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INTERVISTA AD ANTONIO ALOI

Il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq è un evento storico senza precedenti, cosa ha voluto dire per una comunità tra le più martoriate?

“Per la minoranza cristiana non solo dell’Iraq ma di tutto il Medio Oriente la visita del Papa è sicuramente un fatto di grande rilevanza. Da anni questo viaggio apostolico era atteso, già si lavorava per questo evento nel 2014 quando ero a Duhok nel Kurdistan occidentale, ma lo “scompiglio” creato dall’ISIS prima e dalla pandemia da COVID19 poi hanno rallentato il processo.

Oserei dire però che la rilevanza è solo per i cristiani, dubito che al di là della cortese ospitalità, qualche cosa muti nella mentalità mussulmana. Noi cristiani, finalmente o per fortuna abbiamo smesso di difendere o propagandare la nostra Dottrina a fil di spada (gli interessi “occidentali” non hanno più bisogno di mascherarsi dietro un crocifisso) dubito sia così per la mentalità mussulmana. Mi spiego: ho vissuto a lungo in Medio Oriente ed ho visitato, per lavoro, tutto il mosaico dei Paesi che lo compongono, e come sempre ed ovunque, la maggioranza delle persone è pacifica ed accogliente, ma le ferite inferte dallo strapotere militare e coloniale prima e dalla mentalità agnostica ed affarista ora, continuano ad alimentare una totale diffidenza verso il nostro mondo. Questa diffidenza è ben sfruttata da chi, per i propri affari, è interessato ad alimentare divisioni e conflitti. Questa situazione crea un blocco, un nodo molto difficile da dipanare! Per cui questo tentativo di “pulizia” etnica e culturale, iniziato anni fa violentemente in Libano, proseguito in Jugoslavia e via via in Medio Oriente temo proprio non sia ancora finito.

Ricordo, tanto per dare un’idea, un episodio che mi raccontò molto tempo fa Sua Eccellenza Fuad allora vescovo a Tunisi e poi Patriarca a Gerusalemme. Lui da piccolo viveva con la sua famiglia in un villaggio della Giordania, cristiani, mussulmani, ebrei condividevano la stessa vita, gli stessi giochi, l’unica evidente differenza di quella popolazione unita e pacifica era il giorno in cui si recava a pregare; fino a quando il Governo giordano dichiarò la religione cristiana una religione protetta. Quel giorno cominciò la discriminazione…

Ritornando, dunque, alla domanda: i patimenti della minoranza cristiana in M.O. volgono al termine? Direi di no! Una cosa è certa però da credente so che alla base c’è un disegno buono della Provvidenza che sa volgere al bene anche il male non voluto. Questa certezza o meglio speranza genera nel popolo cristiano un perfuso senso d’ottimismo che rimane insieme alla Fede la struttura portante della sua resilienza (tanto per usare una parola che va di moda)”.

Anche dal punto di vista della stabilità politica nella regione il dialogo interreligioso promosso dal pontefice rappresenta un aspetto non di poco conto, l’incontro con l’ayatollah al-Sistani può servire a cambiare qualcosa?

“Al di là delle visite un po’ folkloristiche di tutti i Rappresentanti delle religioni del mondo che si sono svolte ad Assisi, direi che fino a quando rappresentanti dell’Islam non contraccambieranno in Vaticano le visite papali, recando effettive novità al rapporto interreligioso, temo che queste visite apostoliche servano quasi esclusivamente alle comunità cristiane. Temo infatti che, al di là della cortesia ed ospitalità offerta, la mentalità mussulmana interpreti queste visite come un tributo, un omaggio a sé dovuto o poco più. La cultura del perdono è un patrimonio cristiano, oserei dire cattolico, questa virtù, veramente difficile, alberga poco tra le altre religioni specialmente se dovesse essere esercitata verso “estranei”.

