensificato conflitto con Hamas e dell’escalation con Hezbollah, si sono svolte martedì 27 febbraio, riscontrando generalmente una bassa partecipazione. Per la terza volta nella sua storia lo stato ebraico ha dovuto rinviare le elezioni locali. In precedenza avvenne nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur e nel 1982 in concomitanza della prima guerra in Libano.

197 sono stati i comuni interessati da questa tornata, esclusi invece, una decina in tutto, alcuni situati lungo il confine della Striscia di Gaza ed altri al nord limitrofi al Libano. Dove i residenti sono da mesi stati evacuati per ragioni di sicurezza e distribuiti in varie parti del paese, alloggiati in hotel o temporaneamente presso amici e familiari. Rendendo complicata la logistica dell’organizzazione, per loro si svolgeranno il prossimo autunno. Dei circa sette milioni di aventi diritto solo meno della metà si è recato alle 11 mila urne distribuite urne nel paese. La settimana scorsa i primi a votare con la doppia scheda (gialla per eleggere il sindaco e bianca per la lista del consiglio comunale) sono stati militari e riservisti, nei seggi allestiti presso le basi dell’esercito.

Molto alto il livello della sicurezza, con regolari controlli ogni due ore, predisposti da polizia in coordinamento con il comando militare. Come prevede la legge se nessuno dei candidati supera la soglia del 40% è previsto il ballottaggio tra i primi due. Per conoscere il nome del sindaco di Haifa, terza città per numero di abitanti, si dovrà aspettare il 10 marzo. Intanto, nell’ombra della guerra che incombe, lo spoglio è andato a rilento. L’esito parziale tuttavia, ha confermato la vittoria degli attuali sindaci di Tel Aviv e Gerusalemme. Non cambia colore (e tendenza) la città laica, del mare e del divertimento, retta ininterrottamente dal 1998 da Ron Huldai, storica figura del partito laburista. Che si attesta sopra il 50%, staccando di una decina di punti la rivale Orna Barbivai, espressione dell’ala centrista e liberale. Non è bastato l’endorsement del leader dell’opposizione Yair Lapid all’ex generale (prima donna a raggiungere tale grado nell’IDF), e già parlamentare della Knesset, per sconfiggere l’inossidabile ed intramontabile Huldai. Poco distante, nella “Santa Gerusalemme” tutto secondo le previsioni della vigilia. Eletto Moshe Lion, secondo mandato consecutivo per il noto dirigente del Likud. Che ha letteralmente stracciato gli avversari. Compreso l’attivista per i diritti civili Yosi Havilio, sponsorizzato dal “campo largo” di centrosinistra (e dal movimento pro-democrazia). Nulla da fare per lui in una corsa persa in partenza, in una città dove il voto secolare è ormai minoritario e ininfluente difronte all’ortodossia dei religiosi. Cade anche la storica roccaforte laburista di Holon, alle porte di Tel Aviv. Sconfitto Moti Sasson che sullo scranno di sindaco sedeva da 30 anni. Costretto a farsi da parte per l’avanzata imperiosa della lista indipendente dei “volontari” guidata da Shai Kenan. Che con la sua organizzazione benefica ha scalato la fiducia tra la gente.

Problematico il voto nelle comunità arabe-israeliane investite da un’onda di criminalità senza precedenti. Oggetto di costanti pressioni e quotidiani violenti attacchi. A riguardo i ricercatori Yael Litmanovitz e Muhammed Khalaily hanno scritto: “Dobbiamo protestare contro il contesto devastante che stanno vivendo le comunità arabe negli ultimi anni, in cui i cittadini hanno paura di uscire di casa dopo il tramonto, hanno paura persino di mandare i figli a scuola o al parco, addirittura di dormire troppo vicino alle finestre per gli spari. Non dobbiamo permettere che si crei una situazione in cui gli arabi di Israele abbiano paura di andare a votare ed eleggere un sindaco o un consigliere, né una situazione in cui i candidati stessi temono che svolgere un ruolo civico possa costare loro la vita”.

