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STORIE PALESTINESI E ISRAELIANE DEL “CAVALIERE”

Non c’è dubbio che Berlusconi godesse di diffusa notorietà in Medioriente, dovuta sia alle vittorie calcistiche del Milan che alle conosciute vicende scandalistiche. Era seguito e commentato dal pubblico, spesso con ilarità. Nel 2010 l’allora presidente Shimon Peres disse di lui: “il leader più solare mai conosciuto”. Aggiungendo: “Non è importante quello che i giornali scrivono, ma quello che gli italiani votano. E votandola, gli italiani hanno dimostrato di avere buon gusto”. Ancora più sperticate sono state le lodi profuse nel tempo da Netanyahu: da “apostolo della pace” a “campione di sicurezza e libertà”. Di lui il longevo premier israeliano riporta uno scherzoso aneddoto di una loro conversazione nella sua ultima biografia: Domanda: “Allora, Bibi, quante stazioni televisive hai?”. Risposta: “Israele ha tre stazioni”. Berlusconi: “No, intendo dire quante di loro lavorano per voi”. Netanyahu: “Nessuna. Anzi, tutti lavorano contro di me…”.Molto divertente l’episodio che Ariel Sharon raccontò al giornalista Antonio Ferrari: «Durante la colazione di lavoro, alla presenza delle delegazioni, vi erano due cameriere di notevole avvenenza. Ciascuna posava un panino sul piatto a lato della portata principale. Berlusconi, dopo averlo divorato, ne chiese un altro. E Sharon: “Perché, se le piace tanto il nostro pane, non ne chiede due o tre pezzi, invece di uno alla volta?”. E Berlusconi: “Beh, così posso vedere da vicino la cameriera. Sa, alla mia età ci si accontenta di guardare”. Sharon, divertito: “Direi che questo non ci risulta”. Berlusconi “Ve l’hanno rivelato i vostri servizi segreti?”. Uno dei consiglieri di Sharon scoppia a ridere: “No, signor presidente, l’abbiamo letto sui suoi giornali”». Tanta amicizia per Israele che andava parallelamente all’empatia mai nascosta per i palestinesi. Ha finanziato l’Olp di Arafat, e molti ricorderanno che gli incontri con lo storico leader palestinese si aprivano e chiudevano con fraterni abbracci. Nel 2012 il presidente Abu Mazen parlava di lui in questi termini: “Non importa se Berlusconi è un grande tifoso di Israele, ci va bene questa abilità italiana d’essere amici di entrambi, perché può fare molto”. A marzo 2023 il ministro Tajani al ritorno dal suo viaggio in Terra Santa dichiara alla stampa: “Abu Mazen, mi ha detto di salutare Berlusconi, e lo stesso ha fatto Netanyahu”. Era amico di entrambi o meglio ha saputo diplomaticamente tenere un ottimo rapporto tra due nemici, stabile nel tempo. Silvio Berlusconi però ci ha lasciato anche episodi fuori luogo, in quel lembo di terra. Come quello di arrivare a far finta di non vedere il muro di separazione che divide Israele dai Territori palestinesi: “Non me ne sono accorto, stavo prendendo appunti”. Disse scusandosi con la giornalista che gli aveva posto la domanda. La giornalista Fiamma Nirenstein nel suo personale ricordo ha detto: “A volte raccontava prima di andarsene una delle sue barzellette. Io lo pregavo rispettosamente di evitare quelle sugli ebrei, anche se erano certo innocenti. Non mi dava retta”.

