SHOOT

In Medioriente storie di conflitto, violenza ed effetti “collaterali” drammaticamente si intrecciano. 30 novembre 2023. È mattina. Mentre la tregua della guerra a Gaza è in bilico, Gerusalemme è ancora una volta sotto attacco terroristico. Qualche decina di minuti prima dello scoccare delle otto le agenzie di stampa israeliane battono la notizia che medici e polizia sono impegnati alla periferia della città. Sul posto le ambulanze della Magen David Adom stanno prestando le cure a sei feriti. Le condizioni di alcuni sono gravi. Almeno due assalitori sono stati uccisi nello scontro. Secondo i media uno dei soccorritori intervenuti è un soldato in congedo, si scoprirà essere Aviad Frija, che stava facendo ritorno in prima linea. Nel filmato lo si vede in divisa insieme ad un commilitone uscire dall’auto con la sua arma in dotazione e correre verso i terroristi. Con il passare delle ore il numero delle vittime cresce. Hamas rivendica l’azione. Le immagini riprese dalle telecamere all’incrocio di Weizman street iniziano a circolare in rete. I terroristi sono stati identificati come due fratelli palestinesi residenti nel quartiere gerosolimitano meridionale di Sur Baher.
Yuval Doron Castleman, avvocato israeliano con un passato nei servizi di sicurezza, è stato il primo cittadino ad intervenire. É sceso dalla vettura che viaggiava in senso opposto, ha attraversato a piedi le corsie e sopraffatto i due attentatori. Poi ha gettato a terra la pistola che impugnava, si è aperto la camicia e inginocchiato a terra, alzando le mani in alto. Gridava non sparate. Invece, il sergente della riserva Frija ha premuto il grilletto del fucile.
Per gli avvocati del riservista: “I video dell’accaduto che sono stati pubblicati sui social network, e le diverse angolazioni delle telecamere, creano un’impressione parziale ed errata che non riflette ciò che si vede e sente dalla direzione del militare”. Aggiungono. “Dal posto in cui si trovava, e dai suoni che ha sentito, era convinto con tutto il cuore che stava sparando a un terrorista, che rappresentava ancora un potenziale pericolo”, concludono. ”Dopo aver ascoltato la sua testimonianza, non abbiamo dubbi che in queste insolite particolari circostanze, anche l’Ufficio della procura Generale Militare raggiungerà la chiara conclusione che, con tutto il pesante dolore per il terribile esito, questo è un tragico errore che non giustifica l’adozione di misure penali contro di lui”. Frija, per la cronaca, è stato arrestato. Nei precedenti casi in cui i soldati dell’IDF si sono trovati in simili situazioni, infrangendo le regole di ingaggio e provocando la morte di un palestinese, solitamente l’accusa non è mai stata di omicidio di primo grado, ma semplicemente colposo. Con la conseguente condanna che amministrativamente comporta una pena inferiore ai due anni, addirittura anche solo poche settimane di carcere. A morire però questa volta è stato un israeliano.
Il dibattito politico si accende. Il premier Netanyahu quello stesso giorno in tarda serata dichiara: “La realtà dei civili armati è che molte volte salvano vite e prevengono un disastro maggiore. Nella situazione in cui ci troviamo questo metodo dovrebbe essere perseguito. Pur avendo da pagare un prezzo, questa è la vita”. Il riferimento era sia all’uccisione di Castleman sia alla linea politica introdotta dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che prevede di allentare le restrizioni sulle licenze di armi da fuoco (260 mila sono quelle che sono state rilasciate dopo gli eventi del 7 ottobre).
Ma lo scivolone sul “così è la vita” scatena un’alzata di scudi. Protesta Moshe Castleman, padre della vittima, che critica aspramente il commento, invitando il “falco” della destra a guardare i video prima di parlare. “[Mio figlio] ha seguito tutte le procedure in modo da poter essere identificato. Si è inginocchiato, ha aperto la giacca per mostrare che non aveva esplosivi addosso, ha urlato: “Non sparate, sono ebreo, sono israeliano”. E invece hanno compiuto una vera e propria esecuzione”. A quel punto Netanyahu (che non ne azzecca più una) accortosi dell’errore di comunicazione torna sui propri passi. Chiama al telefono Castleman: “Suo figlio è un eroe israeliano. Yuval, in un atto di supremo coraggio, ha salvato molte vite, ma sfortunatamente si è verificata una terribile tragedia”. Il leader del Likud promette di andare fino in fondo con l’indagine dei fatti. Intanto, il presidente Isaac Herzog, con il suo stile mite e riservato, si presenta personalmente a casa della famiglia Castleman per rendere le sentite condoglianze. “Sono qui non solo come individuo, ma come presidente dello Stato di Israele, per chiedere perdono ed esprimere enorme apprezzamento a un eroe israeliano che ha fatto una cosa grande e coraggiosa”. Herzog va oltre le scuse e dice quello che pensa sull’intera questione della “liberalizzazione” delle armi fortemente voluta dall’estrema destra al governo: “Non dobbiamo aver paura di parlarne, di mettere la questione sul tavolo”.
Sentitosi chiamato in causa, e non perdendo occasione per tacere o andare a passeggiare provocatoriamente sulla Spianata delle moschee, Ben-Gvir ha replicato: “Sapevamo di avere ragione quando dicevamo che ogni luogo dove c’è una pistola può salvare una vita”. Il politico nazionalista chiarisce: “stiamo fornendo 3.000 licenze al giorno”, rispetto alle poche richieste prima del pogrom del 7 ottobre.
Per Israele liberarsi dalla paura provocata da quell’evento è impossibile, almeno per ora. La corsa alle armi è una reazione che ci si poteva attendere. Trasformare lo stato in un far west comunque non risolve il problema e in questo momento andrebbe evitato.