In conclusione. Queste elezioni amministrative non hanno avuto un riflesso su scala nazionale. Al contrario, a trainare i pochi contendibili voti sono stati i candidati in gioco. Netanyahu si è tenuto lontano dalla campagna elettorale, per ovvi motivi politici, in un momento in cui ha ben altro a cui pensare. Lasciando che l’elezione facesse il suo corso naturale. E così Bibi non è stato investito da un referendum sulla sua persona, che avrebbe potuto provocare un terremoto politico. Cresce comunque il peso nella società tanto dei movimenti dal basso quanto degli ortodossi. Il vero dato negativo è la bassa, bassissima affluenza (a Gerusalemme si sono recati alle urne il 25% degli aventi diritto). Il fattore guerra ha sicuramente influito sul diffuso pessimismo verso la politica. Il nodo della tutela della democrazia è alla radice.

LE AQUILE

Oggi ho visto per la prima volta un aquila combattere con un corvo. Il bianco uccello alato contro quello nero e gracchiante. Alcune rapide strambate al vento, discese in picchiata libera e poi la mossa che non avrei mai immaginato in quel duello aereo da prima guerra mondiale, avvenuto sopra il verde mare delle Andamane: il corvo in posizione migliore per sferrare l’attacco dall’alto sembrava aver sopraffatto l’aquila, che improvvisamente ha girato su se stessa ritrovandosi becco a becco con il nemico, continuando a volare all’incontrario e colpendo l’avversario colto di sorpresa. Pochi attimi di acrobazie. Fine della guerra.
In questi giorni, di non proprio buon umore, due libri mi sono stati di conforto. E sono “Quando le montagne cantano” scritto da Nguyen Phan Que Mai (perdonate gli “accenti” mancanti sulle e) e “Diario di una splendida avventura” di Tonino Aloi. Il primo è finzione, narra la saga di una famiglia vietnamita che scorre dagli anni ‘30 dello scorso secolo fino ai giorni nostri. Il secondo invece è il racconto dell’esperienza di vita dell’autore, medico e cooperante, e della moglie Raffaella in Africa. Si snoda così il diario di un “viaggio” che nel 1971 li ha portati in Uganda, ad aiutare il prossimo. Per fede e altruismo. Innovando la cooperazione allo sviluppo.
I due libri lasciano e tracciano una lunga scia, trasportandoti in mezzo a violenza, facendoti toccare con mano fame, povertà e malattia (e nel caso di Tonino anche di applicazione pratica della medicina tropicale). Due testi pervasi di forza d’animo nel far fronte alle difficoltà da superare. Volontà di dimostrare e dare coraggio al prossimo. In un mondo dove tutto ruota intorno alla speranza, a cui si affidano tanto i personaggi di Nguyen quanto Tonino. Accompagnati nella loro peregrinazione, reale e non, da amici, nemici, crescita spirituale, buddismo o cattolicesimo. Immergendosi, nel loro caso, completamente nel contesto e nel paesaggio.
“Ogni giorno, prego perché il fuoco della guerra si estingua. Allora tuo zio potrà camminare sulle ceneri di tutto ciò che abbiamo perduto e tornare a casa. Sono sicura che questo momento arriverà”, ripete la nonna alla nipote in un Vietnam rovesciato dal conflitto.
Riflette il dottor Aloi guardando indietro: “Ognuno vive la propria vita e la propria esperienza, l’importante è viverla con lealtà e passione nei propri confronti e nei confronti degli altri, seguendo, più o meno coscientemente, la vocazione che il Signore ti manda”.
Ho raccontato ad un vecchio gipsy del mare di aver visto la “battaglia” delle Andamane tra il corvo e l’aquila. Lui mi ha guardato con gli occhi scavati e scuri. Poi in inglese (senza le r) e la movenza delle mani ha descritto la bellezza dello spettacolo della “danza” delle aquile, per accoppiarsi. Dicendomi che da quel momento il legame è eterno. Ecco, Tonino e Raffaella sono due aquile che volteggiano magistralmente sopra la nostra storia.

