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BIBI E L’EREDITA’ DEL LIKUD

Chutzpàh è una parola ebraica che racchiude in sé diversi concetti, non solo negativi, ma che viene spesso riferita ad un atteggiamento sfrontato, impudente. È un termine yiddish entrato a far parte del linguaggio comune. La prima menzione nelle fonti classiche ebraiche si trova nella Mishna, in Masechet Sota 9:15. La frase è: “Nel periodo messianico la chutzpàh prevarrà”. L’altro significato è quello della regalità senza corona. Infine, l’esempio più colorito, quello dell’uomo che uccide i propri genitori e al giudice chiede clemenza, perchè orfano.
Se si passa alla politica di apostrofati chutzpàh ce ne sono tanti, ma a uno più di tutti calza a pennello, Benjamin Netanyahu. Bibi inequivocabilmente è, per la stampa, per i detrattori e gli avversari, per i fan o gli amici, il re dei chutzpàh. Grazie a questa naturale dote di sfacciataggine è stato capace di restare al centro del dibattito degli ultimi trent’anni della storia di Israele. Ha saputo rialzarsi da sconfitte brucianti. Ha ribaltato la società israeliana dalle fondamenta e modellato il Likud, il suo partito, a propria immagine. Ha traghettato la destra verso nuovi mari, per approdare infine al lato oscuro del nazionalismo populista, con la formazione del governo più a destra di sempre. Elevando al rango di ministri impresentabili razzisti.
na cosa che non ha mai fatto e forse minimamente pensato è indicare il suo successore. Poco probabile che passi il testimone al figlio Yair, a cui manca il quid. Vantava delle pretese dinastiche Benny Begin, figlio dello storico leader Menachem, che invece si è fermato al palo. Ehud Olmert c’era riuscito ma è scivolato penalmente su una buccia di banana, eliminandosi da solo dalla corsa. È stata ad un passo dall’accantonarlo in soffitta Tzipi Livni, ma con una “magia” politica Netanyahu si è liberato di lei. In ordine sparso si sono rivoltati contro di lui interi apparati del partito e stretti consiglieri: Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zvi Hauser, Zeev Elkin, Moshe Ya’alon, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Quest’ultimo ha fatto tremare il sogno di onnipotenza di Bibi, l’illusione è durata poco e il governo Bennett-Lapid è evaporato al vento. E così ancora una volta è tornato alla guida del paese.
L’ultimo capitolo della saga di Netanyahu, tuttavia, ha palesato criticità di fondo e responsabilità. La partecipata protesta della piazza del movimento pro-democrazia, iniziata a gennaio pochi giorni dopo il suo insediamento a Balfour street, e gli eventi tragici del 7 ottobre, hanno evidenziato un leader non all’altezza della situazione. Incapace di ascoltare il dissenso di massa che montava giorno dopo giorno. Tardivo nell’assicurare la sicurezza ai propri cittadini. Troppi errori. Pagati impietosamente nei sondaggi, gradimento crollato ai minimi (28%). Ha perso consenso e soprattutto la fiducia della gente.
Adesso, a chiedere le sue dimissioni c’è una larga fetta di Israele, che va ben oltre i lettori di Haaretz e che è trasversale alla composita società israeliana. Chi ha velleità di cimentarsi alle prossime elezioni politiche, una volta finita la guerra, e aspirare al ruolo di comando è Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore, oggi responsabilmente membro del Gabinetto di guerra, è una concreta alternativa, che non dispiace a Biden. Dai banchi dell’opposizione invece il più accreditato è sicuramente Yair Lapid, anche lui molto stimato dai democratici a Washington. Se invece l’operazione per rimuovere Netanyahu dovesse palesarsi a conflitto in corso, la soluzione più plausibile è che avvenga attraverso un terremoto politico nel Likud. Sia Gantz che Lapid non hanno i numeri nell’attuale Knesset per formare una maggioranza. E senza l’appoggio del Likud anche il sostegno dell’amministrazione statunitense non è sufficiente. Una scelta di continuità con Netanyahu sarebbe Yariv Levin, se non fosse che il suo nome è indissolubilmente legato alla contestata riforma della giustizia e inviso a tanti. Chi ha le spalle larghe abbastanza per reggere il confronto con il padre padrone della destra è Nir Barkat. L’ex sindaco di Gerusalemme è un imprenditore di successo, con elevata disponibilità economica: è il politico più ricco di Israele. Di poche parole, freddo come un iceberg, difficile da interpretare. Già in passato ha alzato la testa, prendendo apertamente le distanze da Netanyahu. In questo esecutivo è ministro di prima fascia, presiede l’Economia. Rispetto ad altri dirigenti del Likud non ha una corrente di riferimento, ed è, se vogliamo, avulso dal controllo della macchina (e delle tessere). Di voti, comunque, ne raccoglie parecchi. È stato tra i primi, e pochi, nel governo a rilasciare interviste dopo il 7 ottobre. Puntando il dito contro l’Iran. A fare di lui un potenziale leader a largo spettro è la lunga esperienza da primo cittadino di Gerusalemme, dove ha saputo governare con tutti: dalla sinistra sionista alla destra religiosa. Se c’è un politico con le credenziali, adatto ad una fase di unità nazionale, sembra proprio essere lui. Prima però deve sfilare la poltrona a Bibi.