K DI KISSINGER

Tra le tante memorie che stanno condendo il ricordo del grande e discusso statista Henry Kissinger ce ne è una che merita di essere ricordata, proprio in questi giorni di violenza. Quando nel 1973 scoppiò la guerra dello Yom Kippur, la premier Golda Meir si rivolse alla Casa Bianca, chiedendo consistenti aiuti militari. Il conflitto con l’avanzata degli eserciti arabi aveva preso una brutta piega per Israele, che stava rischiando di perderlo in modo catastrofico. Passarono diversi giorni prima che gli Usa lanciassero in soccorso degli alleati un massiccio ponte aereo, composto sostanzialmente dai rifornimenti richiesti. Per anni ha prevalso l’idea, o meglio la sensazione, che l’amministrazione Nixon, e quindi il suo consigliere più fidato, il segretario di stato Henry Kissinger, avessero deliberatamente ritardato l’invio di armi per ragioni che sono oggetto di dibattito storico. Secondo questa lettura una parte delle colpe del ritardo sarebbero sia imputabili a James Schlesinger, il segretario alla Difesa, che all’atteggiamento “machiavellico” dello stesso Kissinger.
Recenti studi hanno invece messo in luce una diversa spiegazione dei fatti, adducendo che la lentezza della tempistica era dovuta alla logistica per l’invio di materiale bellico sul fronte mediorientale. Alcuni storici hanno persino evidenziato difetti nella comunicazione tra Washington e Gerusalemme, dove ci sarebbe stato più di un fraintendimento sull’urgenza dell’operazione.
Cosa accadde realmente è nascosto in una famosa storiella, che passa da tanti anni ormai di bocca in bocca. Si dice, che nel corso di una drammatica riunione del gabinetto di guerra Golda Meir chiamò personalmente Kissinger, per premurarsi dell’appoggio militare di cui aveva disperato bisogno. Leggenda narra che la telefonata fu piuttosto burrascosa, e volarono parole grosse. Che tra i due non corressero buoni rapporti era cosa risaputa. L’ammirazione che Henry mostrava pubblicamente nei confronti di Golda non era ricambiata, per vari motivi. A partire dalla differente visione sull’Urss. D’altro canto il demiurgo della geopolitica internazionale dichiarerà, intervistato, che il suo interlocutore preferito fosse Yitzhak Rabin.
Quanto Meir, convinta socialista, non stimasse troppo il Richelieu statunitense è oggetto persino di una famosa frecciata al presidente Richard Nixon, reo di averle ricordato che in comune avevano due ministri degli Esteri, entrambi ebrei. Sentita l’affermazione rispose senza peli sulla lingua che l’allora ministro israeliano Abba Eban (educato a Cambridge) però parlava perfettamente inglese, alludendo al fatto che Kissinger, nato in Germania, si esprimeva nella lingua anglosassone ancora con marcato accento tedesco.
Ritornando a quel colloquio di 50 anni fa, che forse cambiò le sorti della guerra, ad un certo punto della chiamata la “lady di ferro” avrebbe tuonato: “Le ricordo che è un ebreo come noi!”. Kissinger indispettito replicò: “E io le ricordo che prima di tutto sono un cittadino statunitense, poi sono il segretario di Stato e infine sono anche ebreo”. Pronta la risposta di Meir: “Appunto, caro Kissinger. Come sa benissimo, in Israele leggiamo da destra a sinistra”. E riattaccò il telefono. Poco dopo alla chetichella gli aiuti arrivarono e la guerra fu vinta. Fine della barzelletta, inizio della storia.

PAUSA

E venne la tregua. Concordata. Raggiunta grazie alla mediazione dall’alto. Via libera allo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Oggi non si combatte, ma presto le ostilità riprenderanno da dove le abbiamo lasciate. Quando il conflitto israelopalestinese sarà tornato alla sua “assurda normalità”, e prima o poi accadrà, ci troveremo davanti ad un quadro ancora lontano dalla pace. Israele una volta vinta la guerra contro Hamas dovrà decidere che cosa fare di Gaza e che rapporti avere con l’Autorità nazionale palestinese. Al momento non è chiaro quale sia la soluzione “migliore” da adottare. Se da un lato la direttiva militare è incanalata a sradicare i terroristi (e il loro apparato), dall’altro è nebulosa la prospettiva di avere una controparte palestinese che amministri il territorio, un partner con cui dialogare e cooperare. Evitando in questo modo di finire impantanato in una occupazione, a tempo indeterminato, dell’intera Striscia di Gaza o di sue porzioni. Le tante, e forse troppe, idee che circolano (dalla frammentazione territoriale in stile emirati ad una forza di interposizione sul modello Libano) sono il segno dell’assenza di un progetto sostenibile, e ciò purtroppo fa gioco ad Hamas.

