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IN SIRIA LE ELEZIONI FACILI, TROPPO FACILI

Le immagini del dittatore siriano Bashar al-Assad mentre, sorridente davanti alle telecamere, ripone la scheda elettorale nell’urna, è la rappresentazione della farsa tragicomica andata in scena in Siria. Non stupisce che a fare da sfondo alla sua apparizione pubblica, come nella migliore tradizione dei regimi, il presidente abbia trovato una folla festante che lo ha accolto all’arrivo al seggio, dove si è recato guidando la sua auto privata. Nel tentativo di mostrarsi come un cittadino qualunque, un politico amato dal suo popolo e non un uomo cinico, che in questa ultima decade ha ordinato bombardamenti, arresti, torture e uccisioni.

Se queste elezioni – caldamente sconsigliate dalle Nazioni Unite ma “monitorate” da stati che non brillano certo per libertà, democrazia e diritti – dovevano mostrare il ritorno alla normalità beh scordiamocelo. La Siria è di fatto un paese diviso in tre zone: un’area, la più estesa, sotto il governo di Damasco, una enclave nel nord in mano ai ribelli e infine una porzione controllata dai curdi. Il recente processo elettorale ha ovviamente riguardato i lealisti a Damasco. E alla fine il risultato, non accettato da Europa e USA, è stato emblematico ed esaustivo: Assad ottiene il 95% dei voti scrutinati (nelle precedenti aveva preso “solo” l’88,7%). Un plebiscito, bulgaro. Alla cerchia di potere alawita, che non vuole perdere la propria rendita, piace vincere facile, e per sfidanti si sono scelti due figure minori, che non impensierissero troppo il partito Baath del presidente. Il candidato Abdullah Salloum Abdullah aveva già ricoperto ruoli ministeriali in passato e la sua formazione socialista è nella coalizione di governo. Abdullah ha ottenuto una manciata di voti, 1,5%. Poco meglio ha fatto l’altro sfidante Mahmoud Mar’i, raccogliendo il 3,3% delle schede a suo favore. L’avvocato Mar’i, membro dell’opposizione interna ad Assad, è delegato alla Commissione costituzionale per la Siria di Ginevra. Secondo quando annunciato ufficialmente l’affluenza è stata del 78% e i partecipanti 14 milioni. Numeri dubbi, per un voto che di giusto non ha niente.

Assad inizia così il suo quarto continuativo mandato e un nuovo settennato, con una guerra civile lunga e dolorosa non ancora completamente alle spalle. Si stima i deceduti dal 2011 ad oggi siano più di mezzo milione. 11 milioni sono gli sfollati, la metà rifugiata in Turchia, centinaia di migliaia un po’ in tutto il mondo. L’altra metà di coloro che hanno abbandonato la propria casa continua a vivere in territorio siriano, un terzo sono bambini. Quasi il 90% della popolazione è in condizioni di povertà cronica. Le speranze di ripresa economica per il 2021 non sono rosee, le sanzioni statunitensi e gli effetti della crisi finanziaria del Libano potrebbero incidere pesantemente. Inoltre, la pandemia ha colpito le rimesse dei siriani all’estero, e l’invio di aiuti si è ridotto. Assad avrà vinto le elezioni confezionate su misura per lui, ora però ci sono due creditori che aspettano alla porta, Russia ed Iran.

RESPONSABILITA’ O UMILIAZIONE?

“No all’indifferenza” non si stanca di ripetere Papa Francesco ai fedeli. Questa volta però le parole d’accusa pronunciate dal pontefice durante la Messa nella domenica delle Palme hanno come destinatari le istituzioni europee: “ penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Parole pronunciate a braccio che segnano uno scollamento tra la Santa Sede e l’Ue. Piazza San Pietro non è le stanze di Bruxelles e sul sagrato non si plaude al nuovo piano sui migranti, al contrario la Chiesa di Roma alza la voce, la protesta. Ci aveva già pensato il segretario di stato cardinale Parolin, visitando un campo profughi in Macedonia, a tuonare contro l’accordo Europa-Turchia: “dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto”.

Ragioni e implicazioni invitavano a valutare attentamente le richieste turche. Alla fine tra i 28 leaders europei ha prevalso la linea di Berlino anche sull’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Pesanti critiche sono state espresse, in queste ore, da parte di molte Ong che invocano a gran voce maggiore solidarietà e rispetto dei diritti umani: ad alimentare il dibattito l’opzione stilisticamente “burocratica” di Bruxelles del baratto “uno per uno” e un piano che realisticamente deve essere messo alla prova. Così come l’affidabilità e la maturità della Turchia di Erdogan. Intanto dalla Grecia arriva la notizia di altri sbarchi e soprattutto che Atene non è assolutamente pronta a rinviare in Turchia i migranti. Partenza con il piede sbagliato che evidenzia, ad ora, l’impossibilità europea ad offrire una soluzione umanitaria all’emergenza.