5783

Manca oramai poco meno di un mese al voto in Israele, che anticipa qualche giorno le elezioni di midterm statunitensi. Il 1 novembre 2022 sarà la quinta volta che gli israeliani tornano alle urne in meno di 4 anni. Nei recenti sondaggi i due principali blocchi, quello pro e quello anti-Netanyahu, non ottengono la maggioranza qualificata 61 seggi. La coalizione di destra che sostiene il falco del Likud sarebbe comunque leggermente sopra gli avversari.
In generale i sondaggi accreditano il partito di Netanyahu primo nel Paese, con almeno 8 seggi di vantaggio sulla forza Yesh Atid, guidata dallo sfidante e attuale premier ad interim Yair Lapid. Staccati di molte lunghezze le altre compagini che compongono il panorama politico della futura Knesset. Dove entreranno a rinforzare le file dell’uno o dell’altro schieramento: ortodossi religiosi, nazionalisti, centristi, ex-likud ed ex generali, laburisti, sinistra sionista e movimenti arabi. Oh almeno ci sperano.
Gli israeliani, secondo quanto si evince dal canonico sondaggio della vigilia del capodanno ebraico (che ha segnato l’inizio del 5783), si aspettano un anno migliore di quello passato. Con un cauto ottimismo l’opinione pubblica crede che le cose andranno meglio o al massimo non peggioreranno (59% degli intervistati). Il 21% invece è convinto del contrario. Mentre, il 20% attende di vedere i prossimi sviluppi, a partire proprio dall’esito delle incombenti elezioni politiche.
Il prefigurare della perdurante instabilità è avvertita da Ronen Bar, direttore dello Shin Bet (agenzia dell’intelligence per gli affari interni), come un problema preoccupante per le dirette conseguenze sulla sicurezza del Paese. L’immagine di uno stato che dal 2019 non riesce a trovare una quadra, e allo stesso tempo vede crescere esponenzialmente le divisioni, è sintomatica di un malessere esistente, diffuso e condiviso con altri stati occidentali.
Nel caso israeliano tuttavia le ramificazioni della crisi politica potrebbero comportare ricadute a breve termine sul piano regionale, Hezbollah e Iran sono un assillante imprevedibile pericolo alla porta. Ma non l’unico, da mesi i funzionari della sicurezza israeliana infatti continuano a porre la questione dell’implosione in atto nella Cisgiordania. La Muqata di Ramallah replica accusando a sua volta i continui raid militari dell’IDF come elemento delegittimante del proprio ruolo. Sul piano internazionale l’amministrazione Biden non nasconde i propri timori per il rapido deterioramento del contesto.
Palestinesi ed israeliani non hanno alternative che trovare un punto comune d’incontro che vada oltre lo status quo attuale e le pretese ingiustificabili. Il crollo dell’Autorità palestinese può avvenire da un momento all’altro. In queste settimane il premier, in scadenza, Lapid ha rilanciato sul piano diplomatico la soluzione dei due stati, ma anche in questo caso il consenso popolare all’idea è molto basso. A Gerusalemme vale come del resto a Roma il motto omnia cum pretio. E non tutti, di qua e di là dal muro sono disposti a pagarlo per raggiungere la pace.