Alcuni paesi arabi e l’Occidente premono, da settimane, per un futuro ritorno dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza (da cui è fuggita a gambe levate nel 2007). Una scelta che di per sé verrebbe da dire naturale, se non fosse che la Muqata di Ramallah (il palazzo presidenziale e dimora di Abu Mazen) è invisa alla maggioranza dei palestinesi, percepita come organo di una dirigenza nepotistica e corrotta. Inalterata resta invece l’immagine di Arafat, che di questa deprimente deriva fu l’artefice principale e causa. Sua la firma sulla strategia terroristica dell’ala armata di Fatah nella Seconda Intifada. In sua vece a sporcarsi le mani di sangue di civili israeliani fu Marwan Barghouti. Della figura di Barghouti il rais se ne liberò quando il suo protetto era diventato troppo ingombrante. La divergenza con la corrente di Abu Mazen (punto di riferimento della potente nomenclatura dei funzionari dell’OLP di ritorno dall’esilio in Tunisia) era sfociata in una rottura interna, insanabile. Barghouti oggi è recluso in prigione in Israele, dove sconta cinque ergastoli. Di lui si parla come potenziale leader unificante. Innegabile che goda di diffusa popolarità e carisma. Un palestinese su tre dichiara che voterebbe per lui. La sua liberazione, che non crediamo sia imminente, avrebbe come primo scopo l’epurazione della stretta cerchia di Abu Mazen. Chiamatela pure vendetta ma è quanto Barghouti ha giurato a coloro che considera i suoi traditori. Che sia una personalità in grado di comandare sono in molti a crederlo. La sua scarcerazione è una patata bollente.

L’altro candidato alternativo all’establishment della Muqata per la futura gestione di Gaza, anche lui cresciuto sotto l’ala di Arafat e fuori dalle grazie di Abu Mazen, è Mohammed Dahlan. Un passato da esponente di spicco di Fatah. Uomo forte nella città di Khan Yunis. Capo indiscusso della sicurezza a Gaza fino a quando non ha perso il controllo della Striscia per l’insorgere di Hamas. Con la barca che affondava ha tolto le tende. Ritirandosi il più lontano possibile, vive nel lusso ad Abu Dhabi. Dietro la sua nomina (su cui aleggiano dubbi non solo alla Casa Bianca) ci potrebbe essere la convergenza tra Israele, Egitto ed Emirati. Non poco geopoliticamente ma non abbastanza per impiantarlo stabilmente al potere. Lui comunque non si nasconde. Prima di muoversi chiede però solide garanzie.

Un nome su cui si rumoreggia è Mustafa Barghouti, uomo di sinistra, noto medico e convinto fautore dell’azione non violenta. Non è una novità del panorama politico palestinese. Nel 2005 con l’appoggio del Fronte Popolare ha sfidato nelle urne per le presidenziali gli eredi di Arafat, superando la soglia del 20%. Fu un successo inaspettato, falsato dalla mancata partecipazione al voto di Hamas. Alle legislative dell’anno seguente il suo movimento crolla sotto il 3%. Nel corso degli anni ha perso smalto. Le competenze, la dialettica, la storia avrebbero potuto fare di lui un vero trascinatore, così non è stato. Pensare di recuperarlo per questa missione impossibile potrebbe essere una soluzione che accontenta tutti o quasi.

Se invece si volesse rompere completamente lo schema nella ricerca del potenziale leader e andare oltre, l’unica cosa che ci viene in mente è compiere un volo pindarico. Ovvero tirare fuori dal cilindro chi viene dalle fila dei palestinesi israeliani. A questo proposito ci vengono in mente due nomi di politici pragmatici, che potrebbero svolgere una funzione attiva. Ayman Odeh, parlamentare nella Knesset, marxista e guida di Hadash. E Mansour Abbas, deputato ed esponente della forza islamica Ra’am. Il primo è ideologicamente antisionista, il secondo incline al compromesso. Parlano ebraico e arabo, sono israeliani e si sentono palestinesi, hanno indubbia “familiarità” con il contesto. Su una cosa sono chiari, la necessità della coesistenza pacifica e la fine dell’occupazione.

L’ARCO POLITICO DI NETANYAHU FINIRA’ CON UNA COMMISSIONE

Benjamin Netanyahu è un politico sull’orlo di un abisso esistenziale. La sua “monarchia” trema. Nella storia è caduta la famiglia Ceausescu, in Romania, e prima ancora abbiamo assistito al crollo della dinastia Somoza, in Nicaragua. “Bibi” però non è un dittatore. È un populista di destra, propugnatore visionario di un nuovo sistema di democratura 2.0, e forse un corrotto, ma questo spetta chiarirlo al tribunale di Gerusalemme.