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SHOOT

In Medioriente storie di conflitto, violenza ed effetti “collaterali” drammaticamente si intrecciano. 30 novembre 2023. È mattina. Mentre la tregua della guerra a Gaza è in bilico, Gerusalemme è ancora una volta sotto attacco terroristico. Qualche decina di minuti prima dello scoccare delle otto le agenzie di stampa israeliane battono la notizia che medici e polizia sono impegnati alla periferia della città. Sul posto le ambulanze della Magen David Adom stanno prestando le cure a sei feriti. Le condizioni di alcuni sono gravi. Almeno due assalitori sono stati uccisi nello scontro. Secondo i media uno dei soccorritori intervenuti è un soldato in congedo, si scoprirà essere Aviad Frija, che stava facendo ritorno in prima linea. Nel filmato lo si vede in divisa insieme ad un commilitone uscire dall’auto con la sua arma in dotazione e correre verso i terroristi. Con il passare delle ore il numero delle vittime cresce. Hamas rivendica l’azione. Le immagini riprese dalle telecamere all’incrocio di Weizman street iniziano a circolare in rete. I terroristi sono stati identificati come due fratelli palestinesi residenti nel quartiere gerosolimitano meridionale di Sur Baher.
Yuval Doron Castleman, avvocato israeliano con un passato nei servizi di sicurezza, è stato il primo cittadino ad intervenire. É sceso dalla vettura che viaggiava in senso opposto, ha attraversato a piedi le corsie e sopraffatto i due attentatori. Poi ha gettato a terra la pistola che impugnava, si è aperto la camicia e inginocchiato a terra, alzando le mani in alto. Gridava non sparate. Invece, il sergente della riserva Frija ha premuto il grilletto del fucile.
Per gli avvocati del riservista: “I video dell’accaduto che sono stati pubblicati sui social network, e le diverse angolazioni delle telecamere, creano un’impressione parziale ed errata che non riflette ciò che si vede e sente dalla direzione del militare”. Aggiungono. “Dal posto in cui si trovava, e dai suoni che ha sentito, era convinto con tutto il cuore che stava sparando a un terrorista, che rappresentava ancora un potenziale pericolo”, concludono. ”Dopo aver ascoltato la sua testimonianza, non abbiamo dubbi che in queste insolite particolari circostanze, anche l’Ufficio della procura Generale Militare raggiungerà la chiara conclusione che, con tutto il pesante dolore per il terribile esito, questo è un tragico errore che non giustifica l’adozione di misure penali contro di lui”. Frija, per la cronaca, è stato arrestato. Nei precedenti casi in cui i soldati dell’IDF si sono trovati in simili situazioni, infrangendo le regole di ingaggio e provocando la morte di un palestinese, solitamente l’accusa non è mai stata di omicidio di primo grado, ma semplicemente colposo. Con la conseguente condanna che amministrativamente comporta una pena inferiore ai due anni, addirittura anche solo poche settimane di carcere. A morire però questa volta è stato un israeliano.
Il dibattito politico si accende. Il premier Netanyahu quello stesso giorno in tarda serata dichiara: “La realtà dei civili armati è che molte volte salvano vite e prevengono un disastro maggiore. Nella situazione in cui ci troviamo questo metodo dovrebbe essere perseguito. Pur avendo da pagare un prezzo, questa è la vita”. Il riferimento era sia all’uccisione di Castleman sia alla linea politica introdotta dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che prevede di allentare le restrizioni sulle licenze di armi da fuoco (260 mila sono quelle che sono state rilasciate dopo gli eventi del 7 ottobre).
Ma lo scivolone sul “così è la vita” scatena un’alzata di scudi. Protesta Moshe Castleman, padre della vittima, che critica aspramente il commento, invitando il “falco” della destra a guardare i video prima di parlare. “[Mio figlio] ha seguito tutte le procedure in modo da poter essere identificato. Si è inginocchiato, ha aperto la giacca per mostrare che non aveva esplosivi addosso, ha urlato: “Non sparate, sono ebreo, sono israeliano”. E invece hanno compiuto una vera e propria esecuzione”. A quel punto Netanyahu (che non ne azzecca più una) accortosi dell’errore di comunicazione torna sui propri passi. Chiama al telefono Castleman: “Suo figlio è un eroe israeliano. Yuval, in un atto di supremo coraggio, ha salvato molte vite, ma sfortunatamente si è verificata una terribile tragedia”. Il leader del Likud promette di andare fino in fondo con l’indagine dei fatti. Intanto, il presidente Isaac Herzog, con il suo stile mite e riservato, si presenta personalmente a casa della famiglia Castleman per rendere le sentite condoglianze. “Sono qui non solo come individuo, ma come presidente dello Stato di Israele, per chiedere perdono ed esprimere enorme apprezzamento a un eroe israeliano che ha fatto una cosa grande e coraggiosa”. Herzog va oltre le scuse e dice quello che pensa sull’intera questione della “liberalizzazione” delle armi fortemente voluta dall’estrema destra al governo: “Non dobbiamo aver paura di parlarne, di mettere la questione sul tavolo”.
Sentitosi chiamato in causa, e non perdendo occasione per tacere o andare a passeggiare provocatoriamente sulla Spianata delle moschee, Ben-Gvir ha replicato: “Sapevamo di avere ragione quando dicevamo che ogni luogo dove c’è una pistola può salvare una vita”. Il politico nazionalista chiarisce: “stiamo fornendo 3.000 licenze al giorno”, rispetto alle poche richieste prima del pogrom del 7 ottobre.
Per Israele liberarsi dalla paura provocata da quell’evento è impossibile, almeno per ora. La corsa alle armi è una reazione che ci si poteva attendere. Trasformare lo stato in un far west comunque non risolve il problema e in questo momento andrebbe evitato.