L’ESTATE DELL’ANTI-BIBI

Qualche ritardo “tecnico” nella procedura di voto e alla fine la Knesset ha approvato il suo scioglimento. Indette le prossime elezioni per il 1 novembre 2022, le quinte in meno di quattro anni. Naftali Bennett, dopo un anno vissuto intensamente da primo ministro, ha passato – in virtù dell’accordo di rotazione – il testimone al ministro degli esteri Yair Lapid. Cinquantottenne, già volto noto della televisione, sottile politico capace di realizzare e tenere in piedi per dodici mesi la maggioranza più impensabile della storia di Israele: destra nazionalista, conservatori, liberali, laburisti, sinistra sionista (ormai effimera) e islamici. In termini pratici un’alleanza che dai pro-coloni di Yamina arrivava fino all’appoggio del partito arabo filo Hamas di Ra’am. Passando tra russofoni, ex generali e associazioni Lgbt+ di casa nel Meretz.
Progetto o miracolo politico, destinato (sospettiamo che lo immaginasse anche lui) prima o poi a inevitabile implosione. Tuttavia, una realtà alternativa alla monarchia di Bibi Netanyahu. Questo, il merito riconosciuto in modo unanime a Lapid. Adesso, più che mai, scoperto anche come talento profetico del campo di centro-sinistra, mondo di per sé nostalgico di una guida carismatica in grado di traghettare il paese fuori dall’era Netanyahu. A fare breccia nei cuori degli elettori, orfani di Rabin, non è stato tanto il suo manifesto ideologico (assai vago) quanto la determinazione nel rendere possibile il sogno del cambiamento. Lapid ha dimostrato di saper rivaleggiare con l’avversario Netanyahu sul terreno a lui più consono: maneggiare, saldare e bilanciare gli assetti del panorama politico israeliano. E così il “piccolo principe” ha scalfito l’invulnerabilità del re, appropriandosi, momentaneamente, del trono di Israele.
Anni fa su Hareetz il giornalista Asher Schechter scrisse di lui: “Il suo successo dice molto su Israele, più che su Lapid stesso. Candidato con zero esperienza politica e nessun tema da approfondire, il suo unico punto di forza è la popolarità, potrebbe diventare uno dei più grandi attori politici da un giorno all’altro. Lapid è l’ultima personificazione di una sfera politica ossessionata dalla celebrità, dove i partiti cercano di reclutare giornalisti, atleti e altri personaggi pubblici con il loro seguito di riflettori”. Ancora più tagliente fu Martin Sherman in un articolo apparso nel Jerusalem Post: “Yair Lapid è l’uomo più pericoloso della politica israeliana di oggi, uno sciocco di bell’aspetto, carismatico, troppo sicuro di sé, un ignorante affabile privo di dignità intellettuale e qualsiasi principio morale, ma con il dono di una lingua d’argento e l’inconfondibile – e in gran parte non mascherata – inclinazione per la demagogia e la dittatura”. Allora, furono numerose e imbarazzanti le gaffe che lo esposero al bersaglio della critica, e della facile ironia. La sua immagine però non si indebolì anzi … fu l’inizio dell’ascesa.
Ufficialmente entra in politica nel 2012, dando vita all’esperienza del movimento Yesh Atid (C’è Futuro). Nel debutto alle elezioni legislative del 2013 ottiene 19 seggi. Diventando il secondo partito della Knesset. Una breve esperienza nel governo Netanyahu e tanta opposizione. Di cui diventa capo di fatto nel 2020. Nell’ultima tornata elettorale, a marzo del 2021, si attesta al 13,9% dei voti, che gli garantiscono 17 parlamentari. Il resto è storia dei giorni nostri.
Per un decennio Lapid ha, tranne la parentesi di coabitazione nella lista elettorale Blu e Bianco con Gantz, gestito in modo personalistico Yesh Atid. L’unica volta che si è palesata la prospettiva di primarie interne nessuno ha osato sfidarlo apertamente. Ideologicamente si definisce di centro, equamente distante sia dalla sinistra che dalla destra. A meno che per destra non si intenda Netanyahu, nel qual caso incarna perfettamente il ruolo di eroe del centro-sinistra.
Lui, figlio dell’élite liberal-sionista di Tel Aviv, affermatosi nel solco delle orme lasciate dal padre “Tommy”, autorevole giornalista ed esponente di spicco del partito Shinui. Rigoroso intellettuale del pensiero laico, dal quale il figlio si è discostato per approdare ad una linea più morbida, che “integra valori dell’ebraismo e della democrazia”.
Come capo della diplomazia israeliana ha ospitato lo storico vertice con Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto. Stretta la collaborazione, e l’amicizia, con il segretario di Stato americano Antony Blinken. Nel conflitto ucraino è schierato al fianco di Kiev, con meno moderazione e tatto rispetto a Bennett. Ora non resta che capire se impronterà la prossima campagna elettorale andando a spolpare la sinistra, rinforzandosi a destra o cercherà di erodere gli opposti rimanendo fermo al centro, sapendo di essere l’unico collante che può tenere insieme tutti, contro l’eterno Bibi Netanyahu.