C’è chi pensa, e sono in molti, che la sua longeva carriera sia arrivata alla fine. E chi è convinto invece, e sono in pochi, che proclamandosi leader del mondo occidentale nella guerra al terrorismo possa ribaltare le sorti del suo destino, segnato per sempre da quel tragico 7 ottobre. “I due punti più bassi del Pianeta sono in Israele: il Mar Morto e il comportamento di Benjamin Netanyahu. Uno è una meraviglia della natura, l’altro un errore politico”. Così Alon Pinkas su Haaretz. “Bibi” negligente e arrogante. Altre, tante, le critiche che gli piovono addosso dal quotidiano progressista di Tel Aviv. Nehemia Shtrasler chiarisce: “Benjamin Netanyahu è in stato confusionale. È nel panico. Non è adeguato. Ma non a causa dell’orribile debacle di cui è responsabile. Non per le 1.400 persone che sono state massacrate nei modi più brutali. È in preda alla paura per le crescenti pressioni su di lui affinché si dimetta, subito”. E qui il dibattito prende svariate forme. L’entrata in scena di Gantz, e la nascita di un governo di emergenza, sono evidenti segnali di sbandamento dell’asse della Knesset sempre più spostato verso il centro. In questa delicata fase, più che depotenziato il falco del Likud pare essere stato messo sotto attenta osservazione, sia dall’esercito che dalla Casa Bianca. Dove si pensa, ma ancora non si dice, che rappresenti un serio ostacolo al processo di pace.

“Vorrei essere ricordato come il protettore di Israele. Mi basta questo”. L’epitaffio di Mr Sicurezza, che lo stesso Netanyahu ha scelto, è da riscrivere. Yair Rosenberg in The Atlantic scrive: “Quella promessa è stata irrimediabilmente infranta. Il mito che Netanyahu ha assiduamente coltivato riguardo alla sua leadership è stato smascherato”. Ha fallito miseramente, e badate bene il caso non è chiuso. Una volta terminata la guerra, per Israele ci sarà un’inchiesta approfondita, alla ricerca delle colpe. È avvenuto nel ’73, dopo il conflitto dello Yom Kippur. Quando la commissione Agranat rimproverò militari e intelligence, chiedendo rimozioni e allontanamenti. Esente da ogni valutazione fu la politica. Che pagò, tuttavia, il diffuso malessere pubblico, l’11 aprile 1974 Golda Meir rassegnava le dimissioni. È successo nuovamente nel 1982, in seguito agli eventi di Sabra e Shatila quando il governo Begin incaricò il presidente della Corte Suprema Yitzhak Kahan di svolgere indagini sul massacro in Libano. Il rapporto fu una mezza assoluzione per l’allora primo ministro e per il collega di partito e capo della diplomazia Shamir. Ariel Sharon, ministro della Difesa, venne lasciato sulla graticola a cuocere. Ancora una volta l’accusa di negligenza e responsabilità finì sulla testa dei generali. Similari le conclusioni raggiunte dalla Commissione Winograd sulla campagna in Libano del 2006: “Nel periodo esaminato nel Rapporto finale – dal 18 luglio al 14 agosto 2006 – sono emersi risultati preoccupanti: Abbiamo riscontrato gravi mancanze e carenze nell’interfaccia tra il livello politico e quello militare; gravi lacune nella qualità della preparazione, del processo decisionale e delle prestazioni dell’alto comando dell’IDF. Difetti nella pianificazione strategica, sia a livello politico che militare. Abbiamo riscontrato errori nella difesa della popolazione civile e nel far fronte all’attacco con i razzi. Queste debolezze risalgono a molto prima della seconda guerra del Libano”. Nel complesso a destare incredulità fu che un’organizzazione allora semi-militare (e terroristica) come Hezbollah, di poche migliaia di uomini seppe fronteggiare, per alcune settimane, l’esercito più forte del Medio Oriente, “che godeva della piena superiorità aerea e dei vantaggi in termini di dimensioni e tecnologia”. Tutti assolti, per una guerra totalmente inutile e mai terminata.

Anche la prossima commissione sui fatti del 7 ottobre verosimilmente arriverà a conclusioni non dissimili da quelle precedenti, fermandosi ai militari e alle forze dell’intellingence come capro espiatorio. La certezza è che Netanyahu sarà travolto con loro. Come afferma la prestigiosa firma di Haaretz e dell’Economist Anshel Pfeffer: “Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu”.

