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INTERVISTA AD ANTONIO ALOI

Il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq è un evento storico senza precedenti, cosa ha voluto dire per una comunità tra le più martoriate?

“Per la minoranza cristiana non solo dell’Iraq ma di tutto il Medio Oriente la visita del Papa è sicuramente un fatto di grande rilevanza. Da anni questo viaggio apostolico era atteso, già si lavorava per questo evento nel 2014 quando ero a Duhok nel Kurdistan occidentale, ma lo “scompiglio” creato dall’ISIS prima e dalla pandemia da COVID19 poi hanno rallentato il processo.

Oserei dire però che la rilevanza è solo per i cristiani, dubito che al di là della cortese ospitalità, qualche cosa muti nella mentalità mussulmana. Noi cristiani, finalmente o per fortuna abbiamo smesso di difendere o propagandare la nostra Dottrina a fil di spada (gli interessi “occidentali” non hanno più bisogno di mascherarsi dietro un crocifisso) dubito sia così per la mentalità mussulmana. Mi spiego: ho vissuto a lungo in Medio Oriente ed ho visitato, per lavoro, tutto il mosaico dei Paesi che lo compongono, e come sempre ed ovunque, la maggioranza delle persone è pacifica ed accogliente, ma le ferite inferte dallo strapotere militare e coloniale prima e dalla mentalità agnostica ed affarista ora, continuano ad alimentare una totale diffidenza verso il nostro mondo. Questa diffidenza è ben sfruttata da chi, per i propri affari, è interessato ad alimentare divisioni e conflitti. Questa situazione crea un blocco, un nodo molto difficile da dipanare! Per cui questo tentativo di “pulizia” etnica e culturale, iniziato anni fa violentemente in Libano, proseguito in Jugoslavia e via via in Medio Oriente temo proprio non sia ancora finito.

Ricordo, tanto per dare un’idea, un episodio che mi raccontò molto tempo fa Sua Eccellenza Fuad allora vescovo a Tunisi e poi Patriarca a Gerusalemme. Lui da piccolo viveva con la sua famiglia in un villaggio della Giordania, cristiani, mussulmani, ebrei condividevano la stessa vita, gli stessi giochi, l’unica evidente differenza di quella popolazione unita e pacifica era il giorno in cui si recava a pregare; fino a quando il Governo giordano dichiarò la religione cristiana una religione protetta. Quel giorno cominciò la discriminazione…

Ritornando, dunque, alla domanda: i patimenti della minoranza cristiana in M.O. volgono al termine? Direi di no! Una cosa è certa però da credente so che alla base c’è un disegno buono della Provvidenza che sa volgere al bene anche il male non voluto. Questa certezza o meglio speranza genera nel popolo cristiano un perfuso senso d’ottimismo che rimane insieme alla Fede la struttura portante della sua resilienza (tanto per usare una parola che va di moda)”.

Anche dal punto di vista della stabilità politica nella regione il dialogo interreligioso promosso dal pontefice rappresenta un aspetto non di poco conto, l’incontro con l’ayatollah al-Sistani può servire a cambiare qualcosa?

“Al di là delle visite un po’ folkloristiche di tutti i Rappresentanti delle religioni del mondo che si sono svolte ad Assisi, direi che fino a quando rappresentanti dell’Islam non contraccambieranno in Vaticano le visite papali, recando effettive novità al rapporto interreligioso, temo che queste visite apostoliche servano quasi esclusivamente alle comunità cristiane. Temo infatti che, al di là della cortesia ed ospitalità offerta, la mentalità mussulmana interpreti queste visite come un tributo, un omaggio a sé dovuto o poco più. La cultura del perdono è un patrimonio cristiano, oserei dire cattolico, questa virtù, veramente difficile, alberga poco tra le altre religioni specialmente se dovesse essere esercitata verso “estranei”.

L’altro risultato cercato è un’autentica crociata, l’affermazione dell’esistenza di un Dio! Ciò certo accomuna i capi religiosi contro il dilagante agnosticismo, ma sappiamo quanto gestione politica e religione siano una cosa sola per l’Islam e quanto tutto ciò non esista più nel mondo occidentale”.

L’ascesa che pareva irrefrenabile del Califfato è un incubo passato, ma a quale prezzo?

“Il Califfato dell’Isis ha spadroneggiato dove e fino a quando ha fatto comodo a chi veramente muove i pezzi sulla scacchiera degli inconfessati interessi mondiali, quando non è servito più è stato spazzato via, e questo si sapeva fin dall’inizio, con la buona pace delle innumerevoli vittime innocenti.