COLPO A BENNETT DI BIBI

La sera del 17 novembre del 2003 Roma è teatro di una delle più impensabili operazioni diplomatiche del Medioriente contemporaneo. Nelle stanze dell’Hilton Cavalieri viene partorito il piano di disimpegno unilaterale israeliano (Hitnatkut). Fuori tutti da Gaza, settlers e soldati, con i secondi molto più felici dell’idea rispetto ai primi. Artefice, l’allora premier e leader del Likud Ariel Sharon. Il progetto viene esposto a Elliott Abrams, funzionario della Casa Bianca nell’amministrazione Bush jr. In quella circostanza, quasi sicuramente, Sharon aveva già maturato la strategia di manovra nella Knesset, con l’obiettivo di posizionarsi al centro. Tattica che si tramuterà successivamente nella decisione, anche in questo caso dirompente, di uscire dal Likud (dove era esposto agli attacchi della fronda interna guidata dal solito Netanyahu) e creare un suo movimento, Kadima. Partito che risucchierà voti, e volti, dalla destra del Likud e in parte dai laburisti. La linea di Ariel “Arik” Sharon è vincente, la sua creatura ottiene 29 seggi nelle elezioni del 28 marzo 2006. Mentre, Arik però si trova in ospedale a Gerusalemme in coma vegetativo, a prendere il timone di Kadima e dell’esecutivo era intanto giunto Ehud Olmert. Che formerà una coalizione comprendente i laburisti di Avoda, gli ortodossi sefarditi di Shas e il partito dei pensionati Rafi Eitan. In seguito si aggiungerà l’appoggio di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu. Da quello schema di gioco è escluso Bibi Netanyahu, che sceglie di trincerarsi nei banchi dell’opposizione. In attesa di preparare il grande ritorno sulla scena. Avvenuto con arte, ma non con stile, il 31 marzo 2009, data della nascita del Netanyahu bis e inizio del suo lungo regno, che si concluderà ufficialmente il 13 giugno 2021 con il giuramento del governo Bennett-Lapid. Vaso fragile, per due ragioni: numericamente troppo esiguo (nato con un solo seggio di maggioranza alla Knesset) ed ideologicamente eterogeneo (sinistra, arabi, russi, destra nazionale e religiosa e liberali). A saldare anime così distanti politicamente ed incompatibili per natura è solo l’anti-Bibismo. Il collante tiene per quasi 10 mesi. Durante i quali, tra pandemia e guerra in Ucraina, la giovane coppia riesce persino ad incasellare l’approvazione del bilancio. Evitato questo scoglio tutto pare in discesa. E così il duo Bennett-Lapid può dedicarsi con una certa tranquillità a spaziare nella sfera diplomatica, sviluppando piene relazioni con i partner arabi che hanno aderito all’Accordo di Abramo sino a proporsi come mediatore nel conflitto ucraino. Il clima del Medioriente improvvisamente si infiamma, il terrorismo torna nelle strade, la paura aumenta, le tensioni con i palestinesi salgono. C’è allarme. Fatalmente Naftali Bennett si distrae troppo dalla stretta marcatura a Netanyahu. Credendolo forse concentrato nelle vicissitudini giudiziarie che lo riguardano e senza prendere sul serio gli avvisi di pericolo che gli vengono recapitati, commettendo l’errore di lasciare al falco della destra israeliana movimento per erodere pezzi alla risicata maggioranza. L’azione di Netanyahu è martellante da tempo, l’ex premier ci prova prima con Benny Gantz (già rimasto bruciato dalle promesse di Bibi, e quindi molto cauto), alla fine qualche ammiccamento c’è, tuttavia, il “complotto” non si finalizza. Comunque, sono in molti a pensare che il leader di Kahol Lavan può essere il punto debole su cui Netanyahu tenterà di sfondare. La coltellata a Bennett arriva il 6 aprile 2022 alla vigilia della pausa del parlamento, inflitta da chi gli è vicino, la parlamentare di Yamina Idit Silman, che con la sua defezioni produce un terremoto politico. Non è ancora chiaro se la Silman abbia rotto per motivi “religiosi” (non sarebbe stata la prima volta in Israele), dovuti ai dissidi con il ministro della Salute, da cui avrebbe voluto la rassicurazione che durante la Pesach fosse impedito negli ospedali di mangiare cibo chametz. Un’altra ragione alla base della frattura con Bennett potrebbe essere il calcolo politico, il marito della Silman avrebbe chiesto ed ottenuto per la moglie delle sicurezze dal Likud. Oppure, molto semplicemente la decisione è stata motivata dal fatto che non avrebbe retto alla tensione della campagna di critiche di cui era oggetto. Comunque sia andata, è Netanyahu ad averne tratto vantaggio. Raggiungendo nella Knesset la parità tra maggioranza ed opposizione, 60 a 60. “La risposta immediata è che il governo può, almeno per ora, sopravvivere senza una maggioranza, purché non ci siano ulteriori disertori”. Scrive Anshel Pfeffer su Haaretz. Teoricamente anche se zoppicante il governo può andare avanti sino a Marzo 2023, quando ci sarà da votare la legge finanziaria. Se invece la Knesset dovesse optare per lo scioglimento si andrebbe al voto anticipato. E Yair Lapid – secondo le clausole del patto di governo – diventerebbe primo ministro ad interim per il periodo di transizione. Tra i vari incastri possibili c’è persino l’opzione del ritorno di Netanyahu o la formazione di una nuova compagine governativa. Yamina è sempre andata stretta alle ambizioni di Bennett, alla quale non ha mai dedicato troppa attenzione. Con il rischio, appunto, di vedersela sgretolare tra le mani. La lezione di Sharon per battere Netanyahu è che devi anticipare le sue mosse, anche a costo di cambiare la macchina in corsa. Il futuro di Bennett è oggi appeso ad un filo. Per resistere all’assedio lanciato a Balfour street (residenza ancora in ristrutturazione dopo il trasloco della famiglia Netanyahu) deve fare affidamento sulla tenuta degli alleati. Ma per rompere l’accerchiamento non ha scelta che portare la guerra dentro il Likud, in profondità come avrebbe fatto Sharon.