COLPO A BENNETT DI BIBI

La sera del 17 novembre del 2003 Roma è teatro di una delle più impensabili operazioni diplomatiche del Medioriente contemporaneo. Nelle stanze dell’Hilton Cavalieri viene partorito il piano di disimpegno unilaterale israeliano (Hitnatkut). Fuori tutti da Gaza, settlers e soldati, con i secondi molto più felici dell’idea rispetto ai primi. Artefice, l’allora premier e leader del Likud Ariel Sharon. Il progetto viene esposto a Elliott Abrams, funzionario della Casa Bianca nell’amministrazione Bush jr. In quella circostanza, quasi sicuramente, Sharon aveva già maturato la strategia di manovra nella Knesset, con l’obiettivo di posizionarsi al centro. Tattica che si tramuterà successivamente nella decisione, anche in questo caso dirompente, di uscire dal Likud (dove era esposto agli attacchi della fronda interna guidata dal solito Netanyahu) e creare un suo movimento, Kadima. Partito che risucchierà voti, e volti, dalla destra del Likud e in parte dai laburisti. La linea di Ariel “Arik” Sharon è vincente, la sua creatura ottiene 29 seggi nelle elezioni del 28 marzo 2006. Mentre, Arik però si trova in ospedale a Gerusalemme in coma vegetativo, a prendere il timone di Kadima e dell’esecutivo era intanto giunto Ehud Olmert. Che formerà una coalizione comprendente i laburisti di Avoda, gli ortodossi sefarditi di Shas e il partito dei pensionati Rafi Eitan. In seguito si aggiungerà l’appoggio di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu. Da quello schema di gioco è escluso Bibi Netanyahu, che sceglie di trincerarsi nei banchi dell’opposizione. In attesa di preparare il grande ritorno sulla scena. Avvenuto con arte, ma non con stile, il 31 marzo 2009, data della nascita del Netanyahu bis e inizio del suo lungo regno, che si concluderà ufficialmente il 13 giugno 2021 con il giuramento del governo Bennett-Lapid. Vaso fragile, per due ragioni: numericamente troppo esiguo (nato con un solo seggio di maggioranza alla Knesset) ed ideologicamente eterogeneo (sinistra, arabi, russi, destra nazionale e religiosa e liberali). A saldare anime così distanti politicamente ed incompatibili per natura è solo l’anti-Bibismo. Il collante tiene per quasi 10 mesi. Durante i quali, tra pandemia e guerra in Ucraina, la giovane coppia riesce persino ad incasellare l’approvazione del bilancio. Evitato questo scoglio tutto pare in discesa. E così il duo Bennett-Lapid può dedicarsi con una certa tranquillità a spaziare nella sfera diplomatica, sviluppando piene relazioni con i partner arabi che hanno aderito all’Accordo di Abramo sino a proporsi come mediatore nel conflitto ucraino. Il clima del Medioriente improvvisamente si infiamma, il terrorismo torna nelle strade, la paura aumenta, le tensioni con i palestinesi salgono. C’è allarme. Fatalmente Naftali Bennett si distrae troppo dalla stretta marcatura a Netanyahu. Credendolo forse concentrato nelle vicissitudini giudiziarie che lo riguardano e senza prendere sul serio gli avvisi di pericolo che gli vengono recapitati, commettendo l’errore di lasciare al falco della destra israeliana movimento per erodere pezzi alla risicata maggioranza. L’azione di Netanyahu è martellante da tempo, l’ex premier ci prova prima con Benny Gantz (già rimasto bruciato dalle promesse di Bibi, e quindi molto cauto), alla fine qualche ammiccamento c’è, tuttavia, il “complotto” non si finalizza. Comunque, sono in molti a pensare che il leader di Kahol Lavan può essere il punto debole su cui Netanyahu tenterà di sfondare. La coltellata a Bennett arriva il 6 aprile 2022 alla vigilia della pausa del parlamento, inflitta da chi gli è vicino, la parlamentare di Yamina Idit Silman, che con la sua defezioni produce un terremoto politico. Non è ancora chiaro se la Silman abbia rotto per motivi “religiosi” (non sarebbe stata la prima volta in Israele), dovuti ai dissidi con il ministro della Salute, da cui avrebbe voluto la rassicurazione che durante la Pesach fosse impedito negli ospedali di mangiare cibo chametz. Un’altra ragione alla base della frattura con Bennett potrebbe essere il calcolo politico, il marito della Silman avrebbe chiesto ed ottenuto per la moglie delle sicurezze dal Likud. Oppure, molto semplicemente la decisione è stata motivata dal fatto che non avrebbe retto alla tensione della campagna di critiche di cui era oggetto. Comunque sia andata, è Netanyahu ad averne tratto vantaggio. Raggiungendo nella Knesset la parità tra maggioranza ed opposizione, 60 a 60. “La risposta immediata è che il governo può, almeno per ora, sopravvivere senza una maggioranza, purché non ci siano ulteriori disertori”. Scrive Anshel Pfeffer su Haaretz. Teoricamente anche se zoppicante il governo può andare avanti sino a Marzo 2023, quando ci sarà da votare la legge finanziaria. Se invece la Knesset dovesse optare per lo scioglimento si andrebbe al voto anticipato. E Yair Lapid – secondo le clausole del patto di governo – diventerebbe primo ministro ad interim per il periodo di transizione. Tra i vari incastri possibili c’è persino l’opzione del ritorno di Netanyahu o la formazione di una nuova compagine governativa. Yamina è sempre andata stretta alle ambizioni di Bennett, alla quale non ha mai dedicato troppa attenzione. Con il rischio, appunto, di vedersela sgretolare tra le mani. La lezione di Sharon per battere Netanyahu è che devi anticipare le sue mosse, anche a costo di cambiare la macchina in corsa. Il futuro di Bennett è oggi appeso ad un filo. Per resistere all’assedio lanciato a Balfour street (residenza ancora in ristrutturazione dopo il trasloco della famiglia Netanyahu) deve fare affidamento sulla tenuta degli alleati. Ma per rompere l’accerchiamento non ha scelta che portare la guerra dentro il Likud, in profondità come avrebbe fatto Sharon.