Fatta questa premessa, si apre un capitolo a parte sui Curdi. Sono stati gli unici capaci di difendere ed osteggiare l’apparente strapotere Isis in Iraq, per difendere la propria entità etnica. Duhok è a 45 Km da Mossul, dei tre governatorati curdi è quello che ha sostenuto il confronto più ravvicinato con l’Isis, praticamente vivevamo nelle retrovie di uno scontro quotidiano tra i Peshmerga e le bandiere nere dell’Isis, eppure la vita in quella città ha continuato a svolgersi come prima, la compattezza della popolazione non ha permesso nessuna infiltrazione, nessun attentato. Per l’ennesima volta il popolo Curdo è stato ingannato dall’Occidente e così per vari interessi e convenienze le promesse fatte, una volta spazzato via l’Isis, sono state disattese. Un popolo di 45 milioni di persone diviso tra quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, continua a vivere, bistrattato e non riconosciuto. Tutto ciò aprirebbe un discorso a parte, ma come accennavo poc’anzi, anche le profonde divisioni interne, una volta scampato il pericolo Isis, hanno minato le legittime aspettative curde”.

Come si è mossa la cooperazione italiana in questi difficili anni?

“La Cooperazione italiana, è presente in Iraq dalle guerre del Golfo, prima per sostenere le popolazioni provate dal conflitto e per aiutare la ricostruzione del paese, successivamente, a Nord nel Kurdistan, per contribuire all’organizzazione della concessa autonomia (prima della guerra con l’Isis) ai tre Governatorati Erbil, Sulaymaniyah e Duhok. Personalmente ho prestato servizio nel lasso di tempo prima e durante il conflitto con l’Isis. Il nostro lavoro è consistito nel supporto alla Sanità del Governatorato di Duhok. In una prima fase offrendo il know how alla riorganizzazione e modernizzazione del servizio sanitario, quando i dividendi del mercato del petrolio parevano offrire al Kurdistan la necessaria disponibilità finanziaria, poi, svanita questa risorsa, a sostenere con personale e mezzi il servizio sanitario e l’assistenza ai numerosissimi profughi siriani ed iracheni. Il Governatorato di Duhok non ha lesinato aiuti ai profughi inserendoli gratuitamente nell’assistenza del proprio servizio sanitario, e permettendo, a differenza degli altri governatorati, la libera circolazione dei profughi nel proprio territorio. Appena fuori dalla città di 250.000 abitanti c’era un campo profughi di 80.000 persone…”

* Antonio Aloi. Medico chirurgo. Già direttore UTL di Gerusalemme e della sede di Kampala. Ha svolto incarichi di prestigio quale delegato presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, referente all’UNAIDS e presso l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA. In Iraq è stato rappresentante per l’AISPO.

MISSIONE ABRAMO PER FRANCESCO

Il primo viaggio evangelico di papa Francesco nell’era della pandemia è ormai prossimo, destinazione Iraq. Arrivo in Medioriente il 5 Marzo e ritorno a Roma il giorno 8. Tour dalle mille criticità. L’incontro con i fedeli a Baghdad, le tappe a Najaf, Nassiriya e Qaraqosh. La messa conclusiva domenica 7 marzo a Erbil. La parola sicurezza è quella che determinerà se il viaggio verrà cancellato o meno nelle prossime ore. Se così non fosse quello che ci attende è una visita in modalità Bergoglio, piena di messaggi dal forte valore simbolico. A partire dall’incontro interreligioso previsto presso la Piana di Ur, luogo della nascita secondo la tradizione biblica del profeta Abramo. Comune radice per cristiani, ebrei, musulmani e baha’i. Religioni monoteiste o del Libro e per estensione anche abramitiche. Non a caso il nome di Abramo è stato recentemente legato all’accordo di pace tra Israele e diversi Stati arabi, dal Marocco al Bahrein. Abramo identificato quindi come capostipite della fede. Per il Cardinal Martini: “primo esempio drammatico di obbedienza della mente”. L’altra lettura invece lo vuole espressione di totale asservimento che sfocia nella cieca schiavitù. Sono le due facce del modello Abramo, una che porta al dialogo e l’altra alla violenza religiosa. Quale di questi due percorsi ha intrapreso il Pontefice è noto. Come del resto ben sappiamo quale strada disseminata di sangue hanno lasciato in questi anni i seguaci del fondamentalismo jihadista. Due visioni opposte, quella del “Siete tutti fratelli” voluto da Francesco come motto-logo del viaggio apostolico e quella dello strumento delirante della “guerra santa” dell’Isis per rifondare il califfato. Un regno infernale da dove non solo i cristiani, quando hanno potuto, sono stati costretti a fuggire, dopo una millenaria presenza. E ai quali Francesco dedica questo pellegrinaggio dai tanti risvolti politici. Il faccia a faccia a Najaf con la massima autorità sciita in Iraq ovvero l’Ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani potrebbe aprire un capitolo nuovo nelle relazioni tra il Vaticano e il mondo sciita. Al-Sistani gode di ampia credibilità internazionale. Investito di una forte presa sulla popolazione, è considerato politicamente un moderato. Leader molto rispettato sia dalla comunità sunnita che curda, svolge un ruolo determinante negli attuali assetti politici dell’Iraq post Saddam Hussein. È stato di fatto l’artefice della caduta di due primi ministri Nuri al-Maliki e Abdel Abdul Mahdi, e il vero perno del governo di “transizione” di Ayad Allawi, nominato dalle forze di occupazione. Al-Sistani ha resistito, almeno per ora, al tentativo di essere marginalizzato da parte della corrente di Muqtada al-Sadr. Altra figura chiave dei giochi di potere a Baghdad. A capo dell’ala più militante. Ha lanciato la “resistenza” armata contro “l’invasore” statunitense e non teme l’Iran. Figura scomoda. Intanto, papa Francesco in questo periodo di lockdown e quaresima ricorda che “non si dialoga con il Diavolo”.