In cinque anni di guerra civile la Siria ha originato una massa di rifugiati impressionante, oltre quattro milioni sparsi lungo tutto i confini dei paesi del Mediterraneo. Un flusso continuo che si è riversato, in gran parte, negli stati confinanti: Turchia, Libano e Giordania. Circa il 4% dei rifugiati siriani invece ha intrapreso il viaggio verso l’Europa. Molti sono oggi accampati nelle tendopoli dei campi profughi, il resto ha scelto le periferie delle città del Medioriente, da Amman a Beirut. Dove illegalmente e pagati poco trovano lavoro come bassa manovalanza nel settore manifatturiero, privati di assistenza e senza l’aiuto internazionale. Marginalizzati e sfruttati. In contesti socio-abitativi insostenibili. La richiesta più volte espressa dall’ONU di fare il possibile per integrare i rifugiati nella società turca, libanese e giordana non ha ottenuto esito favorevole. Respinta da parte dei tre governi che hanno obiettato forti resistenze, esprimendo un giudizio caustico: i rifugiati sono un elemento di pericolosità per essere assorbiti, in contesti particolarmente fragili alle turbolenze etniche. Secondo le ultime stime sono 60 milioni nel mondo gli sfollati, uno su sei è siriano. Tra loro una larga presenza di giovani, istruiti e con specifiche competenze tecniche, una generazione intera. Non una minaccia alla sicurezza internazionale ma un nuovo potenziale mercato del lavoro in grado di generare opportunità e positive ricadute economiche, come accadde per i migranti europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per l’Unione Europea la crisi di Damasco è un bruciante fallimento su tutti i fronti, dalla gestione dei rifugiati alla stabilizzazione della regione. Il volume di persone che il persistere ancora per anni della crisi siriana potenzialmente potrebbe “sparpagliare” fuori dai suoi confini, indirizzandoli verso il Vecchio Continente, è considerevole. Il “panico e la paura” di veder arrivare una marea umana hanno convinto gli stati europei ad approvare il pacchetto di misure fortemente voluto da Erdogan, nell’ottica che la Turchia possa tamponare l’esodo dei migranti. Peccato che potrebbe, invece, continuare a bombardare i curdi.

#SAVEYARMOUK

Siria. Periferia di Damasco. Quartieri proletari della capitale. Nel campo profughi di Yarmouk, cuore della comunità palestinese in Siria che contava 150 mila presenze. “Mancano le condizioni minime per poter fornire assistenza umanitaria in una situazione d’emergenza totale.” Sono state le parole con le quali il portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite Chris Gunness ha fotografato la realtà, aggiungendo: “Questa situazione mette a serio rischio la vita di 18 mila persone, donne e bambini palestinesi e siriani.” Ma vediamola meglio questa realtà dove migliaia di palestinesi sono intrappolati nel campo profughi, vittime del conflitto e delle barbarie dell’ISIS.
In Medioriente in questo mese di aprile la primavera tarda ad arrivare e le condizioni climatiche come quelle umanitarie girano al peggio: cibo, acqua sono razionati da giorni. Per scaldarsi e cucinare vengono bruciati mobili e vestiario, c’è chi ha dovuto dar fuoco al letto, alla porta di casa, alle finestre, sedie e quant’altro possa alimentare le fiamme. L’acqua scarseggia, il freddo inverno con temperature sotto lo zero ha fatto esplodere le tubature, al momento in media per famiglia sono disponibili 20 litri di acqua ogni cinque giorni. Interi edifici sono stati danneggiati gravemente nei bombardamenti. Mancano i medicinali di prima necessità. L’allarme viene dall’agenzia per le nazioni unite UNWRA, che ha lanciato una campagna sui social network, #SaveYarmouk chiedendo urgentemente l’apertura di un corridoio umanitario. La comunità internazionale ancora una volta tarda ad intervenire e la situazione è insostenibile: siamo al limite di una catastrofe umanitaria. Dal 28 marzo, infatti, gli operatori delle Nazioni Unite non sono in grado di distribuire generi di prima necessità nell’area di Yarmouk. Il campo profughi è tagliato fuori dal mondo, assediato dalle forze dell’ISIS, a nulla è valso il recente appello ad interrompere le ostilità e rispettare gli obblighi di garantire la protezione dei civili. La guerra del Califfato non prevede il rispetto del genere umano, purtroppo l’abbiamo scoperto noi europei anche a nostre spese e al momento un intervento internazionale pare l’unica soluzione per proteggere i civili.
Agenzie d’informazione internazionali in queste ore hanno annunciato che le principali fazioni palestinesi presenti in Siria hanno raggiunto un accordo e concordato di operare congiuntamente con l’esercito governativo siriano contro l’esercito dell’ISIS. Mentre da Ramallah l’OLP ha rifiutato di prendere parte in un’azione armata di qualsiasi tipo. Intanto guerriglieri palestinesi, per proteggere i propri civili, sono impegnati in una resistenza strenua, casa per casa, strada per strada. “Abbiamo deciso di avere una cooperazione permanente con il governo siriano.” Ha detto Ahmed Majdalani inviato speciale del presidente palestinese Abu Mazen a Damasco che poi ha aggiunto: “lavoreremo con la Siria per ripulire il campo profughi dai terroristi”. La smentita è giunta da Ramallah poco dopo le dichiarazioni di Majdalani, confermando una spaccatura netta all’interno del fronte palestinese, vedremo nelle prossime ore quanto la posizione presa dall’OLP verrà accettata dai palestinesi che vivono in Siria. Sin dall’inizio del conflitto le fazioni palestinesi avevano optato per tenere una posizione di neutralità. Non è servito a nulla. La guerra non risparmia nessuno in questa regione, in particolare chi chiede di essere lasciato vivere in pace. Secondo le prime stime sarebbero almeno 200 i morti per malnutrizione e mancanza di medicinali a Yarmouk. Una cinquantina invece i guerriglieri palestinesi uccisi in combattimento dalle forze dell’ISIS in questi giorni. “Gente innocente è utilizzata come scudi umani dalle parti in conflitto” ha affermato Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea. Mentre e non va sottovalutato, nella Striscia di Gaza avvenivano le prime manifestazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi di Yarmouk.