EPTACAIDECAFOBIA

Correva l’anno 1999. Era il 17 maggio. E in Israele si tenevano le elezioni per eleggere il Primo Ministro e il nuovo parlamento. Il premier uscente e candidato in pectore era il leader della destra Benjamin Netanyahu. Lo sfidante invece era il laburista Ehud Barak. Dallo scrutinio delle schede uscì vincitore Barak con il 56% dei consensi. La sua lista One Israel raccolse il 20%, comprendeva oltre ai laburisti anche esponenti centristi. Il Likud rispetto alle precedenti elezioni ebbe un clamoroso tracollo, perdendo ben 13 seggi nella Knesset. La disfatta politica segnò per Netanyahu un declino politico e l’ascesa di Ariel Sharon. Ci volle quasi un decennio prima che il falco Netanyahu tornasse di nuovo al potere. L’esperienza di governo di Barak non fu molto fortunata, per formare una maggioranza di governo fu costretto ad allargare la coalizione a partiti minori, inclusi quelli religiosi, e il suo mandato si contraddistinse per frizioni interne che portarono in breve tempo a nuove elezioni. E alla fine del centrosinistra. Marzo 2015 Netanyahu è ancora in corsa per la poltrona di premier. Ricorsi storici e scaramantici, in Israele si vota il 17. Superstizione? Nei sondaggi il Likud è dato sfavorito contro il centrosinistra. Al posto di Barak oggi c’è Herzog. Per Netanyahu il 17 non è un numero fortunato, pare.

OPERAZIONE ABBATTERE IL FALCO

Il suo nome non è Bond, James Bond ma Dagan, Meir Dagan. È l’ex capo dei servizi segreti israeliani, il deus ex machina dell’intelligence forse più potente al mondo. Dagan è l’ultima personalità in ordine cronologico ad entrare prepotentemente nella campagna elettorale 2015. Il soldato pluridecorato, eroe di guerra, leggenda dei corpi speciali, spia con licenza di uccidere e decidere chi eliminare, è salito sul palco della manifestazione di Tel Aviv e ha pubblicamente sparato a zero contro Netanyahu. La piazza Rabin gremita di sostenitori del “cambiamento” ha ascoltato in silenzio le parole dell’uomo che negli ultimi decenni ha protetto la loro sicurezza e quella del Paese. Calvo, sbarbato, abito scuro, occhiali squadrati e sguardo glaciale, piegato ma non spezzato da una terribile malattia che ha lasciato il segno e con la quale lotta da anni, uomo di cultura e appassionato d’arte, ha raccolto gli applausi della folla, lui abituato a stare in disparte, a muovere le pedine dietro le quinte, si è preso il suo spazio di notorietà e pubblicità. Ha parlato con voce flebile, senza retorica ma con semplicità: “Israele è circondato da nemici. Ma non sono loro che mi fanno paura. Io sono preoccupato della nostra leadership.” È apparso, in alcuni tratti del suo discorso, visibilmente emozionato, anche Bond almeno una volta ha pianto, per poco, ma ha versato lacrime vere. Piangere è umano. Quanto Dagan sia umano non è detto saperlo, la spia nata in Russia anzi in USSR (leggenda vuole che la madre abbia partorito sul treno mentre la famiglia scappava dalla Polonia occupata dai nazisti), ha dimostrato di essere un leader politico e carismatico o almeno non nasconde le potenzialità per poterlo, a breve, diventare. In Israele è cosa assai comune che un militare in carriera possa passare “in prestito” alla politica, non c’è da essere scandalizzati. Fatto sta che Dagan è divenuto un elemento chiave della campagna di discredito verso Netanyahu, le sue dichiarazioni affossano, giorno dopo giorno, la credibilità del premier. Suona strano che proprio lui così schivo ai sensazionalismi, ai riflettori, alla fama, sia diventato l’icona del centrosinistra israeliano e il front man che “sbugiarda” costantemente il capo del governo. Lui che certo non è mai stato uomo dichiaratamente di sinistra, nominato al vertice dell’Istituto da Sharon e poi in passato lodato dallo stesso Netanyahu. La rottura dei rapporti tra i due è legata alle recenti crisi di Gaza e al presunto dossier iraniano. L’ex capo dell’Agenzia è strenuamente critico sul pericolo nucleare paventato dal Primo Ministro israeliano: “Netanyahu ha causato ad Israele il peggior danno strategico.” E nel suo commento, alle parole pronunciate recentemente dal leader israeliano al congresso americano, pare sia stato colorito e caustico: “stronzate”. Ovviamente Netanyahu non ha risposto agli attacchi di Mr Mossad. Offendere, inimicarsi l’uomo che ha raccolto e spulciato nei segreti di tutti non è certo una bella mossa politica, a prescindere dagli scheletri che nascondiamo nell’armadio. Nel 2015 i servizi segreti israeliani sono ancora circondati da un alone di mistero e dalla fama d’infallibilità, al pari dei servizi di Sua Maestà, almeno di quelli cinematografici. “Vorrei ricordarti che questa operazione andava condotta con una certa discrezione…” Ammoniva M, capo del MI6, con queste parole l’agente Bond. Discrezione è sinonimo di servizi segreti. Dagan ha fatto cose che molti di noi ignorano, segreti coperti da un profondo silenzio tombale e dalla ragion di stato. La voce dell’ex 007 resta molto ascoltata e rispettata nella società israeliana.  L’uomo che celava segreti oggi infiamma le piazze e guida il movimento per il cambiamento, vuole sconfiggere Netanyahu. L’operazione “abbattere il falco” è in atto. Parola di Dagan, Meir Dagan.