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TREGUA

Medioriente. Storie di normalità paradossale. Dalla Striscia di Gaza piovono su Israele centinaia di razzi, provocando il panico tra la popolazione della regione mediorientale del Paese. L’esercito con la stella di Davide risponde con i caccia dell’aviazione, colpendo le strutture militari di Hamas, coinvolti nei bombardamenti anche i civili. Ore di tensione e spirale di violenza. Morti da entrambi gli schieramenti. Le Nazioni Unite invitano alla calma, il presidente Turco Erdogan accusa apertamente di terrorismo Israele, Trump al contrario lo difende schierandosi al suo fianco al 100%. Tregua. Pare. Sospensione delle ostilità siglata grazie al lavoro svolto sul campo dalla Mukhabarat, i servizi segreti del Cairo. È una nuova pagina dell’eterno conflitto tra i due popoli, asimmetrico o meno negli ultimi dieci anni si sono svolte tre guerre (2009, 2012 e 2014) e un numero impressionante di “schermaglie”. La guerra, l’ennesima, è dietro l’angolo. La pace, se di pace si possa mai parlare, è appesa ad un filo. Tenue. In gioco troppe varianti: Israele è alla vigilia della ricorrenza della sua nascita (che coincide con la nakba, l’inizio della catastrofica disavventura palestinese) e nel bel mezzo della formazione del prossimo governo, la maggioranza uscita dalle elezioni del 9 aprile ha dato mandato, riconfermandolo, a Netanyahu per la formazione dell’esecutivo. Per dar vita ad un governo solido (con più di 61 dei 120 seggi) il falco della destra necessita tuttavia dell’appoggio del partito nazionalista Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, ministro della difesa dimissionario per divergenze con il premier proprio sulla questione della gestione della crisi di Gaza lo scorso novembre. Il grattacapo di Netanyahu, in queste ore, è se fare un passo indietro e offrirgli nuovamente quel dicastero, in una fase così altamente delicata. L’altra variabile è dal lato palestinese la jihad islamica, organizzazione terroristica responsabile del massiccio lancio di missili, longa manus dell’Iran e ai ferri corti con Hamas, per la spartizione dei fondi promessi dal Qatar. Sono una scheggia impazzita, e pericolosa, in un contesto già caldo.