Una telefonata non allunga la vita…

Una telefonata non allunga la vita. E non stiamo parlando dell’implicazioni connesse all’uso scorretto del cellulare quando siamo alla guida della nostra vettura, ma del fatto che le tecnologie attuali permettono di rintracciare il punto di provenienza di una chiamata e l’intelligence è in grado di spedire sul posto un paio di missili in pochi minuti, eliminando il possessore del telefonino e distruggendo ciò che lo circonda. Ovviamente la cosa non accade tutti i giorni e soprattutto non è così comune nelle nostre città. Mentre, è un evento che potremo definire tipicamente mediorientale. Sintomatico di un contesto di violenza esponenziale, non risparmia nessuno ovunque anche nel suo più sperduto angolo. Questa volta è successo sulle montagne del Golan in Siria. Dove i vertici militari iraniani e di Hezbollah che operano al fianco dei governativi nella guerra civile siriana sono stati decimati con un attacco aereo. La provenienza del bombardamento è inequivocabile, anche se ufficialmente Israele non ha rivendicato la paternità della missione. La cosa che ha fatto maggior scalpore è che nell’attacco abbia perso la vita un generale iraniano, Mohammed Ali Allahdadi era il comandante in capo delle forze militari di Teheran che combattono in Siria contro i ribelli. A Gerusalemme fonti non ufficiali hanno parlato di “malinteso”: il target sarebbe stato un’unità di combattimento che preparava un azione lungo la frontiera del Golan e non il generale pasdaran, questo secondo alcune voci di corridoio. Di tutt’altra idea la stampa libanese, per i quali il militare avrebbe inavvertitamente dimenticato il cellulare acceso in una zona monitorata dai servizi segreti israeliani pronti ad intervenire. Infine c’è chi ritiene che l’alto ufficiale fosse spiato nei movimenti da lungo tempo e che l’attacco fosse stato preparato ore prima. Tutti concordano nel dire che si è trattato di un messaggio a chiare lettere non per Beirut, non per Damasco, non per Teheran ma per Washington. Alla fine però la risposta armata è arrivata da Hezbollah. È piovuta lungo il confine che separa Libano e Israele. Un convoglio militare in perlustrazione è stato bombardato da Hezbollah. Due soldati israeliani morti. Una decina feriti. L’escalation dello scontro di frontiera ha provocato la morte di un soldato della missione internazionale UNIFIL, che vede impegnata anche l’Italia con un suo contingente di peacekeeping. Qualcuno dovrebbe ricordarsi che tra Hezbollah e Israele ci sono in mezzo soldati, di pace. Hanno un mandato preciso e una risoluzione delle Nazioni Unite la 1701. Le risoluzioni non andrebbero violate, intanto è tornata la calma lungo la frontiera di una guerra mai sopita.