K DI KISSINGER

Tra le tante memorie che stanno condendo il ricordo del grande e discusso statista Henry Kissinger ce ne è una che merita di essere ricordata, proprio in questi giorni di violenza. Quando nel 1973 scoppiò la guerra dello Yom Kippur, la premier Golda Meir si rivolse alla Casa Bianca, chiedendo consistenti aiuti militari. Il conflitto con l’avanzata degli eserciti arabi aveva preso una brutta piega per Israele, che stava rischiando di perderlo in modo catastrofico. Passarono diversi giorni prima che gli Usa lanciassero in soccorso degli alleati un massiccio ponte aereo, composto sostanzialmente dai rifornimenti richiesti. Per anni ha prevalso l’idea, o meglio la sensazione, che l’amministrazione Nixon, e quindi il suo consigliere più fidato, il segretario di stato Henry Kissinger, avessero deliberatamente ritardato l’invio di armi per ragioni che sono oggetto di dibattito storico. Secondo questa lettura una parte delle colpe del ritardo sarebbero sia imputabili a James Schlesinger, il segretario alla Difesa, che all’atteggiamento “machiavellico” dello stesso Kissinger.
Recenti studi hanno invece messo in luce una diversa spiegazione dei fatti, adducendo che la lentezza della tempistica era dovuta alla logistica per l’invio di materiale bellico sul fronte mediorientale. Alcuni storici hanno persino evidenziato difetti nella comunicazione tra Washington e Gerusalemme, dove ci sarebbe stato più di un fraintendimento sull’urgenza dell’operazione.
Cosa accadde realmente è nascosto in una famosa storiella, che passa da tanti anni ormai di bocca in bocca. Si dice, che nel corso di una drammatica riunione del gabinetto di guerra Golda Meir chiamò personalmente Kissinger, per premurarsi dell’appoggio militare di cui aveva disperato bisogno. Leggenda narra che la telefonata fu piuttosto burrascosa, e volarono parole grosse. Che tra i due non corressero buoni rapporti era cosa risaputa. L’ammirazione che Henry mostrava pubblicamente nei confronti di Golda non era ricambiata, per vari motivi. A partire dalla differente visione sull’Urss. D’altro canto il demiurgo della geopolitica internazionale dichiarerà, intervistato, che il suo interlocutore preferito fosse Yitzhak Rabin.
Quanto Meir, convinta socialista, non stimasse troppo il Richelieu statunitense è oggetto persino di una famosa frecciata al presidente Richard Nixon, reo di averle ricordato che in comune avevano due ministri degli Esteri, entrambi ebrei. Sentita l’affermazione rispose senza peli sulla lingua che l’allora ministro israeliano Abba Eban (educato a Cambridge) però parlava perfettamente inglese, alludendo al fatto che Kissinger, nato in Germania, si esprimeva nella lingua anglosassone ancora con marcato accento tedesco.
Ritornando a quel colloquio di 50 anni fa, che forse cambiò le sorti della guerra, ad un certo punto della chiamata la “lady di ferro” avrebbe tuonato: “Le ricordo che è un ebreo come noi!”. Kissinger indispettito replicò: “E io le ricordo che prima di tutto sono un cittadino statunitense, poi sono il segretario di Stato e infine sono anche ebreo”. Pronta la risposta di Meir: “Appunto, caro Kissinger. Come sa benissimo, in Israele leggiamo da destra a sinistra”. E riattaccò il telefono. Poco dopo alla chetichella gli aiuti arrivarono e la guerra fu vinta. Fine della barzelletta, inizio della storia.