IL MEDIORIENTE E LA CRISI UCRAINA

L’escalation drammatica della guerra in Ucraina ha accelerato il posizionamento della diplomazia internazionale, ridefinendo alleanze e schemi, dentro e fuori i confini dell’Europa. Prendiamo ad esempio il caso del Medioriente, una regione da sempre sollecitata dalla geopolitica. E dove i governi sono chiamati a fare una scelta di campo che non prevede neutralità, tantomeno ambivalenze in stile cerchiobottismo. La domanda che in queste ore ha investito le cancellerie della parte meridionale del Mediterraneo è ovviamente con chi schierarsi, stare con o contro Putin? La Siria, per bocca del dittatore Assad appoggia totalmente il suo protettore nella campagna offensiva in Ucraina, notizia che ovviamente ci aspettavamo. L’interdipendenza di Damasco da Mosca è talmente strutturata da non poter essere messa minimamente in discussione.
A tentennare inizialmente è stato, invece, Israele, quasi colto in contropiede dagli eventi. Nonostante, a Kiev sia presente una delle comunità ebraiche più popolose ed antiche. A Gerusalemme, a pesare durante l’attacco è stato senza ombra di dubbio il legame personale di Putin con molti politici israeliani, alcuni di origine russofona, a partire proprio dal ministro delle Finanze Avigdor Lieberman (caparbio, sino alla scorsa settimana, nel profetizzare che non sarebbe accaduto nulla …). Altro dilemma da dirimere era la consapevolezza che una dura condanna avrebbe potuto creare frizioni sul fronte siriano, dove è ancora presente l’armata di Mosca. E con cui vige un patto di coordinamento sulle attività di sicurezza. Alla fine il governo di Naftali Bennett, pesati i costi, ha optato per la piena condanna. Pubblicamente pronunciata dal ministro degli Esteri Yair Lapid: “L’attacco russo all’Ucraina è una grave violazione dell’ordine internazionale”. Messaggio chiaro ed inequivocabile dell’allineamento a Washington. Seguito a poca distanza da quello della Turchia. Erdogan ha preso nettamente le distanze dall’amico-nemico al Cremlino. La chiusura del Bosforo alle navi da guerra di Putin, è un segnale di aperta ostilità. Anche in questo caso sul tavolo strategie militari e commerciali da misurare con accuratezza ed attenzione. A far pesare la bilancia dal lato di Putin, oltre alla larga sintonia, erano il programma di difesa missilistico, quello per le centrali nucleari, il gasdotto, infrastrutture e molto altro ancora. A favore dell’Ucraina troviamo gli accordi con Kiev per la vendita di materiale militare, dai droni Bayraktar all’installazione di fabbriche turche in suolo ucraino. A cui vanno aggiunti i benefici garantiti da Bruxelles e la partecipazione alla NATO. Nel caso di Erdogan non è dato sapere quanto abbia inciso l’incidente della nave turca, che al largo di Odessa è stata colpita da un ordigno. Comunque, il sultano questa volta, questa partita, ha deciso di giocarla con la maglia dell’Occidente.
Infine, Teheran. L’Iran può rivendicare di essere stato il primo stato al mondo a dissociarsi dalle critiche a Putin, e ad aver accusato del conflitto in Ucraina esplicitamente la NATO. I nemici dell’Occidente sono i soliti noti.

