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IL SULTANO, DALLA MOSCHEA DI SANTA SOFIA AL SOGNO DI AL QUDS

In Turchia la rivoluzione islamizzante di Erdogan oscura l’immagine del padre fondatore della Repubblica, il laico Ataturk. La riconversione di uno dei monumenti più famosi del Paese in moschea è l’atto culminante di una campagna di propaganda iniziata ormai una decade fa. Con questa mossa il presidente turco travolge i simboli della cristianità e guarda con aspirazione ad imporre la propria guida, spirituale e politica, sull’intero mondo arabo: “sulle orme della volontà dei musulmani di uscire dall’interregno”.

Lo splendido edificio di Santa Sofia che campeggia sulle acque del Bosforo ha avuto due vite e mezzo: è stata basilica cristiana, moschea islamica e, a questo punto, transitoriamente museo nazionale. Realizzata da Giustiniano, lì furono incoronati gli imperatori cristiani di Bisanzio. Fino al sopraggiungere dell’ottomano Mehmet II, che riuscì in un’impresa fallita per secoli agli eserciti della mezza luna: far breccia nelle possenti mura a difesa di Costantinopoli. Il 28 maggio 1453 a poche ore dall’assalto finale dei giannizzeri in quella mastodontica chiesa, cattolici e ortodossi, mettendo da parte le contrapposizioni scismatiche, celebrarono insieme messa. Il 29 maggio il sultano Mehmet, il Conquistatore, avrebbe compiuto un gesto pieno di significato, entrato trionfante nella Basilica rivolse la preghiera verso la Mecca, prendendo formalmente possesso dell’edificio, proclamandola moschea. A differenza di molte altre chiese che non cambiarono culto, il senso di quell’operazione aveva indubbiamente un valore geopolitico forte, che infatti costernò l’Europa. La fine dell’impero romano d’Oriente era oramai ineluttabile: il lento declino iniziato due secoli prima mostrava segni di desolazione e degrado diffusi. Il “centro dei quattro angoli del mondo” aveva perso il suo antico splendore, al suo posto sarebbe nata la moderna Istanbul, capitale della Sublime Porta. Chiudendo un altro capitolo della storia del Mediterraneo, quello della millenaria civiltà greca: passata dal periodo classico a quello ellenico ed infine bizantino. L’ambizione di Mehmet, al di sopra tutto, portò alla caduta di Costantinopoli, ridisegnando i confini dell’Europa, allora come oggi divisa da faide e rivalità. Su questa figura la storiografia si divide, c’è chi lo ritiene un sovrano saggio e lungimirante, e chi come Benny Morris evidenzia, con recenti studi, come l’Impero Ottomano abbia avuto nello sterminio dei cristiani una delle sue caratterizzazioni ideologiche. Erdogan non nasconde ammirazione per questo personaggio, citandolo spesso nei suoi discorsi. Copiandone, ed esaltandone, non solo i valori islamici delle origini ma anche l’aspetto antieuropeista. A cui aggiunge le modalità del ricatto diplomatico, vuoi sulla questione dei migranti, vuoi delle politiche di decristianizzazione del Medioriente e, purtroppo, di una nuova guerra “santa” per Gerusalemme: “La risurrezione di Hagia Sophia è preludio alla liberazione della moschea al-Aqsa”.

IL SULTANO SENZA MASCHERA

Il lungo sultanato di Recep Tayyip Erdogan è passato indenne al golpe, e ora è alla prova di una nuova congiura di palazzo, in atto per la sua successione. E a portare alla luce lo scontro politico è stato il Coronavirus. Le recenti frizioni nel governo sulla gestione dell’emergenza sanitaria rispecchiano le dinamiche della lotta esplosa tra le diverse correnti del partito Akp, fondato dal presidente e di fatto in mano alla sua famiglia.
La Turchia ha confermato ufficialmente il primo caso di Covid19 lo scorso 11 marzo. Quello che il ministero della sanità di Ankara riconobbe come il paziente zero era appena rientrato da un viaggio in Europa. Altre informazioni relative al contagiato non sono state rese pubbliche, per non violare la privacy del malato. Mentre, paradossalmente la libertà di stampa latita. Al vaglio del parlamento una legge che permetta il totale controllo delle app di messaggistica. Erdogan affronta un calo di consensi e popolarità. Un distacco che è andato ampliandosi con l’acutizzarsi della crisi economica e finanziaria degli ultimi anni: il crollo della lira, la galoppante inflazione, l’elevato tasso di disoccupazione e l’escalation militare in Siria contro i curdi. Trema l’industria del turismo, che con i suoi circa 50 milioni di visitatori l’anno è un asset strategico, e al contempo molto fragile. In balia di effetti negativi come il terrorismo ma anche imprevedibili come la pandemia.
Da quando è stato annunciato il coprifuoco, a Istanbul, ma un po’ ovunque nel Paese, ci sono state scene di panico generale, supermercati invasi e razziati, lunghe code nelle strade nel tentativo di scappare dai grandi centri urbani. Qualcosa è andato storto nella comunicazione governativa. Evidentemente sono stati fatti errori su errori nel fronteggiare l’epidemia. La decisione di chiudere la frontiera con l’Iran e cancellare i voli verso destinazioni con alti tassi di infezione, tra cui l’Italia, non sono state misure sufficienti a contenere Covid19. E oggi il boom dei contagi rischia di aggravare la situazione. La Mezzaluna Rossa turca, che aderisce alla Croce Rossa internazionale, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno recentemente allertato sulla possibilità che il virus possa colpire in modo catastrofico la parte più vulnerabile della popolazione. A partire dai rifugiati, 4 milioni di persone, il 90% proveniente dalla Siria, dalla guerra.
Il sistema sanitario nazionale turco, privato e pubblico, nonostante gli avvisi e gli echi dal resto del mondo non ha sviluppato un piano di scorte di materiale medico. E le strutture sono al limite. Il governo per placare le polemiche ha fatto distribuire mascherine e disinfettanti. Svuotato le carceri con una maxi-amnistia per un terzo dei detenuti, 90 mila, escludendo dal provvedimento gli oppositori politici.
In molti, intanto, si chiedono se Erdogan fosse a conoscenza della presenza del Coronavirus già da tempo. Chi critica è convinto di ciò. La stampa filo governativa ha invece serrato i ranghi contro le “speculazioni”.