I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.

IL COMPLESSO DI CAINO

E l’Eterno disse a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?”, ed egli rispose: “Non lo so; sono forse il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4,9). L’ong statunitense J street e la fondazione Kohelet, con sede a Gerusalemme, sono “figli” dello stesso diritto: Israele casa per gli ebrei. Hanno, tuttavia, due visioni inconciliabili sul piano del modello di stato sionista (o post) da conseguire. Schierati su campi opposti per determinare, in una battaglia cruciale e non solo culturale, le sorti di Israele. In una sfida ideologica tra allergici alla sinistra e demonizzatori della destra, pro Bibi e anti Netanyahu, tifosi della riforma della giustizia e contrari alla sua introduzione, nazional-religiosi e laici progressisti, Caino e Abele.

J Street, a cui aderiscono vari membri del Congresso di Washington, incarna l’idea che solo una risoluzione negoziata tra israeliani e palestinesi possa soddisfare le legittime esigenze ed aspirazioni nazionali di entrambi i popoli: “Crediamo che il popolo palestinese, come il popolo ebraico, abbia il diritto ad una nazione democratica, che vivano fianco a fianco in pace, libertà e sicurezza. E che – i palestinesi – meritano pieni diritti civili e la fine dell’ingiustizia sistemica dell’occupazione”. In sintesi, la posizione espressa è appunto quella dei raggiungere il compimento di due stati sovrani, della pace in cambio di terra e la fine dell’occupazione. Al momento, si mantengono sulla strada che appare più impervia da percorrere, quella tracciata da Rabin e Shimon Peres.

Il Kohelet Policy Forum è invece un think-tank che si definisce apartitico, premuroso di dedicarsi alla promozione dei valori della libertà individuale e del libero mercato, di Israele come stato-nazione del popolo ebraico (di cui hanno architettato l’architrave giuridico) e della democrazia rappresentativa (in senso populista). La matrice di base del loro pensiero è il conservatorismo religioso. È ormai largamente acquisito che dietro alla contestata revisione del sistema della giustizia, che ha spaccato il paese, ci sia il loro disegno di legge di depotenziamento dei poteri della Corte Suprema: «Non siamo stati noi a prepararlo, ma il Kohelet Forum», ha dichiarato durante un’intervista a Channel 13 Keti Shitrit, parlamentare del Likud. Progetto che ha preso immagine nell’attuale esecutivo di Netanyahu.

