Archivi tag: Khaled El Qaisi

CULTURA SBAGLIATA

Nel conflitto israelopalestinese sono dibattute questioni “sociali” che, alimentate dalla politica e dall’ideologia, assumono aspetti culturali eticamente distorti. Uno dei tanti esempi è il Fondo dei Martiri dell’Autorità nazionale palestinese, il programma di sostegno economico ai palestinesi imprigionati, feriti o uccisi da Israele e destinato alle loro famiglie: stimato in 350 milioni di dollari l’anno. Ufficialmente introdotto dal governo di Ramallah nel 2004, in piena Seconda Intifada, questa tipologia di finanziamento era già in uso nei campi profughi del Libano tra i combattenti di Fatah, a partire dagli anni ’70. E poi successivamente riproposto nelle campagne politiche di assistenzialismo gestite da Hamas, nel nome della beneficenza islamica. E proprio su questo banco di prova con gli avversari politici che prima Arafat e dopo i suoi successori hanno deciso di alzare il piatto della bilancia della propaganda.
Con un provvedimento del 2013 il sistema di welfare palestinese garantisce ai prigionieri (attualmente nelle carceri israeliane sono quasi 5mila) l’automatico impiego negli apparati istituzionali al loro rilascio. Inoltre, l’Autorità palestinese stabilisce un sistema “proporzionato” di compenso, dove i prigionieri ricevono maggiori finanziamenti in base alla durata del periodo di detenzione, e quindi parallelamente alla gravità del crimine commesso. Più vittime fai e più soldi ricevi (l’accusa). Dal punto di vista palestinese tale misura viene legittimata, e motivata, nel dare pieno sostegno “alla lotta contro l’occupazione e l’ingiustizia israeliana”. In un contesto dove è noto che l’esercito israeliano effettua arresti arbitrari di palestinesi (non ultimo ed eclatante l’episodio dell’italopalestinese Khaled El Qaisi, da giorni recluso in cella), che sono soggetti alla legge militare israeliana e privati dei diritti garantiti da quella civile di Israele. Il contraltare palestinese è lo schema di sussidi previsto per i terroristi. I quali, pur macchiandosi di crimini contro civili inermi, possono beneficiare dell’assistenza sociale. Questo elemento, non di poco conto, si porta dietro il soprannome dato al programma: “pay-for-slay”. Ovvero, un incentivo, secondo i critici, ad ammazzare gli israeliani.
“Indipendentemente dal suo vero scopo, non è esatto caratterizzare il Fondo dei Martiri esclusivamente come un mezzo per incoraggiare il terrorismo contro Israele. Contrariamente a quanto potrebbe affermare il primo ministro Netanyahu, non tutti i beneficiari degli aiuti del Fondo dei Martiri sono terroristi”. Alex Lederman in un articolo pubblicato da Israel Policy Forum, sottolinea che: “Non tutti i palestinesi nelle carceri israeliane hanno o intendono avere le mani sporche di sangue israeliano”. Restano comunque i gravi errori commessi ripetutamente dall’Autorità palestinese e dal suo presidente. Non dimentichiamo che il budget del cosiddetto Fondo Martiri proviene oltre che dai regimi arabi anche dai poco informati e talvolta distratti contribuenti occidentali.
Sono invece qualche migliaia e molto convinti coloro che hanno donato oltre 1,2 milioni di shekel alla campagna di crowdfunding lanciata per chiedere la liberazione di Amiram Ben Uliel, estremista di destra e colono israeliano giudicato colpevole di aver compiuto nel 2015 un attentato terroristico incendiario nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, costato la vita a tre palestinesi membri della famiglia Dawabsha (madre, padre e figlio di 18 mesi). Recentemente 14 parlamentari della maggioranza di governo, per lo più aderenti ai partiti Likud e Otzma, hanno fatto appello al capo dello Shin Bet Ronen Bar per far allentare le sue condizioni di detenzione all’ergastolo (per diritto di cronaca Ben Uliel si professa innocente e dichiara di aver confessato sotto tortura). In occasione delle festività di Rosh haShanah è stato approvato il temporaneo trasferimento di Ben Uliel dall’isolamento all’ala dedicata ai religiosi (Torah wing). Un piccolo trattamento di favore, che vista la composizione dell’attuale governo di Netanyahu potrebbe non essere l’unico.
Crowdfunding per un pericoloso eversivo israeliano o fondo per i martiri della jihad palestinese, non sono un bel segnale di pace. Del resto se Abu Mazen e Bibi Netanyahu, partecipando ai lavori dell’assemblea plenaria delle Nazioni Unite, hanno parlato dallo stesso microfono scambiandosi reciproche accuse, si sono seduti nella stessa aula e non si sono stretti la mano, quasi sfiorati e prudentemente evitati. È chiaro che sul tavolo non c’è nessuna reale intenzione di dialogo.