UN REFERENDUM PER IL KURDISTAN

Il Kurdistan ai seggi per la storia. Tra guerra all’Isis e aspirazioni separatiste dall’Iraq, a Erbil si sogna l’indipendenza. Il risultato dello scrutinio si saprà nelle prossime ore, ad urne ancora aperte, si è scatenata una reazione tesissima sul piano internazionale. Anche se il referendum democratico non ha carattere giuridicamente vincolante, l’alta partecipazione popolare alla richiesta di creazione di uno stato, di cui non sono chiari i confini, ha posto la leadership curda in una posizione critica. Lo spazio aereo della regione è stato praticamente sigillato. Truppe irachene e turche si stanno ammassando ai confini. A contestare il voto non solo Turchia, Iran e Iraq. Gli Stati Uniti, la Russia, l’ONU e l’UE esprimono dubbi sulla modalità, per l’assenza di negoziati diretti con la controparte. L’unica voce fuori dal coro è quella di Israele. Le bandiere con la stella di Davide hanno spesso sventolato, al fianco di quelle curde, durante le manifestazioni nelle città liberate dalle milizie nere dell’Isis. E Benjamin Netanyahu non ha mancato di far sentire il proprio sostegno agli “sforzi legittimi del popolo curdo per raggiungere il proprio stato”. Un’alleanza strategica per Gerusalemme in chiave anti-iraniana. Un alleato prezioso da elevare al rango di stato autonomo nel caotico scacchiere Mediorientale. Il nazionalismo curdo non ha radici storiche antiche, è fatto risalire al XVII secolo, ma è sul finire del XIX che il movimento per la creazione di una nazione indipendente prende forma e coscienza. La questione curda nel corso degli anni è andata caratterizzandosi come movimento transnazionale, trasformandosi in un problema regionale con effetti globali. Per questa ragione gli stati confinanti ritengono la secessione inammissibile: un sogno da reprimere con tutti i mezzi, inclusa la forza. Il crescente “pericolo curdo” è alla base del riavvicinamento geopolitico tra il regime degli ayatollah e il sultano Erdogan, avvenuto negli ultimi mesi. Il plebiscito popolare, quindi, non porterà acque tranquille in una regione pervasa dalla violenza atavica, dall’odio tra etnie e clan. La disgregazione di una nazione, quella irachena, è il preludio a nuove instabilità. Con una cartina geografica che quasi nessuno vuole modificare, almeno per ora.La guerra contro l’Isis ha visto giovani, uomini e donne, imbracciare il fucile e combattere per difendere le proprie case. Le vittorie sul campo, grazie al diretto contributo e all’assistenza straniera, hanno permesso ai curdi di ampliare la sfera di controllo su una vasta fetta di territorio a cavallo tra Siria e Iraq. La conquista di Mosul, seppure ha rappresentato il culmine del conflitto contro il Califfato, è stato il motivo che ha affievolito il supporto e l’attenzione internazionale. Il ribaltamento della situazione militare sul campo ha persino convinto il Pentagono a ridurre gradualmente la presenza nella regione dei propri soldati. La exit strategy della Casa Bianca è dovuta principalmente alle pressioni di Turchia e Iraq. Anche se Baghdad è molto più dialogante di Ankara con i separatisti. Comunque, pur in un quadro in continuo cambiamento il referendum presenta delle certezze: il Kurdistan staccandosi ridurrebbe il peso e il potere del governo centrale di Baghdad. Ma, soprattutto, espandendosi nella provincia di Kirkuk avrebbe il controllo sul 40% circa delle fonti di petrolio iracheno. Tuttavia, molte sono le incertezze, a partire dal futuro delle minoranze che risiedono in quelle terre: arabi, turkmeni e cristiani. Per finire con la visione, più o meno concreta, di annettere al futuro stato le zone del nord della Siria finite in mano ai miliziani curdi.La diatriba sorta all’indomani della bandiera curda issata sul municipio di Kirkuk, al posto di quella irachena, era solo l’inizio di una disputa destinata ad esplodere, con il passaggio referendario siamo alla vigilia di qualcosa che potrebbe sfociare in nuovi conflitti.