Il refrain della critica a J street è rimasto pressoché inalterato da quello espresso da Seth Mandel, in un editoriale del 2011 sul mensile Commentary: «A differenza dei veri moderati, che occupano la terra di mezzo, questi “moderati” sono persone che non hanno principi, esistono solo per togliere consenso e la cui ragion d’essere è opporsi a qualsiasi cosa venga praticata da quelli di cui non si fidano. Questo è sempre stato il caso di J Street, un’organizzazione fondata semplicemente attaccando l’infrastruttura esistente del sostegno filo-israeliano, adoperando termini politici rozzi e iper-partigiani». A sua volta il giudizio rivolto al Kohelet non è meno negativo, così Yofi Tirosh docente dell’Università di Tel Aviv: «Sta rompendo il delicato equilibrio tra l’Israele tradizionale e gli ultra-ortodossi». L’obiettivo dei nuovi intellettuali di destra sarebbe di riscrivere completamente lo stile di vita degli israeliani, favorendo coloro che «sono convinti che l’ostacolo alla venuta del messia venga dalla violazione dello Shabbat o dal fatto che le donne indossino un abbigliamento non consono». Kohelet è un collettore che centrifuga maschilismo, sciovinismo, razzismo e messianesimo. Numericamente godono della possibilità di legiferare a proprio piacimento in parlamento. Dove affiliazioni più estremiste invocano la creazione di una milizia privata, il taglio dei fondi alle municipalità arabe, la distruzione di villaggi palestinesi, il divieto a sventolare la bandiera palestinese e la discriminazione di genere nei luoghi pubblici. Impongono dettami nello Shabbat (soprattutto nei trasporti), nei cibi (kosher) e nell’educazione. Difendono il vandalismo dei pogrom contro gli arabi e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Il loro peccato originale è proverbialmente l’istinto di Caino che li pervade, spingendoli a cancellare gli assetti fondanti della democrazia, di cui ciascuno a suo modo è guardiano.

BIBI E LA STRATEGIA SOVRANISTA

Che cosa può fermare Benjamin Netanyahu dal suo attacco diretto alla democrazia di Israele? A questa domanda si può rispondere in vari modi. Quella più spontanea è che solo lui è in grado di evitare il disastro dell’abisso dei valori dei padri fondatori, fermando la riforma della giustizia che non ha l’obiettivo di riequilibrare gli assetti tra i poteri dello Stato ma quello di scardinare l’intero sistema di controllo della Corte Suprema su esecutivo e parlamento.
In pratica una vera e propria rivoluzione che andrebbe ad amplificare il potere della maggioranza di governo. La seconda lettura degli eventi è che a questo punto il longevo premier appare prigioniero del suo stesso disegno. La decisione di formare una coalizione con l’estrema destra è risultata una mossa elettoralmente vincente, ma ha tuttavia finito per tramutarsi in un prezzo troppo alto da pagare. E ben presto Netanyahu ha dovuto subire le pressanti richieste, talvolta spudorate minacce, degli alleati. Concessioni che hanno messo in luce un leader debole come non mai.
L’errore del falco del Likud è stato quello di circondarsi di una corte di devoti yes man e poche donne. Oggi i sondaggi di gradimento sono impietosi sull’operato di questo governo. A criticare aspramente c’è una parte di Israele, che si è ribellata all’introduzione della nuova legislazione e da mesi scende in piazza: blocca l’aeroporto, ha marciato per 60km fino a Gerusalemme, e ha piazzato centinaia di tende difronte alla Knesset. Un’onda pacifica cresciuta nel tempo, che sventola la bandiera di Davide e si erge a difensore di diritti e libertà.
Il movimento pro-democrazia crede che il pericolo della deriva autoritaria e persino di una dittatura sia imminente. Alla protesta aderiscono interi settori della società, medici, riservisti dell’esercito, insegnanti, diplomatici, artisti, intellettuali etc. Sono ovviamente una spina nel fianco di Netanyahu, sono numerosi e determinati a non desistere nella loro lotta. Ciononostante, c’è anche una larga fetta dell’elettorato di destra che è ancora convinto della necessità di apportare modifiche sostanziali al sistema.
La ragione principale alla base di questo approccio è la riluttanza atavica agli apparati dello stato, perché considerati espressione di una élite, tendenzialmente manovrata dalla sinistra o riconducibile in vario modo ad essa. A prescindere da ciò che pensano, sbagliato o meno, il quadro odierno è di una nazione profondamente lacerata. A provocare questo danno, e qui non c’è nessun dubbio storico, hanno inciso tre decadi di martellante propaganda narrativa di Netanyahu, nel nome della paura. Che hanno radicalmente e persino subdolamente cambiato Israele.
Fino al punto che una società “polmone” di esperienze (e sofferenze) ha smesso di ossigenare il suo popolo. In Israele la democrazia per continuare a vivere deve prima di tutto trovare la sua ancora di salvataggio. C’è chi invoca la costituzione, di cui il paese è privo. Ma prima forse dovrebbe guardarsi dentro, e resettare l’era di Netanyahu.