L’altro risultato cercato è un’autentica crociata, l’affermazione dell’esistenza di un Dio! Ciò certo accomuna i capi religiosi contro il dilagante agnosticismo, ma sappiamo quanto gestione politica e religione siano una cosa sola per l’Islam e quanto tutto ciò non esista più nel mondo occidentale”.

L’ascesa che pareva irrefrenabile del Califfato è un incubo passato, ma a quale prezzo?

“Il Califfato dell’Isis ha spadroneggiato dove e fino a quando ha fatto comodo a chi veramente muove i pezzi sulla scacchiera degli inconfessati interessi mondiali, quando non è servito più è stato spazzato via, e questo si sapeva fin dall’inizio, con la buona pace delle innumerevoli vittime innocenti.

Fatta questa premessa, si apre un capitolo a parte sui Curdi. Sono stati gli unici capaci di difendere ed osteggiare l’apparente strapotere Isis in Iraq, per difendere la propria entità etnica. Duhok è a 45 Km da Mossul, dei tre governatorati curdi è quello che ha sostenuto il confronto più ravvicinato con l’Isis, praticamente vivevamo nelle retrovie di uno scontro quotidiano tra i Peshmerga e le bandiere nere dell’Isis, eppure la vita in quella città ha continuato a svolgersi come prima, la compattezza della popolazione non ha permesso nessuna infiltrazione, nessun attentato. Per l’ennesima volta il popolo Curdo è stato ingannato dall’Occidente e così per vari interessi e convenienze le promesse fatte, una volta spazzato via l’Isis, sono state disattese. Un popolo di 45 milioni di persone diviso tra quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, continua a vivere, bistrattato e non riconosciuto. Tutto ciò aprirebbe un discorso a parte, ma come accennavo poc’anzi, anche le profonde divisioni interne, una volta scampato il pericolo Isis, hanno minato le legittime aspettative curde”.

Come si è mossa la cooperazione italiana in questi difficili anni?

“La Cooperazione italiana, è presente in Iraq dalle guerre del Golfo, prima per sostenere le popolazioni provate dal conflitto e per aiutare la ricostruzione del paese, successivamente, a Nord nel Kurdistan, per contribuire all’organizzazione della concessa autonomia (prima della guerra con l’Isis) ai tre Governatorati Erbil, Sulaymaniyah e Duhok. Personalmente ho prestato servizio nel lasso di tempo prima e durante il conflitto con l’Isis. Il nostro lavoro è consistito nel supporto alla Sanità del Governatorato di Duhok. In una prima fase offrendo il know how alla riorganizzazione e modernizzazione del servizio sanitario, quando i dividendi del mercato del petrolio parevano offrire al Kurdistan la necessaria disponibilità finanziaria, poi, svanita questa risorsa, a sostenere con personale e mezzi il servizio sanitario e l’assistenza ai numerosissimi profughi siriani ed iracheni. Il Governatorato di Duhok non ha lesinato aiuti ai profughi inserendoli gratuitamente nell’assistenza del proprio servizio sanitario, e permettendo, a differenza degli altri governatorati, la libera circolazione dei profughi nel proprio territorio. Appena fuori dalla città di 250.000 abitanti c’era un campo profughi di 80.000 persone…”

* Antonio Aloi. Medico chirurgo. Già direttore UTL di Gerusalemme e della sede di Kampala. Ha svolto incarichi di prestigio quale delegato presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, referente all’UNAIDS e presso l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA. In Iraq è stato rappresentante per l’AISPO.

IL SULTANO, DALLA MOSCHEA DI SANTA SOFIA AL SOGNO DI AL QUDS

In Turchia la rivoluzione islamizzante di Erdogan oscura l’immagine del padre fondatore della Repubblica, il laico Ataturk. La riconversione di uno dei monumenti più famosi del Paese in moschea è l’atto culminante di una campagna di propaganda iniziata ormai una decade fa. Con questa mossa il presidente turco travolge i simboli della cristianità e guarda con aspirazione ad imporre la propria guida, spirituale e politica, sull’intero mondo arabo: “sulle orme della volontà dei musulmani di uscire dall’interregno”.