CAMBIARE IN ISRAELE FORSE E’ POSSIBILE

In Israele è ora di cambiamenti, scelto il successore di Reuven Rivlin alla presidenza ed imboccata la strada di un nuovo esecutivo. Grandi manovre in parlamento, alla Knesset. Isaac Herzog, classe 1960, è stato eletto con plebiscito undicesimo capo di stato. In contemporanea, si sono trovate le fatidiche 61 firme per dar vita al primo governo anti-Netanyahu della storia. Operazione che sulla carta ha messo insieme 8 schieramenti, una mappa che copre destra, centro e sinistra. Dai nazionalisti israeliani agli islamici, estremismi inclusi. Un ventaglio con due figure apicali, il liberale Yair Lapid e il nazionalista Naftali Bennett, intenzionate a voler rivoluzionare l’arco politico, mettendo fine all’era Netanyahu. Intanto, non è andata bene a Miriam Peretz, che non è diventata la prima donna presidente. La Peretz, conosciuta come “Mamma Coraggio” (ha perso due figli in guerra), era la portatrice di un messaggio che mescolava patriottismo e solidarietà, punto di forza della sua candidatura. Soprattutto in epoca di pandemia e con il parlamento spostato a destra. A prevalere è stato l’abile Herzog. Discendente di quella che viene considerata la nobile aristocrazia sionista. Appartiene alla dinastia che ha rivestito i massimi vertici istituzionali e religiosi del giovane stato di Israele: il nonno HaLevi è stato primo capo rabbino di rito ashkenazita. Il padre Chaim ambasciatore all’ONU e poi sesto presidente della repubblica. Lo zio Abba Eban ascoltato ministro degli esteri di Golda Meir, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, tempi di guerra e delicata diplomazia. La tradizione politica è scritta a caratteri cubitali nel DNA di Herzog, anche se l’esperienza nelle file del partito laburista non è stata un successo. Alle elezioni del 2015 affronta Bibi Netanyahu. Sconfitto, cade ed è relegato in secondo piano. Nel 2018 la nomina a capo dell’Agenzia ebraica e la risalita. Da allora si tiene prudentemente fuori dalla scena politica dominata da Netanyahu. Preferisce apparire “imparziale”. Caratteristica che gli verrà utile quando i partiti non presentano un proprio candidato di bandiera, lasciando libertà di coscienza. In Israele il presidente della repubblica è una carica di garanzia, con due prerogative non indifferenti. Offre l’incarico del mandato esplorativo nella formazione di governo. E concede la grazia. Potere quest’ultimo che potrebbe tornare comodo all’attuale premier, in caso i suoi problemi con la giustizia dovessero complicarsi. Il tempo a disposizione di Netanyahu comunque stringe. Non gli resterà che un’unica labile chance di sopravvivenza, organizzare un’imboscata tra i banchi del parlamento proprio sul voto di fiducia al nascente esecutivo. Lapid e Bennett, hanno oramai giocato tutte le carte in loro possesso, adesso non hanno altra strategia da mettere in campo che trincerarsi e resistere all’attacco di Netanyahu. Se tutti, proprio tutti, mantengono la parola potrebbe bastare a fermarlo.

HERZOG, IL PRESCELTO