Israele e Palestina, racconti di morte e guerra

Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata. Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un’overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie. Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. Qualche colpa ce l’ha chi governa (e la politica), chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile. Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è una questione di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Una guerra, come scrivo da anni, che è logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non lo potete domandare sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza. La loro “sfortuna” è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? A Gaza tornerà la calma, ci sarà una nuova tregua che non durerà, e il disco rotto della violenza riprenderà a suonare. È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini. Ma non per morire insieme.

Enrico Catassi

DOMANI E SEMPRE E’ IL 25 APRILE

“In Europa, in questo momento, sono in corso, contemporaneamente, due guerre, su piani diversi ma strettamente connessi: quella che vede l’Ucraina aggredita dalla Federazione Russa nella sua integrità territoriale, e una guerra di valori, in cui sono in gioco tutti gli elementi che caratterizzano l’odierna esperienza occidentale, a partire dalla libertà”, sono le parole pronunciate pochi giorni fa all’Università di Cracovia da Mattarella, che suonano antitetiche alle dottrine sovraniste dilaganti.

La lunga ed intensa settimana dedicata alla Memoria e alla Liberazione del presidente della repubblica si snoda dai campi di sterminio in Polonia ai sentieri dei partigiani italiani nel cuneese. Ad Auschwitz si è recato insieme alle sorelle Tatiana e Andra Bucci, sopravvissute alla Shoah. Per la prima volta la massima carica dello stato ha aderito alla Marcia dei vivi, manifestazione istituita nel 1988 a cui partecipano migliaia di giovani da tutta Europa e dal mondo. Il viaggio nell’est di Mattarella avviene in un momento particolarmente cruciale per il Vecchio Continente. La guerra è alle sue porte e la Polonia è il suo ultimo confine. Ed è lì che il presidente ha voluto ribadire un doppio concetto: condannare l’invasione russa e ringraziare per aver accolto milioni di profughi in fuga dall’orrore della violenza. Solidarietà che in passato, nemmeno troppo lontano, la Polonia ha volutamente ignorato. Con il governo di estrema destra guidato da Mateusz Morawiecki che nel nome del nazionalismo ha abbracciato politiche di respingimento dei migranti.

Impossibile non dimenticare che esattamente 80 anni fa nel ghetto di Varsavia avvenne la prima ribellione contro l’occupazione nazista. Una lotta imparziale e impossibile. Che fu però l’inizio della rivolta ebraica, la più lunga e partecipata durante l’Olocausto. Si trattò di un’insurrezione popolare, che le SS e le milizie polacche repressero nel sangue. Per poi sterminare la restante comunità nei lager. Quella battaglia è oggi un simbolo profondo di civiltà. E le ultime parole del suo leader Mordecai Anielewicz un inno eroico: “Il sogno della mia vita è diventato realtà. L’autodifesa ebraica nel ghetto di Varsavia è diventata un dato di fatto. La resistenza armata ebraica e la rappresaglia sono diventate una realtà. Ho assistito alla magnifica lotta eroica dei combattenti ebrei”. Allora, anche in Italia i Comitati di Liberazione Nazionale fecero la giusta scelta di opporsi alle barbarie del nazifascimo. A luglio del 1943 solo pochi mesi dopo gli eventi di Varsavia, tra i torrenti Stura e Gesso, risuona l’appello alla resistenza del comandante partigiano Duccio Galimberti: “Siamo arrivati a questo punto per una guerra assurda imposta al paese da una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore”. L’antifascismo di Anielewicz e Galimberti, pagato da entrambi al prezzo della propria vita, sono capitoli della nostra storia che non possono essere negati, e tantomeno rivisitati. Né minimizzati a prescindere dal colore di chi governa.