Lo splendido edificio di Santa Sofia che campeggia sulle acque del Bosforo ha avuto due vite e mezzo: è stata basilica cristiana, moschea islamica e, a questo punto, transitoriamente museo nazionale. Realizzata da Giustiniano, lì furono incoronati gli imperatori cristiani di Bisanzio. Fino al sopraggiungere dell’ottomano Mehmet II, che riuscì in un’impresa fallita per secoli agli eserciti della mezza luna: far breccia nelle possenti mura a difesa di Costantinopoli. Il 28 maggio 1453 a poche ore dall’assalto finale dei giannizzeri in quella mastodontica chiesa, cattolici e ortodossi, mettendo da parte le contrapposizioni scismatiche, celebrarono insieme messa. Il 29 maggio il sultano Mehmet, il Conquistatore, avrebbe compiuto un gesto pieno di significato, entrato trionfante nella Basilica rivolse la preghiera verso la Mecca, prendendo formalmente possesso dell’edificio, proclamandola moschea. A differenza di molte altre chiese che non cambiarono culto, il senso di quell’operazione aveva indubbiamente un valore geopolitico forte, che infatti costernò l’Europa. La fine dell’impero romano d’Oriente era oramai ineluttabile: il lento declino iniziato due secoli prima mostrava segni di desolazione e degrado diffusi. Il “centro dei quattro angoli del mondo” aveva perso il suo antico splendore, al suo posto sarebbe nata la moderna Istanbul, capitale della Sublime Porta. Chiudendo un altro capitolo della storia del Mediterraneo, quello della millenaria civiltà greca: passata dal periodo classico a quello ellenico ed infine bizantino. L’ambizione di Mehmet, al di sopra tutto, portò alla caduta di Costantinopoli, ridisegnando i confini dell’Europa, allora come oggi divisa da faide e rivalità. Su questa figura la storiografia si divide, c’è chi lo ritiene un sovrano saggio e lungimirante, e chi come Benny Morris evidenzia, con recenti studi, come l’Impero Ottomano abbia avuto nello sterminio dei cristiani una delle sue caratterizzazioni ideologiche. Erdogan non nasconde ammirazione per questo personaggio, citandolo spesso nei suoi discorsi. Copiandone, ed esaltandone, non solo i valori islamici delle origini ma anche l’aspetto antieuropeista. A cui aggiunge le modalità del ricatto diplomatico, vuoi sulla questione dei migranti, vuoi delle politiche di decristianizzazione del Medioriente e, purtroppo, di una nuova guerra “santa” per Gerusalemme: “La risurrezione di Hagia Sophia è preludio alla liberazione della moschea al-Aqsa”.