ERDOCRAZIA

Le armi hanno smesso di risuonare sulle rive del Bosforo. Il golpe è durato poco, è vero, la congiura ai danni di Recep Tayyp Erdogan è stata minoritaria, disorganizzata e scoordinata, ma come avviene sempre quando chi doveva essere cacciato riesce a salvarsi la punizione assume la forma, o il pretesto, della feroce rivincita. La linea dura della purga, scelta dal presidente turco e dai suoi fedelissimi, imbarazza il mondo. Preoccupa il persistente caos nel paese, la fase della caccia aperta alle streghe, ai nemici. Quale giudizio attende le centinaia di prigionieri seminudi con le manette ai polsi ammassati in ginocchio nei capannoni? C’è giustificata apprensione. La spirale repressiva del governo turco rischia di alterare la costituzione, la democrazia vacilla. L’introduzione della pena di morte, oramai alle porte, per punire i “traditori” insorti ed estirpare il “virus”, è una misura inaccettabile per lo Stato di diritto, non solo dell’Europa. Cesura ad ogni possibilità d’ingresso nella “casa” per la richiedente Turchia. La congiura ai danni del democraticamente eletto Erdogan è un atto grave, da sanare attraverso la riconciliazione e non con una vendicativa, e forse sommaria, pulizia. È la voce dei capi della diplomazia di USA e Europa. Calma e cautela sono invocati da Bruxelles. L’ambiziosa sfida politica lanciata recentemente da Erdogan di portare stabilità e “ordine” in Medioriente, riallacciando l’amicizia con Gerusalemme e arrivando a paventare un’apertura con Assad, è stata messa a dura prova da un manipolo di avventati militari che si sono fatti scudo della storia e della leadership di Ataturk. “Avvelenato dal suo stesso potere”. “Erdogan in questo momento è ancora più pericoloso di prima, è un dittatore”. È l’opinione di Can Dundar editorialista dissidente del quotidiano indipendente Cumhuriyet. Nelle recondite stanze del palazzo del sultano aleggia la paura, il sospetto. Dietro le quinte forze occulte orchestrano segretamente giochi di potere imprevedibili. E il “sovrano”, inaspettatamente, corre dal nemico di sempre: Mosca. Chiudendo maleducatamente la porta in faccia all’Europa. Una rottura per interessi strategici non coincidenti, verità storiche scomode e inconciliabili tra Vecchio Continente e la Sublime Porta, da una parte la storia dell’umanità e le sue tragedie, dall’altra il negazionismo, la presunzione nazionalista di essere comunque dalla parte della ragione. Invocare la pena di morte per i nemici cospiratori è abominevole quanto aver “cooperato” in questi mesi con il Califfato. Riporre le dovute attenzioni ai diritti umani è un dovere ineludibile per una completa democrazia. Pretendere il “rispetto” per minoranza curda, comunità LGBT, dissidenti politici, profughi e giornalisti è questione di civiltà. Non stiamo affrontando una disputa meramente terminologica, purtroppo. Culturalmente i pilastri fondanti del mito della Turchia moderna poggiano su un nazionalismo di matrice fortemente anti-egualitario che fondendosi con l’islamizzazione radicale rischia di portare il paese ad un’altra crisi interna, una pericolosa regressione. Non è un putsch la soluzione, non può esserlo, è un metodo sbagliato inequivocabilmente. La piazza ha difeso la democrazia da questo “scomposto” golpe ma l’identità turca è oggi troppo fragile, intollerante e violenta per essere inglobata in una casa dalle mura pericolanti e dal pavimento sconnesso quale l’Europa odierna. Finché Ankara e il suo governo non capiranno l’importanza di riconoscersi pienamente nel pensiero europeo gli spazi di manovra per il richiedente inquilino sono minimi, e la porta dell’Europa deve rimanere ben chiusa a chiave.