MORTE NELLA STRISCIA PALESTINESE

La Primavera della protesta palestinese è iniziata con un bagno di sangue. Lungo il confine di Gaza avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione dedicata al Giorno della Terra, la prima di una lunga serie, per ricordare i territori confiscati da Israele. La propaganda di Hamas ha prontamente aderito all’evento. Dall’altra parte della frontiera i soldati israeliani ricevevano l’ordine di sparare. Alla fine manifestanti uccisi e feriti. Tutto questo a poco più di un mese dall’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme e nei giorni che precedono la ricorrenza della tragedia palestinese, la Nakba. Il livello di tensione si alza notevolmente. Con un movimento palestinese destinato a crescere nei prossimi giorni, nelle cui file affluisce un fiume di giovani. E che coagula differenti componenti della politica palestinese, da chi professa l’approccio non violento, alle frange di miliziani fondamentalisti. Gaza in queste ore è una pentola a pressione. Una “prigione” che ospita quasi 2milioni di palestinesi, in un fazzoletto densamente popolato dove comanda il regime di Hamas. A partire dagli anni ’90 Israele ha introdotto la limitazione di movimento ai cittadini della Striscia. Ma solo nel 2007 Egitto e Israele mettono i sigilli alle frontiere. Allo stesso tempo, Ramallah entra in collisione con Gaza, la frattura politica tra Fatah e Hamas si incancrenisce e diventa anche geografica.
A Gaza oggi la situazione di criticità è endemica nei servizi, da quelli idrici alla sanità. Peggiorata da scarse forniture di carburante e dalla ripetuta emergenza elettrica. Israele che dal 2017 aveva tagliato l’elettricità, ha ripreso la fornitura. Le spese sono a carico dell’Autorità Nazionale Palestinese, riluttante a coprire i debiti di Hamas. È collasso anche nella gestione dei rifiuti, decine di migliaia di tonnellate di spazzatura lasciata in strada a marcire. A febbraio 12 ospedali pubblici non erano in grado di fornire la diagnostica. Uno stop aggravato dallo sciopero del personale medico per il mancato pagamento degli stipendi arretrati. Gli aiuti internazionali, pur rilevanti, non bastano a migliorare il contesto. La sforbiciata di Trump ai fondi umanitari delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi ha trovato altri canali di finanziamento. Chiudere la borsa è stato l’ultimo affronto pubblico di Trump ad Abu Mazen. Le relazioni tra USA e Palestina sono ormai compromesse dal riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele, avvenuto lo scorso dicembre. Decisione che ha isolato Washington sul piano internazionale, provocando una reazione nel mondo arabo, anche fuori i confini del Medioriente. Trump potrebbe decidere di partecipare personalmente all’inaugurazione della nuova sede diplomatica di Gerusalemme, nel qual caso l’erede di Arafat non avrebbe alternative a rispondere con una dichiarazione di pari portata: se non “guerra” quasi.
La scelta della Casa Bianca ha alimentato contrapposizione, lasciando il cielo della Terra Santa a falchi, pronti a gettare benzina sul fuoco. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, minaccia che: “non cederemo un pezzo di terra di Palestina, né riconosceremo l’entità israeliana”. Proclama bellico che estende a Trump: “Promettiamo di non rinunciare a Gerusalemme ”. Jason Greenblatt, inviato statunitense per le negoziazioni tra Israele e Palestina, ha lanciato pesanti accuse incolpando a sua volta Hamas di “incoraggiare una marcia ostile” e “istigare alla violenza”. Ormai in secondo piano Abu Mazen, relegato in una posizione marginale, compromessa dall’età e dalla salute. Il suo partito Fatah non è al momento in grado di veicolare o controllare la protesta, tantomeno a Gaza. In questa fase l’escalation garantirebbe quindi ad Hamas un maggiore consenso popolare e una posizione di forza. Che potrebbe sfruttare nella scelta del futuro presidente del popolo palestinese. Sul fronte israeliano, qualsiasi conferma che non esiste una controparte con cui dialogare, porta solo acqua al mulino di Netanyahu.