IL SUMMIT DI BARI

Bari ha accolto l’Oriente cristiano nel nome della pace. Il luogo scelto da papa Bergoglio per riunificare la cristianità, divisa da secoli di odi atavici, scismi e infinite incomprensioni, è il reliquiario di San Nicola tra le mura della Basilica. Francesco riceve i patriarchi delle chiese cattoliche e ortodosse sostanzialmente per definire una strategia comune in difesa delle popolazioni del martoriato Medioriente. In una regione con 258milioni di abitanti, condizionata da violenza e instabilità, i cristiani rappresentano, secondo le ultime statistiche, una minoranza anche se con profonde radici: sono oltre 14,5 milioni. Netto calo rispetto allo scorso secolo, fa eccezione solo la Turchia di Erdogan che registra un leggero incremento della popolazione seguace della croce di Cristo. Numeri più che dimezzati invece in Siria, Iraq ed Egitto. In quest’ultimo Paese tuttavia è presente la più grande comunità dell’area con quasi 10milioni di fedeli (10%).
In Giordania sono 350mila e 30mila sono giunti dal vicino Iraq in questi anni. Mentre nel Libano dei cedri, un tempo dei maroniti e oggi dei minareti di Hezbollah, sono scesi al 40%. Percentuali poco sopra al 2% in Israele (nel 1948 erano il 20%) e Palestina. A Gaza, nel regno del fondamentalismo di Hamas, sono oramai uno sparuto gruppo che “resiste” con tenacia alle avversità: 1300 su 2milioni di abitanti.
Nella Città Santa di Gerusalemme contano circa 16mila residenti su un totale tra le due parti, Est e Ovest, di circa 870mila cittadini. Contesti complicati da intrigate guerre per l’ultimo baluardo di una tradizione secolare del variegato mondo arabo, dove la loro presenza, nella culla del cristianesimo, potrà essere garantita con la convergenza delle “famiglie” che la compongono. Garantire un futuro a questa minoranza di fedeli è l’assioma del pensiero del Pontefice.
Il cammino del Vescovo di Roma per arrivare a ricostruire un’unità è iniziato nel 2014, un anno dopo la sua elezione al soglio pontificio. Quando a Gerusalemme assieme al Patriarca di Costantinopoli ha varcato la porta del sancta sanctorum della cristianità. Arrivarono all’ingresso del Santo Sepolcro da due porte diverse, poi l’abbraccio tra Bartolomeo e il successore di Pietro, il cammino, sorreggendosi a vicenda, segnava con gesti fraterni un rapporto irreversibile tra le due chiese. Ad attendere i venerabili Padri a pochi passi dall’Edicola, cuore del complesso religioso conteso, il patriarca ortodosso di Gerusalemme Teofilo III.
Nel 2016 nell’antico monastero di Khor Virap per il papa venuto dall’Argentina c’è la stretta di mano con il patriarca armeno Karekin II. Lo stesso anno a Cuba nell’aeroporto dell’Avana incontra il Patriarca di Mosca Kirill, sotto gli occhi del comunista Raul Castro e con gli auspici dello zar Putin. Nel 2017, al Cairo, il Vescovo di Roma e il “Vescovo” di Alessandria, il Patriarca copto ortodosso Tawadros II, sono uno difronte all’altro e gli sguardi dei due “Papi buoni” segnano l’ennesimo evento storico. In un momento particolarmente difficile per la comunità cristiana oggetto di una terribile ondata terroristica di matrice jihadista.
Papa Francesco ha indirizzato il suo apostolato su due piani: la tradizione spirituale della morale francescana e la liturgia della preghiera come spazio di azione “politico e diplomatico”. Optando per un approccio pastorale incentrato sull’umiltà e la simpatia. È l’artefice di comportamenti e uno stile semplice che ha scosso la chiesa. A Bari non ha messo in atto la chiamata ad una nuova crociata in Terra Santa ma l’estremo tentativo di salvare un Medioriente di nuovi martiri.
Un segnale d’incoraggiamento ai cristiani della regione e allo stesso tempo una richiesta di appoggio incondizionato e repentino alla Comunità internazionale. Non è un caso che il Pontefice più amato, vox populi, abbia scelto come “consigliere” l’amministratore apostolico del patriarcato Latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, frate e biblista già Custode di Terra Santa che ha lavorato per mesi all’incontro in Puglia ricucendo e tessendo le fila della visione bergogliana.

THE DONALD MEET FRANCESCO

A Roma il chiomato presidente non trova lo sfarzo abbagliante, le tende d’orate e i fiumi di petroldollari degli sceicchi, non cammina nella storia lungo la stretta via Dolorosa, tra le colonne del Santo Sepolcro o nelle stanze buie e dolorose dello Yad Vashem, avanza nei corridoi affrescati delle stanze pontificie alla volta di un incontro pesante. Prima di entrare bussa. Attende e poi stende la mano al Santo Padre. Insieme l’archetipo politico del populismo, rozzo e impulsivo, e il Vescovo di Roma, la guida spirituale illuminata, riflessiva e inclusiva. Gli opposti, l’uomo dei muri e quello dei ponti, in un faccia a faccia apparentemente disteso, “cordiale”. Un colloquio in forma privata, a porte chiuse.