In Israele è ora di cambiamenti, scelto il successore di Reuven Rivlin alla presidenza ed imboccata la strada di un nuovo esecutivo. Grandi manovre in parlamento, alla Knesset. Isaac Herzog, classe 1960, è stato eletto con plebiscito undicesimo capo di stato. In contemporanea, si sono trovate le fatidiche 61 firme per dar vita al primo governo anti-Netanyahu della storia. Operazione che sulla carta ha messo insieme 8 schieramenti, una mappa che copre destra, centro e sinistra. Dai nazionalisti israeliani agli islamici, estremismi inclusi. Un ventaglio con due figure apicali, il liberale Yair Lapid e il nazionalista Naftali Bennett, intenzionate a voler rivoluzionare l’arco politico, mettendo fine all’era Netanyahu. Intanto, non è andata bene a Miriam Peretz, che non è diventata la prima donna presidente. La Peretz, conosciuta come “Mamma Coraggio” (ha perso due figli in guerra), era la portatrice di un messaggio che mescolava patriottismo e solidarietà, punto di forza della sua candidatura. Soprattutto in epoca di pandemia e con il parlamento spostato a destra. A prevalere è stato l’abile Herzog. Discendente di quella che viene considerata la nobile aristocrazia sionista. Appartiene alla dinastia che ha rivestito i massimi vertici istituzionali e religiosi del giovane stato di Israele: il nonno HaLevi è stato primo capo rabbino di rito ashkenazita. Il padre Chaim ambasciatore all’ONU e poi sesto presidente della repubblica. Lo zio Abba Eban ascoltato ministro degli esteri di Golda Meir, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, tempi di guerra e delicata diplomazia. La tradizione politica è scritta a caratteri cubitali nel DNA di Herzog, anche se l’esperienza nelle file del partito laburista non è stata un successo. Alle elezioni del 2015 affronta Bibi Netanyahu. Sconfitto, cade ed è relegato in secondo piano. Nel 2018 la nomina a capo dell’Agenzia ebraica e la risalita. Da allora si tiene prudentemente fuori dalla scena politica dominata da Netanyahu. Preferisce apparire “imparziale”. Caratteristica che gli verrà utile quando i partiti non presentano un proprio candidato di bandiera, lasciando libertà di coscienza. In Israele il presidente della repubblica è una carica di garanzia, con due prerogative non indifferenti. Offre l’incarico del mandato esplorativo nella formazione di governo. E concede la grazia. Potere quest’ultimo che potrebbe tornare comodo all’attuale premier, in caso i suoi problemi con la giustizia dovessero complicarsi. Il tempo a disposizione di Netanyahu comunque stringe. Se riuscirà alla Grande coalizione la sostituzione dello speaker della Knesset, fedelissimo di Bibi, non gli resterà che un’unica labile chance di sopravvivenza, organizzare un’imboscata tra i banchi del parlamento proprio sul voto di fiducia. Lapid e Bennett, hanno oramai giocato tutte le carte in loro possesso, adesso non hanno altra strategia da mettere in campo che trincerarsi e resistere all’attacco di Netanyahu. Se tutti, proprio tutti, mantengono la parola potrebbe bastare a fermarlo.