BIBI E L’EREDITA’ DEL LIKUD

Chutzpàh è una parola ebraica che racchiude in sé diversi concetti, non solo negativi, ma che viene spesso riferita ad un atteggiamento sfrontato, impudente. È un termine yiddish entrato a far parte del linguaggio comune. La prima menzione nelle fonti classiche ebraiche si trova nella Mishna, in Masechet Sota 9:15. La frase è: “Nel periodo messianico la chutzpàh prevarrà”. L’altro significato è quello della regalità senza corona. Infine, l’esempio più colorito, quello dell’uomo che uccide i propri genitori e al giudice chiede clemenza, perchè orfano.
Se si passa alla politica di apostrofati chutzpàh ce ne sono tanti, ma a uno più di tutti calza a pennello, Benjamin Netanyahu. Bibi inequivocabilmente è, per la stampa, per i detrattori e gli avversari, per i fan o gli amici, il re dei chutzpàh. Grazie a questa naturale dote di sfacciataggine è stato capace di restare al centro del dibattito degli ultimi trent’anni della storia di Israele. Ha saputo rialzarsi da sconfitte brucianti. Ha ribaltato la società israeliana dalle fondamenta e modellato il Likud, il suo partito, a propria immagine. Ha traghettato la destra verso nuovi mari, per approdare infine al lato oscuro del nazionalismo populista, con la formazione del governo più a destra di sempre. Elevando al rango di ministri impresentabili razzisti.
na cosa che non ha mai fatto e forse minimamente pensato è indicare il suo successore. Poco probabile che passi il testimone al figlio Yair, a cui manca il quid. Vantava delle pretese dinastiche Benny Begin, figlio dello storico leader Menachem, che invece si è fermato al palo. Ehud Olmert c’era riuscito ma è scivolato penalmente su una buccia di banana, eliminandosi da solo dalla corsa. È stata ad un passo dall’accantonarlo in soffitta Tzipi Livni, ma con una “magia” politica Netanyahu si è liberato di lei. In ordine sparso si sono rivoltati contro di lui interi apparati del partito e stretti consiglieri: Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zvi Hauser, Zeev Elkin, Moshe Ya’alon, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Quest’ultimo ha fatto tremare il sogno di onnipotenza di Bibi, l’illusione è durata poco e il governo Bennett-Lapid è evaporato al vento. E così ancora una volta è tornato alla guida del paese.
L’ultimo capitolo della saga di Netanyahu, tuttavia, ha palesato criticità di fondo e responsabilità. La partecipata protesta della piazza del movimento pro-democrazia, iniziata a gennaio pochi giorni dopo il suo insediamento a Balfour street, e gli eventi tragici del 7 ottobre, hanno evidenziato un leader non all’altezza della situazione. Incapace di ascoltare il dissenso di massa che montava giorno dopo giorno. Tardivo nell’assicurare la sicurezza ai propri cittadini. Troppi errori. Pagati impietosamente nei sondaggi, gradimento crollato ai minimi (28%). Ha perso consenso e soprattutto la fiducia della gente.
Adesso, a chiedere le sue dimissioni c’è una larga fetta di Israele, che va ben oltre i lettori di Haaretz e che è trasversale alla composita società israeliana. Chi ha velleità di cimentarsi alle prossime elezioni politiche, una volta finita la guerra, e aspirare al ruolo di comando è Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore, oggi responsabilmente membro del Gabinetto di guerra, è una concreta alternativa, che non dispiace a Biden. Dai banchi dell’opposizione invece il più accreditato è sicuramente Yair Lapid, anche lui molto stimato dai democratici a Washington. Se invece l’operazione per rimuovere Netanyahu dovesse palesarsi a conflitto in corso, la soluzione più plausibile è che avvenga attraverso un terremoto politico nel Likud. Sia Gantz che Lapid non hanno i numeri nell’attuale Knesset per formare una maggioranza. E senza l’appoggio del Likud anche il sostegno dell’amministrazione statunitense non è sufficiente. Una scelta di continuità con Netanyahu sarebbe Yariv Levin, se non fosse che il suo nome è indissolubilmente legato alla contestata riforma della giustizia e inviso a tanti. Chi ha le spalle larghe abbastanza per reggere il confronto con il padre padrone della destra è Nir Barkat. L’ex sindaco di Gerusalemme è un imprenditore di successo, con elevata disponibilità economica: è il politico più ricco di Israele. Di poche parole, freddo come un iceberg, difficile da interpretare. Già in passato ha alzato la testa, prendendo apertamente le distanze da Netanyahu. In questo esecutivo è ministro di prima fascia, presiede l’Economia. Rispetto ad altri dirigenti del Likud non ha una corrente di riferimento, ed è, se vogliamo, avulso dal controllo della macchina (e delle tessere). Di voti, comunque, ne raccoglie parecchi. È stato tra i primi, e pochi, nel governo a rilasciare interviste dopo il 7 ottobre. Puntando il dito contro l’Iran. A fare di lui un potenziale leader a largo spettro è la lunga esperienza da primo cittadino di Gerusalemme, dove ha saputo governare con tutti: dalla sinistra sionista alla destra religiosa. Se c’è un politico con le credenziali, adatto ad una fase di unità nazionale, sembra proprio essere lui. Prima però deve sfilare la poltrona a Bibi.

I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.

