L’IMPORTANTE E’ ASPETTARE

“Are elections an option?”. Sono le elezioni in Israele davvero un’opzione fattibile al momento? Questo si chiede Susan Hattis Rolef sul Jerusalem Post. L’opinione della commetantrice politica è che: «A meno che uno dei soggetti all’interno dell’attuale coalizione di destra di Netanyahu non decida di abbandonare il governo, l’evenienza di un prossimo voto alla Knesset, per indire le elezioni anticipate, sembra estremamente bassa. Implicito, tuttavia, che Netanyahu riesca a risolvere il nodo della legge sulla leva obbligatoria degli haredim (religiosi ebrei ortodossi ndr), in discussione parlamentare, senza apportare nessun cambiamento sostanziale al vigente status quo. E che [Netanyahu] sappia tenere fuori dal gabinetto di guerra il leader di Otzma Yehudit Itamar Ben-Gvir. Evitando di innescare la crisi dell’esecutivo. Inoltre, dal momento che il ministro senza portafoglio Gideon Sa’ar e il suo partito, New Hope (a cui aderiscono quattro parlamentari), hanno deciso di staccarsi dalla lista di Unità Nazionale guidata da Benny Gantz, abbiamo sulla carta una potenziale maggioranza di destra, che potrebbe attestarsi a quota 68 seggi. Ne consegue che, in pratica, l’attuale governo potrebbe durare fino alla fine dell’ottobre 2026… Nel frattempo però ci saranno le elezioni presidenziali americane, che potrebbero effettivamente rimescolare le carte in tavola».

Se la variante interna per Netanyahu sono i giudici del tribunale di Gerusalemme e la futura commissione d’inchiesta sulle responsabilità del 7 ottobre. Quella esterna è rappresentata dai frontali di Biden (“Adesso più aiuti”) e Borrell (“Israele usa la fame come arma di guerra”). Washington e Bruxelles hanno voluto rimarcare un chiaro avvertimento: A tutto c’è un limite. Non siamo disposti a sopportare che le politiche israeliane siano materia tanto della campagna elettorale in Europa quanto di quella statunitense. Il succo del messaggio: Bibi torna nel seminato, e soprattutto fermati. Il problema è che il falco della destra sa benissimo che nel suo caso chi si ferma è perduto. E per sopravvivere deve lottare con ogni mezzo. Giocando di propaganda per recuperare lo svantaggio dell’impopolarità. Consapevole che se arbitro non fischia, la partita, e la carriera, non è finita.

A suo favore come scrive sempre Hattis Rolef ha il fattore campo, che poi sarebbe l’assetto Knesset. Tre sono le novità nel panorama politico israeliano che potrebbero avere degli effetti, sia nel breve che nel lungo periodo.

Come era immaginabile, la notizia della separazione tra Sa’ar e Gantz ha suscitato clamore mediatico. Le ragioni del divorzio sono ben spiegate dalla richiesta, o pretesa, di avere un seggio nel gabinetto di guerra. Ovvero, entrare a far parte dell’unico organo che comanda “realmente” in Israele. Sa’ar, dopo una lunga militanza al fianco di Netanyahu nel 2020 era uscito dal Likud, spostandosi sotto l’ala protettiva di Gantz. Il ritorno alle origini, una mossa nemmeno troppo inaspettata dopo le aperte critiche a Gadi Eisenkot, è l’ennesima trovata del “collaudatore” della destra post Sharon. Quella che ha elevato Bibi Netanyahu a signore indiscusso di Israele. Nel clima attuale mollare i centristi e tornare su posizioni più marcatamente nazionaliste è un elemento per certi versi dirompente. Non a caso Sa’ar ha ribattezzato il suo partito Hayamin Hamamlachti. Tradotto: “La destra dello statista”. La strategia dell’ex dirigente del Likud sembrerebbe indirizzata a creare le condizioni per un riavvicinamento a Bibi, ma potrebbe essere anche un’abile mossa per portare allo scoperto eventuali ammutinati del suo ex partito, e spianare la strada a Gantz.

La seconda domanda è che cosa fa la sinistra sionista? Aspetta di liquefarsi completamente o cerca una soluzione per non farsi prosciugare dai movimenti centristi? Il tentativo di federare Avodà e Meretz in un unico partito è una necessità. Vitale in un sistema elettorale proporzionale con sbarramento al 3,25%. Ma non essendoci prospettiva di voto imminente qualcuno potrebbe decidere di tirarsi indietro. E arroccarsi nel proprio piccolo orticello. Il ruolo di salvatore della sinistra si addice perfettamente all’ex generale Yair Golan, militante del Meretz. Che intanto in questa missione ha arruolato due importanti quadri del partito laburista, Naama Lazimi e Gilad Kariv. La vera impresa è riuscire ad alimentare la tremula scintilla del consenso, dimostrare che l’anti-Bibismo non è solo un vuoto slogan e che la tribù della sinistra esiste ancora.

Infine, le tensioni nel governo tra il ministro della Difesa Yoav Gallant (Likud) e quello delle Finanze Bezalel Smotrich (Partito sionista religioso) hanno toccato un nuovo apice. Smotrich leader dell’estrema destra da settimane ha alzato il tiro degli attacchi all’indirizzo dei vertici dell’esercito e dei servizi segreti: “l’IDF e il suo capo hanno fallito non solo tatticamente e operativamente, ma concettualmente”. Fuoco a delegittimare non gradito da Gallant: “State danneggiando Israele e minando il sistema di difesa solo per ragioni politiche. Questo è male, specialmente durante la guerra… Non permetterò a nessuno di trasformare l’esercito in una milizia al servizio di questo o quell’attore”. Chi si tiene fuori dalle discussioni “di condominio” è ovviamente il padrone di casa, Benjamin Netanyahu.