ISRAELE, STELLA A DESTRA QUESTO E’ IL CAMMINO

Israele curva decisamente a destra. Sono arrivati i risultati finali delle elezioni israeliane, che si sono tenute martedì 23 marzo e che ha visto oltre il 67% degli elettori recarsi a votare in piena pandemia (erano stati il 71% alle precedenti), e nulla è sostanzialmente cambiato.
Il quadro elettorale appare però più chiaro per Benjamin Netanyahu e burrascoso per l’armata Brancaleone degli avversari, dal liberale Yair Lapid alla laburista Merav Michaeli, dal centrista Benny Gantz alla sinistra di Nitzan Horowitz. Disastroso, rispetto al 2020, il risultato delle disunite liste arabe. A differenza delle precedenti elezioni esce dalle urne uno spazio maggiore di movimento per Netanyahu, in una situazione dove per governare serve costruire alleanze e incasellare almeno 61 seggi. Difficilmente il premier in carica però dialogherà ancora con l’ex amico Lieberman o l’ex delfino Sa’ar.
Per il nazionalista Bennett sedersi al tavolo è invece un atto dovuto. Soprattutto dopo che è stato tradito dai sondaggi e ha visto erodere il suo elettorato dall’estrema destra del Religious Zionism party, guidato da Bezalel Smotrich, con il suo movimento omofobo e populista. Il giovane politico, leader di Yamina, si può ovviamente consolare per il fatto che senza di lui nessuno va da nessuna parte. Onnipresente al fianco di Netanyahu è il blocco degli storici partiti religiosi haredim, Shas e UTJ. Aggiungete un paio di parlamentari “responsabili” ed il Netanyahu VI è servito.
Insomma, che il falco della destra sarebbe stato il predestinato a governare a lungo è stato chiaro a molti già nel 2009. C’era stata la parentesi del 1996 quando, archiviato il cordoglio per la perdita di Yitzhak Rabin, il leader del Likud ottenne la cattedra di primo ministro, quella prova si dimostrò costellata di troppi errori e tanta impreparazione. Con il nuovo millennio giunge a completare la maturità politica, sfoggia abilità nel saper fondere anime diverse per dar vita a governi impensabili. In questi anni ha risucchiato il centro-sinistra, si è aggregato ai russofoni, ha consolidato la maggioranza grazie ai religiosi ortodossi. In un crescendo di spasmodica ricerca di alleati ha offerto la mano agli arabi islamici. Per finire strizzando l’occhio all’estrema destra israeliana.
Queste sono le diverse stagioni dell’era Netanyahu. E sotto sotto c’è il sospetto o presentimento che le mire alla presidenza dello Stato (a giugno scade il mandato di Rivlin) siano un’opzione attentamente calcolata, mai scartata completamente. Tuttavia, in questo arco temporale è cresciuto parallelamente nel paese un dissenso diffuso nei suoi confronti.
Ad attenderlo domani tre incognite: la piazza che invoca le sue dimissioni, l’approvazione della legge di bilancio e l’ostacolo dei processi a carico in tribunale. Dove indosserà i panni dell’imputato, e non il costume da supereroe che preferisce, Mr Vaccino. A cui ha legato indissolubilmente la sua immagine, e propaganda, durante la campagna elettorale, non commettendo l’errore di Trump. Un successo indubbio, ripagato nell’urna. Adesso è solo questione di risolvere piccole banalità fra amici o ex amici, una pura formalità viene da pensare. Se così non fosse c’è la quinta elezione alla porta.