HAMAS PORTA LA STRAGE NEI KIBBUTZIM

“Dov’è l’esercito?”. Domanda che si sono chiesti molti cittadini israeliani durante l’attacco di Hamas. La risposta è la stessa di 75 anni fa: la vostra difesa, e sicurezza, siete voi stessi. Prima linea del fronte di guerra. Dove l’alternativa è combattere o scappare.
La mattina del 7 ottobre 2023 prime ad essere investite dall’orda terroristica sono state le comunità che risiedono lungo il confine, a pochi metri dalla barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele. Be’eri, Kfar Aza e Re’im, le più colpite dalla violenza assassina e dalla caccia all’ostaggio. Piccoli centri dediti da sempre al lavoro della terra, dove dalle finestre delle case si vede la periferia della città di Gaza e si respira aria di mare. Prima del ’48 erano insediamenti, strutturati nella forma di cooperative agricole secondo lo schema del kibbutz o del moshav. Furono fondati e difesi dai pionieri dello stato di Israele.
Il kibbutz in passato ha rappresentato lo specchio della società israeliana, lì sono cresciuti e si sono formati interi quadri, l’élite politica e militare del Paese. Quel modello di vita ha nel corso degli anni affrontato notevoli cambiamenti di assetto confrontandosi con la realtà dei tempi, cedendo ovviamente a ineludibili compromessi. L’esperimento cominciò nel 1909, quando sulle sponde del lago di Tiberiade il sogno del socialismo applicato veniva realizzato. Il primo esempio fu la piccola comune di ebrei marxisti di Degania Alef (anche se i suoi membri preferirono sempre chiamarlo Kvutzat Deagania ovvero “Il frumento di Dio”). Spinta ideologica incentrata sull’uguaglianza, sul lavoro a favore della comunità, sul rispetto di regole ben precise e condivise, sull’obbligatorietà di lavorare per gli altri.

Chi ha fatto quella scelta di vita ha preso, e prende, il nome di chaverim o kibbutznik. Oggi sono decine di migliaia di persone. Nel 2005 il Ministero del Lavoro israeliano ha classificato i kibbutzim (plurale di kibbutz) in tre tipologie: shitufi con sistema cooperativo, mitchadesh dove persistono, almeno nell’intenzione, minime forme di cooperativismo e urban kibbutz di fatto un agglomerato cittadino. Quando nel 2011 decidemmo di scrivere il libro “Kibbutz 3000” compleanno di un sogno, attualità di un’idea (edizione Ets), accompagnati dalla fotografa Nili Bassan, abbiamo intrapreso un viaggio alla scoperta di chi ci vive. Il nostro peregrinare dal Nord al Sud di Israele ci portò nel kibbutz Nir Am, due ore di macchina da Gerusalemme, non distante dal valico di Eretz. Nir Am per l’esattezza si trova a 457 metri dal confine con Gaza, letteralmente a un tiro di scoppio o a uno sputo dalla Striscia di Hamasland. Sabato scorso i suoi residenti hanno respinto l’assalto palestinese. “Sembra che i terroristi abbiano cercato di penetrare in un grande allevamento di polli vicino a Nir Am, probabilmente scambiando la sua recinzione per la recinzione del kibbutz”, ha dichiarato Ami Rabin. Sentiti i primi spari è scattata la difesa. “Siamo stati vigili, preparati ed efficaci, ma siamo stati anche molto fortunati”. Nessuno dei residenti è rimasto ferito, due attentatori sono stati uccisi. Fallito anche l’attacco al moshav (raggruppamento di fattorie di proprietà individuale con estensione fissa e uguale per i suoi membri) di Ein Habsor. Dove hanno respinto un numero soverchiante di terroristi: “Dobbiamo tutto alla sorveglianza, ed in parte al miracolo”.

Israeliani abituati a convivere con l’emergenza della violenza. Nel 2013 nel moshav di Netiv Ha’Asara, alla vigilia delle elezioni che consacrarono l’ascesa di Netanyahu, ci raccontarono che “non di rado prima senti il botto del razzo e poi la sirena”. Questi centri periferici, per lo più composti da villette familiari, lunghi viali alberati, bambini che scorrazzano in bicicletta e auto elettriche per muoversi al suo interno, non sono solo vulnerabili ai razzi, che ti possono piovere in salotto in qualunque istante del giorno e della notte, ma anche ai tunnel che partono da Gaza e sbucano nel giardino di casa. Tunnel che Hamas scava minuziosamente dal 2014, per far entrare i suoi uomini. A volte scoperti e fatti saltare dall’esercito israeliano prima di essere utilizzati, altre, come in questo caso, no.
Nonostante la minaccia che incombe su quelle terre – dal momento che scatta l’allarme missilistico ci sono circa 4 secondi per raggiungere un luogo protetto, stanza blindata o rifugio – molti giovani hanno optato per questo standard di vita. Una sorta di riscoperta delle radici del kibbutz di fronte alla crisi economica, ambientale e culturale, in risposta all’individualismo imperante nella nostra società. Siamo certi che il mito del kibbutz resisterà anche a questa dura prova.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