L’udienza papale è l’ultima fatica della tournée di Donald Trump nel simbolismo delle fedi monoteistiche, l’unica dove non ha ricevuto adulazione e applausi, la sola dove gli affari fanno un passo indietro e il giudizio alla politica è morale. Il profeta dei tweet è stato accolto con gli onori in mezzo Medioriente, interpretando il ruolo, per lui inusuale, dello statista politicamente corretto: parole limate e pesate, rinnegando gli slogan della campagna elettorale e presentandosi come il condottiero della pace. Nei suoi interventi ha potuto sbeffeggiare la politica obamiana e ha ripetutamente invocato la “santa” alleanza contro il diavolo iraniano. Ricordando vagamente la lezione del suo predecessore Bush junior alla vigilia della crociata contro l’Iraq di Saddam Hussein. Ha stretto la mano a sunniti ed ebrei, dittatori e aspiranti rais. La “recitazione” è tuttavia apparsa in molte sue parti ricca di retorica e poco convincente, l’uomo più potente al mondo risulta non sempre credibile.

In Terra Santa, all’ombra dei muri, vecchi e nuovi, di pietra bianca e di cemento armato, di preghiera o di separazione ha rassicurato, con incoerenza, sia il movimento dei coloni israeliani che il presidente palestinese Abu Mazen. Molte affinità con Netanyahu per cambiare, a parole, il corso della storia. Il “miracoloso” piano pacifista del presidente è una road map troppo vaga e lontana dalla realtà dello scenario, smielato lo slogan: “Occasione rara per la pace”. Le idee trumpiane, anche se addolcite da allettanti promesse, non sono manna ma traballanti invenzioni sotto il cielo di Gerusalemme. Una città contesa tra ebraismo, islam e cristianità, con i palestinesi che continuano a pensare di giocare la carta demografica e gli israeliani che premono per la penetrazione fisica. Antipodi di una bussola ormai smarrita.

Ad oggi non c’è nell’aria, o sul tavolo, una soluzione per liberare la Gerusalemme terrena dalla violenza, la fine del conflitto israelopalestinese è rimandata ad altri leader, ad un mondo diverso e più consapevole dell’importanza primaria del bene comune e della necessità del rifiuto del terrorismo. Ci vorranno generazioni e politici di ben altro livello, gli orologi di israeliani e palestinesi scandiscono ore diverse. Da una parte l’insofferenza alimenta il fondamentalismo, dall’altra le paure coltivano il nazionalismo.

Trump ha provato a vendere un fantasioso sogno a cui non crede più nessuno, primi fra tutti i suoi diretti interlocutori. Avrebbe voluto una trattativa in discesa, convinto che il suo appeal sarebbe stato sufficiente per dissipare le difficoltà nel siglare “l’accordo definitivo”. Alla fine si è accontentato di prospettare una fragile tregua, tutta da costruire. Ha perso un’occasione, ha fatto un buco nell’acqua. Nel complesso comunque il viaggio di Trump è stato denso ed è trascorso senza affanni, i patemi d’animo li hanno invece avuti i suoi più stretti collaboratori, che hanno marcato stretto il loro presidente per evitare qualche stravaganza fuori luogo. Anche nelle stanze del Palazzo Apostolico il rituale del protocollo è stato seguito rigidamente. Trump ha mostrato un atteggiamento rispettoso, reverenziale nei confronti di Francesco. Dopo le passate aperte tensioni, per la prima volta, si sono guardati negli occhi. Il Santo Padre dal cuore ispanico e il presidente yankee, il teologo dell’accoglienza e il predicatore populista. Un convinto ambientalista e uno scettico ecologista.