GAZA UN ANNO DALL’INIZIO DEL CONFLITTO E LA COOPERAZIONE ITALIANA

A Gaza è ancora emergenza, gli aiuti tardano ad arrivare e la macchina della ricostruzione internazionale è letteralmente in stallo dalla fine delle ostilità, agosto del 2014. Tempo perso e ritardi imputabili a fattori politici interni ed internazionali. Eppure la cooperazione italiana, forse uno dei pochi esempi, si è mossa con celerità e concretezza. Alla conferenza del Cairo, in ottobre, l’Italia ha stanziato 18,7 milioni. “La Cooperazione italiana opera a Gaza da lungo tempo, principalmente attraverso l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), che gestisce, come noto, alcuni servizi sociali – scuole e cliniche – essenziali per la popolazione, e varie ONG italiane, che hanno realizzato o stanno realizzando interventi di carattere sociale e di sostegno a piccole attività produttive. Nonostante le difficoltà del contesto politico e operativo, la Cooperazione italiana continua ad essere attiva e apprezzata dalla popolazione.” Tiene a sottolineare Giampaolo Cantini, Ambasciatore e Direttore Generale della Cooperazione italiana allo sviluppo, che intervistato per l’Unità aggiunge: “Nel corso del 2015, sono previsti nuovi interventi di emergenza per la Palestina per un totale di 5,78 milioni di Euro.” In totale ad oggi sono stati impegnati nei Territori Palestinesi Occupati 380 milioni di euro a partire dal 1985. Mentre, in risposta alla crisi dello scorso anno sono 3 milioni i fondi investiti sul canale dell’emergenza. Nel dettaglio ad un anno dalla guerra e dieci dal ritiro dei coloni israeliani da Gaza, voluto unilateralmente da Sharon, le principali aeree d’intervento gestite dalle nostre ONG sono: progetti per migliorare l’accesso all’acqua potabile per la popolazione di Gaza; interventi nel settore della salute e attività di resilienza ai traumi di guerra della popolazione sfollata. Mezzo milione è la cifra che la Farnesina ha gestito autonomamente acquistando medicinali e generi di prima sussistenza. Due voli umanitari hanno portato dall’Italia 500 Emergency Shelter-Boxes destinati agli sfollati: box contenenti tende, coperte, teli isolanti, fornelli da campeggio, pentole. Gli aiuti sono stati allargati al canale multilaterale diretto a favorire le agenzie internazionali: UNWRA, UNMAS, OCHA, UNDP, WHO e Croce Rossa Internazionale. Infine la somma più sostanziosa è stata investita nel credito d’aiuto, come chiarisce il Direttore Cantini: “15 milioni di € da erogare tramite un credito ad alta concessionalità, con tale importo, verrà finanziato un programma di ricostruzione di abitazioni civili a Gaza, che intende sostenere l’attuazione del National Early Recovery Reconstruction Plan palestinese.” Sul fronte politico c’è da registrare che la tregua tra Gaza e Gerusalemme regge. Nelle ultime settimane a Gaza i gruppi salafiti, affiliati all’ISIS, hanno fatto la loro macabra comparsa, tentando di destabilizzare il fragile compromesso di “quiete”. Giochi di potere in un Medioriente sempre più vicino al baratro del terrore. Il recente rapporto della commissione d’inchiesta dell’ONU parla esplicitamente di crimini di guerra compiuti da parte di Israele e di Hamas durante il conflitto e invita l’intervento della Corte Penale Internazionale. La verità è lontana, l’impunità aleggia mentre la devastazione è visibile.

PESCE D’APRILE PALESTINESE

Pesce d’Aprile 2015. C’è stata la bufala della Torre di Pisa che sarebbe diventata/trasformata in un albergo di lusso. Carina e innocente beffa stagionale. E poi quella che è rimbalzata sui media di mezzo mondo e ha visto protagonista un palestinese di Gaza, Rabieh Hamduna. Rabieh è un trentenne sfollato, la sua abitazione è stata completamente rasa al suolo nel conflitto della scorsa estate. L’unica cosa indenne di tutto l’edificio è stata la porta di casa, rimasta miracolosamente in piedi in mezzo alle macerie. Ebbene quella porta scarna è divenuta un opera d’arte dal valore inestimabile, realizzata dall’artista inglese Banksy che ha deciso di rappresentarvi la divinità greca Niobe che piange la morte dei figli. Banksy si è “intrufolato” nella Striscia passando dai tunnel di Rafah. Nella sua visita a Gaza post guerra ha voluto portare la solidarietà al popolo palestinese disseminando in vari luoghi le sue creazioni, tra queste la dea Niobe. Le foto del telaio della porta di Rabieh hanno fatto così il giro del mondo. Tuttavia il legittimo proprietario ignaro del valore reale del graffito di Banksy, pochi giorni fa, ha venduto per la modica cifra di 700 Shekels, circa 180 dollari, la porta ad un giornalista. Bilal Khaled, freelance palestinese, è legalmente il nuovo proprietario della Niobe di Banksy. Sul momento a Rabieh deve essere apparso un affare d’oro, rifilare una porta sgangherata e imbrattata da un writer con una dea pagana per un mucchietto di contanti. Poi qualcuno, che certo non era un famoso critico d’arte ma una persona un po’ più informata dell’inconsapevole Rabieh, gli ha spiegato che il guadagno in realtà l’aveva fatto Khaled. A quel punto Rabieh ha pubblicamente dichiarato alle televisioni di essere stato truffato e di volere indietro la sua amata porta di casa: “Sono stato ingannato”. Su internet è iniziata una caccia al giornalista estimatore di Banksy. Rintracciato dai colleghi della stampa internazionale ha voluto rimarcare che il suo gesto, altruistico, era finalizzato alla salvaguardia dell’opera e che è disponibile a mostrarla solo se non verrà pubblicato il luogo dove è nascosta. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.