CULTURA SBAGLIATA

Nel conflitto israelopalestinese sono dibattute questioni “sociali” che, alimentate dalla politica e dall’ideologia, assumono aspetti culturali eticamente distorti. Uno dei tanti esempi è il Fondo dei Martiri dell’Autorità nazionale palestinese, il programma di sostegno economico ai palestinesi imprigionati, feriti o uccisi da Israele e destinato alle loro famiglie: stimato in 350 milioni di dollari l’anno. Ufficialmente introdotto dal governo di Ramallah nel 2004, in piena Seconda Intifada, questa tipologia di finanziamento era già in uso nei campi profughi del Libano tra i combattenti di Fatah, a partire dagli anni ’70. E poi successivamente riproposto nelle campagne politiche di assistenzialismo gestite da Hamas, nel nome della beneficenza islamica. E proprio su questo banco di prova con gli avversari politici che prima Arafat e dopo i suoi successori hanno deciso di alzare il piatto della bilancia della propaganda.
Con un provvedimento del 2013 il sistema di welfare palestinese garantisce ai prigionieri (attualmente nelle carceri israeliane sono quasi 5mila) l’automatico impiego negli apparati istituzionali al loro rilascio. Inoltre, l’Autorità palestinese stabilisce un sistema “proporzionato” di compenso, dove i prigionieri ricevono maggiori finanziamenti in base alla durata del periodo di detenzione, e quindi parallelamente alla gravità del crimine commesso. Più vittime fai e più soldi ricevi (l’accusa). Dal punto di vista palestinese tale misura viene legittimata, e motivata, nel dare pieno sostegno “alla lotta contro l’occupazione e l’ingiustizia israeliana”. In un contesto dove è noto che l’esercito israeliano effettua arresti arbitrari di palestinesi (non ultimo ed eclatante l’episodio dell’italopalestinese Khaled El Qaisi, da giorni recluso in cella), che sono soggetti alla legge militare israeliana e privati dei diritti garantiti da quella civile di Israele. Il contraltare palestinese è lo schema di sussidi previsto per i terroristi. I quali, pur macchiandosi di crimini contro civili inermi, possono beneficiare dell’assistenza sociale. Questo elemento, non di poco conto, si porta dietro il soprannome dato al programma: “pay-for-slay”. Ovvero, un incentivo, secondo i critici, ad ammazzare gli israeliani.
“Indipendentemente dal suo vero scopo, non è esatto caratterizzare il Fondo dei Martiri esclusivamente come un mezzo per incoraggiare il terrorismo contro Israele. Contrariamente a quanto potrebbe affermare il primo ministro Netanyahu, non tutti i beneficiari degli aiuti del Fondo dei Martiri sono terroristi”. Alex Lederman in un articolo pubblicato da Israel Policy Forum, sottolinea che: “Non tutti i palestinesi nelle carceri israeliane hanno o intendono avere le mani sporche di sangue israeliano”. Restano comunque i gravi errori commessi ripetutamente dall’Autorità palestinese e dal suo presidente. Non dimentichiamo che il budget del cosiddetto Fondo Martiri proviene oltre che dai regimi arabi anche dai poco informati e talvolta distratti contribuenti occidentali.
Sono invece qualche migliaia e molto convinti coloro che hanno donato oltre 1,2 milioni di shekel alla campagna di crowdfunding lanciata per chiedere la liberazione di Amiram Ben Uliel, estremista di destra e colono israeliano giudicato colpevole di aver compiuto nel 2015 un attentato terroristico incendiario nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, costato la vita a tre palestinesi membri della famiglia Dawabsha (madre, padre e figlio di 18 mesi). Recentemente 14 parlamentari della maggioranza di governo, per lo più aderenti ai partiti Likud e Otzma, hanno fatto appello al capo dello Shin Bet Ronen Bar per far allentare le sue condizioni di detenzione all’ergastolo (per diritto di cronaca Ben Uliel si professa innocente e dichiara di aver confessato sotto tortura). In occasione delle festività di Rosh haShanah è stato approvato il temporaneo trasferimento di Ben Uliel dall’isolamento all’ala dedicata ai religiosi (Torah wing). Un piccolo trattamento di favore, che vista la composizione dell’attuale governo di Netanyahu potrebbe non essere l’unico.
Crowdfunding per un pericoloso eversivo israeliano o fondo per i martiri della jihad palestinese, non sono un bel segnale di pace. Del resto se Abu Mazen e Bibi Netanyahu, partecipando ai lavori dell’assemblea plenaria delle Nazioni Unite, hanno parlato dallo stesso microfono scambiandosi reciproche accuse, si sono seduti nella stessa aula e non si sono stretti la mano, quasi sfiorati e prudentemente evitati. È chiaro che sul tavolo non c’è nessuna reale intenzione di dialogo.