Per quanto sappiamo, non ci sono indiscrezioni ma un succinto comunicato della sala stampa che conferma buone relazioni bilaterali, papa Bergoglio e Trump hanno avuto uno scambio di vedute da orizzonti diversi, Santa Marta e la Casa Bianca non si sono avvicinate ma nemmeno allontanate. Sembrerebbe un miracolo, ma attendiamo il prossimo tweet presidenziale per confermarlo.

LA DOTTRINA DELLA SOLIDARIETA’

Il caos del Medioriente, le catastrofi climatiche, fame e siccità, il terrorismo, i conflitti, una nuova guerra fredda, la proliferazione nucleare di nuove potenze invocano un cambiamento radicale d’indirizzo. New York e Assisi hanno ospitato due eventi concomitanti che hanno ruotato intorno ai veri problemi di questo secolo, migrazione e povertà: 800 milioni di persone vivono in condizione di estrema povertà e oltre 65 milioni sono attualmente in fuga. Nella Grande Mela, dopo gli attentati della scorsa settimana, un blindatissimo summit per l’annuale settimana di apertura dell’Assemblea generale dell’ONU. Al centro dei lavori i diritti violati per milioni di persone. Il divario tra i fondi disponibili e quanto servirebbe realmente in aiuti è abissale. Il primo passo dell’Assemblea è stata l’adozione, non vincolante, della Dichiarazione di New York. Il documento, seppur generico e particolarmente osteggiato da molti stati membri, contiene principi e impegni (economici e numerici) che determinano l’ossatura per impostare non subito ma nei prossimi mesi, forse anni, un piano che affronti concretamente gli effetti della crisi migratoria del pianeta. La prospettiva è giungere entro il 2018 ad un Global Compact. Assistiamo alla peggiore crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale e la comunità internazionale è ottusamente inerme. A condizionare la conferenza di Bratislava prima e poi la maratona diplomatica di New York sono stati molteplici fattori: scadenze elettorali in successione, l’insorgere di demenziali populismi e le farraginose sfaccettature delle geopolitiche che governano i sistemi e le relazioni internazionali. A richiamare l’attenzione della platea dei potenti ci ha provato Barack Obama: «Dobbiamo correggere la globalizzazione, ma no ai nazionalismi e ai populismi. Un Paese circondato dai muri imprigionerebbe sè stesso. Dobbiamo sposare la tolleranza che risulta dal rispetto per tutti gli esseri umani». È un “testamento” politico l’ultimo discorso del presidente afroamericano sulle sfide della globalizzazione: «Bisogna lottare contro le disuguaglianze e colmare il divario tra i più agiati e i meno abbienti. Il mondo oggi si trova davanti a una scelta: o andare avanti o tornare indietro. E noi dobbiamo andare avanti», con urgenza. Mentre Obama rilanciava la sua dottrina il pontefice gli faceva eco partecipando alla chiusura della tradizionale Giornata Mondiale di Preghiera ad Assisi: «Se noi oggi chiudiamo l’orecchio al grido di questa gente che soffre sotto le bombe, che soffre lo sfruttamento dei trafficanti di armi, può darsi che quando toccherà a noi non otterremo risposte». Il tema del convegno interreligioso voluto nel 1986 da Giovanni Paolo II è stato la “Sete di pace”: «La sete, ancor più della fame, è il bisogno estremo dell’essere umano, ma ne rappresenta anche l’estrema miseria». Nella breve meditazione Papa Francesco ha poi aggiunto: «Implorano pace le vittime delle guerre, che inquinano i popoli di odio e la Terra di armi; implorano pace i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto la minaccia dei bombardamenti o sono costretti a lasciare casa e a migrare verso l’ignoto, spogliati di ogni cosa». Le spiegazioni razziste verso chi è in fuga sono sbagliate e ingannevoli, allontano dal bene comune più prezioso, la solidarietà.