IL DECLINO DEL BIBISMO

Perché nonostante Netanyahu abbia fatto un doppio passo indietro, concedendo una pausa all’iter legislativo della contestata riforma giudiziaria e aprendo ai negoziati, la protesta nelle strade di Israele continua? Alla domanda, facciamo nostre le parole di una delle firme più autorevoli di Haaretz, Anshel Pfeffer: “Perché nessuno si fida più di Netanyahu. Se il primo ministro pensava che la sua decisione di congelare la riforma della giustizia gli avrebbe concesso un momento di tregua, l’accordo siglato con l’estremista Itamar Ben-Gvir per creare una sua milizia privata ha fatto naufragare la situazione – e ha creato un altro problema a Bibi”.
Non sventolano il ramoscello d’ulivo i manifestanti che da mesi paralizzano il paese. È opinione diffusa, e plausibile, che in realtà l’obiettivo di indebolire il potere della Corte Suprema non sia stato assolutamente tolto dall’agenda dell’esecutivo. L’ha solamente riposto nel cassetto, per prendere tempo e aspettare giorni migliori. Allo stesso tempo, la strada della trattativa tra maggioranza ed opposizione, sponsorizzata dal presidente della Repubblica Isaac Herzog, è stretta. Difficile, per non dire impossibile, che si arrivi ad un punto di compromesso tra le parti. E assai complicato che il clima politico decanti velocemente. Per ora, Israele dovrà restare con il dubbio che la sua tenuta sociale è fragile, e a rischio implosione. Con Netanyahu sempre più in un angolo, stretto sotto la pressione di fattori esterni ed interni. C’è la piazza con il movimento pro democrazia che ha vinto la sua prima battaglia ed è intenzionata a non fermarsi, fino alla sua destituzione. C’è la sfida di Yoav Gallant (formalmente ancora ministro della Difesa seppur sfiduciato), colpevole di lesa maestà, che “coraggiosamente” ha scelto di patteggiare per la ragionevolezza invece dello scontro frontale. Ci sono i sondaggi con il “moderato” Benny Gantz e il suo partito in forte crescita, a danno del Likud. C’è Herzog in campo a fare da arbitro, e ispiratore di una fase costituente. Il presidente Biden a tifare, apertamente, per i manifestanti, creando non pochi imbarazzi diplomatici all’amico di vecchia data. E infine, gli alleati di governo ad alzare alle stelle il prezzo delle richieste.
Prendiamo ad esempio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza e leader del partito di estrema destra Otzma, al quale Netanyahu ha dovuto concedere la creazione di una futura guardia nazionale in cambio dell’approvazione a rinviare la riforma della giustizia. Mettere nelle mani di Ben-Gvir, una milizia è potenzialmente un errore, e un pericolo. Varie associazioni israeliane per i diritti civili hanno espresso preoccupazione alla creazione di una tale forza privata ed armata. Fermamente contrari anche la Procura generale, i vertici della polizia e dei servizi segreti. Domenica 2 aprile, il Consiglio dei ministri ha comunque dato il via libera alla proposta di istituire la guardia nazionale, per il bene della tenuta della coalizione. Lasciando la “calda palla” a un comitato che dovrà entro 60 giorni presentare un piano organizzativo, se si dovesse giungere alla conclusione che questo corpo parallelo di polizia risponde unicamente all’autorità del ministro, e non agli organi preposti all’ordine pubblico, ci sarà tuttavia bisogno di introdurre una normativa ad hoc. In tal caso il governo avrà a disposizione altri 90 giorni per approvare la nuova legge. Non è detto che anche questa iniziativa (e promessa di Bibi) finisca per diventare irrealizzabile. E che passi nel dimenticatoio. In molti lo sperano. E vedono prossimo il crepuscolo politico di Netanyahu. Ben-Gvir ha trovato il tallone di Achille e attacca colpendo duro. C’è da credere che presenterà qualche altra delirante pretesa minacciando, in caso contrario, di far cadere il governo. Prima o poi re Bibi dovrà dirgli un secco no. E decidere se spostarsi fuori dal quadrato della sua coalizione in cui si è trincerato. L’alternativa è formare una diversa maggioranza o tornare al voto, senza però avere una copertura tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. La morsa si stringe intorno al falco della destra, per uscirne farebbe meglio a guardare alla costituzione, che manca da 75 anni.