CALIFFO E SULTANO IN LOTTA

In Turchia non c’è pace, il 2015 si è chiuso con un bilancio molto pesante, si sono susseguiti attentati e forti fibrillazioni politiche. Il 2016 si è aperto con un nuovo attentato nel quartiere culturale di Istanbul. La strage è un messaggio all’Occidente: il terrorismo fondamentalista vuole uccidere i turisti europei, danneggiando l’industria del viaggio. Ha colpito le spiagge della Tunisia e recentemente quelle di Hurghada. Dalla Francia al Maghreb ha versato sangue in teatri, ristoranti, musei e alberghi. Una scia di orrore che giunge fino alle sponde del Bosforo dove nella mattina di martedì un kamikaze di origine siriana si è fatto esplodere in piazza Sultanahmet a pochi metri dalla Moschea Blu e da Santa Sofia, lasciando sul selciato dove si erge l’obelisco di Teodosio una fila di cadaveri, quasi tutti di nazionalità tedesca. La strage al cuore della vecchia Bisanzio porta la firma dei miliziani del Califfato. La Turchia è una delle destinazioni turistiche più visitate del Mediterraneo, il fascino che emana Istanbul incanta ancor oggi i viaggiatori di tutto il mondo. Crocevia di storia e civiltà, dagli antichi Ittiti ai Romani, dall’Impero di Bisanzio a quello ottomano. Un paese moderno forgiato da un solo uomo Ataturk che alla fine della Prima Guerra mondiale, dalle macerie di un’impero multinazionale e multireligioso, ha costruito una nazione laica e protoccidentale. Quasi un secolo dopo l’identità della porta d’ingresso all’Europa è ancora sfuggente e contraddittoria. Un paese in bilico, fragile e conflittuale. Terra di passaggio per coloro che sono in fuga, ospita oltre due milioni di profughi. Ostinatamente rifiuta di ammettere le proprie responsabilità nei confronti dello sterminio degli armeni; continua ad opporsi strenuamente alla nascita di uno stato curdo; è “pesantemente compromessa” nella questione siriana, rappresentando una base logistica sicura per coloro che in Siria combattono nel nome del Califfato. Una relazione pericolosa quella tra Turchia e Stato Islamico che ha esposto il governo di Ankara a forti critiche e pressioni internazionali. Qualcosa però stava cambiando negli assetti geopolitici, pochi giorni fa la polizia turca aveva dichiarato di aver effettuato arresti ed espulsioni di simpatizzanti Isis provenienti dall’Europa, potenziali foreign fighters. E poi l’annuncio, meno di 24 ore prima dell’attentato di Istanbul, di aver scoperto una rete terroristica pronta a colpire su vasta scala le capitali del Vecchio Continente. Ebbene, esaminando gli episodi drammatici degli ultimi dodici mesi è evidente l’evoluzione strategica di un conflitto asimmetrico che l’intelligence non è in grado ancora di prevenire. Significativa la modalità d’azione eseguita negli attentati compiuti: meticolosa programmazione, indice di ricerca, preparazione nei dettagli e nel bersaglio da colpire. Non c’è improvvisazione in questa macchina della morte, ma fredda lucidità. È un salto di qualità del terrorismo islamico. L’obbiettivo finale è diffondere il caos. Non è la prima volta che l’Occidente è attraversato dal terrore, ideologie aberranti hanno reclutato, indottrinato, addestrato e mandato ad uccidere già altre volte. Tuttavia l’Isis ha consolidato in questi mesi la supremazia tra le organizzazioni terroristiche, è arrivata dove altri avevano in passato fallito: toglierci la tranquillità, infondere la paura generale. La guerra santa dell’Isis è globale, ma ha un fondamento politico e militare nell’area siro-irachena. La prossimità con la Turchia allarga il territorio dove girano liberamente i proseliti di Daesh e dove, tra le maglie dei migranti, sono reclutati terroristi per compiere missioni assegnate in altri paesi, inclusa l’Europa. Ecco, quindi, che il terrorismo islamico lega dinamiche regionali a effetti internazionali con risultati devastanti. Dietro a convergenze politiche, accordi da bazar, sfere d’influenza, c’è il disegno per imporre l’egemonia sul futuro Medioriente. Le ambizioni del “sultano” Erdogan di riaffermare il ruolo della Sublime Porta vacillano sotto le ambiguità dei misteri che lo legano al “califfo” Abu Bakr Al Baghdadi. Intanto nel Bosforo risuona la prima esplosione e domani rischiamo di dover commentare una nuova pagina di terrore.