RESPONSABILITA’ O UMILIAZIONE?

“No all’indifferenza” non si stanca di ripetere Papa Francesco ai fedeli. Questa volta però le parole d’accusa pronunciate dal pontefice durante la Messa nella domenica delle Palme hanno come destinatari le istituzioni europee: “ penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Parole pronunciate a braccio che segnano uno scollamento tra la Santa Sede e l’Ue. Piazza San Pietro non è le stanze di Bruxelles e sul sagrato non si plaude al nuovo piano sui migranti, al contrario la Chiesa di Roma alza la voce, la protesta. Ci aveva già pensato il segretario di stato cardinale Parolin, visitando un campo profughi in Macedonia, a tuonare contro l’accordo Europa-Turchia: “dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto”.

Ragioni e implicazioni invitavano a valutare attentamente le richieste turche. Alla fine tra i 28 leaders europei ha prevalso la linea di Berlino anche sull’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Pesanti critiche sono state espresse, in queste ore, da parte di molte Ong che invocano a gran voce maggiore solidarietà e rispetto dei diritti umani: ad alimentare il dibattito l’opzione stilisticamente “burocratica” di Bruxelles del baratto “uno per uno” e un piano che realisticamente deve essere messo alla prova. Così come l’affidabilità e la maturità della Turchia di Erdogan. Intanto dalla Grecia arriva la notizia di altri sbarchi e soprattutto che Atene non è assolutamente pronta a rinviare in Turchia i migranti. Partenza con il piede sbagliato che evidenzia, ad ora, l’impossibilità europea ad offrire una soluzione umanitaria all’emergenza.

In cinque anni di guerra civile la Siria ha originato una massa di rifugiati impressionante, oltre quattro milioni sparsi lungo tutto i confini dei paesi del Mediterraneo. Un flusso continuo che si è riversato, in gran parte, negli stati confinanti: Turchia, Libano e Giordania. Circa il 4% dei rifugiati siriani invece ha intrapreso il viaggio verso l’Europa. Molti sono oggi accampati nelle tendopoli dei campi profughi, il resto ha scelto le periferie delle città del Medioriente, da Amman a Beirut. Dove illegalmente e pagati poco trovano lavoro come bassa manovalanza nel settore manifatturiero, privati di assistenza e senza l’aiuto internazionale. Marginalizzati e sfruttati. In contesti socio-abitativi insostenibili. La richiesta più volte espressa dall’ONU di fare il possibile per integrare i rifugiati nella società turca, libanese e giordana non ha ottenuto esito favorevole. Respinta da parte dei tre governi che hanno obiettato forti resistenze, esprimendo un giudizio caustico: i rifugiati sono un elemento di pericolosità per essere assorbiti, in contesti particolarmente fragili alle turbolenze etniche. Secondo le ultime stime sono 60 milioni nel mondo gli sfollati, uno su sei è siriano. Tra loro una larga presenza di giovani, istruiti e con specifiche competenze tecniche, una generazione intera. Non una minaccia alla sicurezza internazionale ma un nuovo potenziale mercato del lavoro in grado di generare opportunità e positive ricadute economiche, come accadde per i migranti europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per l’Unione Europea la crisi di Damasco è un bruciante fallimento su tutti i fronti, dalla gestione dei rifugiati alla stabilizzazione della regione. Il volume di persone che il persistere ancora per anni della crisi siriana potenzialmente potrebbe “sparpagliare” fuori dai suoi confini, indirizzandoli verso il Vecchio Continente, è considerevole. Il “panico e la paura” di veder arrivare una marea umana hanno convinto gli stati europei ad approvare il pacchetto di misure fortemente voluto da Erdogan, nell’ottica che la Turchia possa tamponare l’esodo dei migranti. Peccato che potrebbe, invece, continuare a bombardare i curdi.