IRRAGIONEVOLEZZA

Pochi giorni fa tutti i 15 giudici della Corte Suprema di Israele, cosa mai successa in precedenza, si sono riuniti in udienza preliminare per decidere, sulla base delle petizioni presentate, se il recente emendamento alla clausola di ragionevolezza approvato dal governo sia o meno da annullare. Ci potrebbero volere mesi prima che il verdetto sia emesso. Materia spinosa, per due ragioni: una strettamente politica e l’altra puramente giuridica. In mezzo una crisi che da mesi spacca in due il paese. La norma introdotta lo scorso 24 luglio è parte integrante della controversa riforma della giustizia avanzata dall’esecutivo di Netanyahu e volta a depotenziare i poteri stessi del tribunale di stato: «Nonostante quanto stabilito in questa legge fondamentale (sezione 15), coloro che detengono poteri giudiziari per diritto, compresa la Corte Suprema quando presiede come Alta Corte di Giustizia, non discuteranno la ragionevolezza delle scelte prese dal governo, dal primo ministro o da qualsiasi altro ministro, e non emetteranno provvedimenti al riguardo. In questa sezione, “decisioni” si riferisce a qualsiasi decisione presa, comprese quelle relative alle nomine, o disposizioni di astenersi dall’utilizzare determinati poteri». Tolta la “ragionevolezza” di segnalare e impedire scelte arbitrarie, irrazionali, immotivate per assurdo anche un cavallo potrebbe domani rivestire un alto ruolo istituzionale. A gennaio i giudici hanno dichiarato la nomina a ministro di Aryeh Deri, penalmente condannato e criminale seriale, irragionevole e invalida. Ebbene, quello stop “morale” non è più così scontato. D’altro canto, non è mai accaduto che la Corte Suprema abbia abrogato uno dei principi fondamentali o invalidato un emendamento correlato a tali leggi. Sebbene abbia stabilito in più occasioni di avere l’autorità per farlo. Scrive il Jerusalem Post in un recente editoriale: «In effetti, se alla Corte fosse impedito di annullare Leggi Fondamentali o loro emendamenti, allora qualsiasi governo potrebbe approvare qualunque legge gli venisse in mente qualificandola come “Legge Fondamentale” e precludendo così qualsiasi controllo giurisdizionale. Si tratta ovviamente di una situazione insostenibile. Altrettanto insostenibile è che un governo non presti ascolto alla Corte Suprema. Non solo è insostenibile, ma spalancherebbe le porte all’anarchia, a una situazione come quella descritta nel Libro dei Giudici quando “ognuno faceva come gli pareva” (21:25). Se il governo non dà ascolto alla decisione della Corte, perché dovrebbe farlo chiunque altro? La democrazia poggia su diversi pilastri e uno dei pilastri centrali è la supremazia della legge. Se i ministri del governo non riconoscono la supremazia della legge, allora non ci sono più regole del gioco. E se non ci sono regole del gioco, alla fine potrebbe non esserci più nessun gioco. Riconoscere la supremazia della legge significa farlo anche quando la legge non ti è favorevole. Nel 1979 l’allora primo ministro Menachem Begin (del Likud) diede voce a questo sentimento quando, a seguito di una decisione della Corte Suprema contraria all’insediamento di Elon Moreh – in cui Begin credeva con tutto se stesso – disse (parafrasando il mugnaio di Potsdam ndr): “Ci sono dei giudici a Gerusalemme”. Con questo intendeva dire che ci sono i giudici e che le loro decisioni devono essere rispettate. Durante un’accesa riunione di gabinetto dopo la sentenza della Corte, alcuni membri del governo Begin chiesero che si ignorasse la decisione. Begin, tuttavia, era categoricamente in disaccordo e dichiarò: “I tribunali in Israele hanno preso la loro decisione e il governo è obbligato a onorare ed eseguire qualunque cosa abbiano deciso”. Ciò che era così chiaro per Begin dovrebbe essere altrettanto chiaro per Netanyahu. Ciò che era vero allora è altrettanto vero oggi».

Sì, ma Netanyahu non è Begin. I tempi sono cambiati e il Likud del nuovo millennio è al governo con quelli che l’allora storico leader della destra e fondatore del partito, disprezzava profondamente, perché pericolosi fascisti.

Nella tradizione yiddish si narra di un piccolo e remoto shtetl dove un calzolaio aveva commesso un omicidio. Il giudice condannò l’imputato alla pena di morte. Ma prima che la sentenza venisse applicata i cittadini contestarono la condanna, non essendoci nella comunità un altro che lo potesse sostituire nel mestiere di ciabattino. Preso atto dei malumori della gente il giudice tornò sulla propria decisione: «Prendendo in considerazione che lasciare la città senza calzolaio non è possibile, e la condanna emessa deve essere eseguita, non resta che impiccare uno dei due sarti, in modo che possiate continuare ad avere un sarto e un calzolaio.» Alla lettura della nuova sentenza gli abitanti dello shtetl esultarono: «Non esistono giudici più intelligenti del nostro!». In Israele oggi c’è una sola democrazia seppur malmessa, e due potenziali governi. Quello attuale di estrema destra può essere “sacrificato” lasciando il posto ad una alternativa maggioranza di destra. Forse, sarebbe una mossa intelligente, se non si vuole abbattere il sistema e creare maggiore caos.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi