Archivi tag: Haniyeh

BERSAGLIO CENTRATO

Il 10 aprile 2023 nel nord della Striscia di Gaza l’esercito israeliano uccide tre figli del leader di Hamas Ismail Haniyeh, ritenuti operativi all’interno del gruppo terroristico. Nell’auto su cui viaggiavano, fatta esplodere da un missile, perderanno la vita anche quattro nipoti dell’ex primo ministro palestinese. Poche ore dopo in rete circola un video che mostra il momento in cui al capo politico di Hamas viene comunicata la morte dei suoi figli. Il breve filmato è ripreso durante una visita “istituzionale” ad un ospedale in Qatar, dove da qualche anno aveva ottenuto asilo politico, trascorrendo un lussuoso e agiato esilio. Nella clip Haniyeh ascolta impassibile la notizia, muove oscillando leggermente la testa, tiene le mani congiunte e prega Dio. Quando gli viene chiesto se vuole interrompere l’incontro risponde perentorio: “No, continuiamo”. Successivamente dichiarerà: “Il sangue dei miei figli non è più prezioso di quello del nostro popolo”. Chiarendo che la loro perdita non cambia di una virgola la strategia: “Il nemico (Israele ndr) è pazzo se pensa che prendere di mira i miei figli, al culmine dei negoziati e prima che il movimento invii la sua risposta, spingerà Hamas a mutare la sua posizione”.
Adesso c’è invece da capire quanto la sua fine influirà sulle trattative in corso per raggiungere tregua e liberazione degli ostaggi, perché se l’uccisione dei parenti e il sangue di migliaia di palestinesi è una cosa, quello del noto politico palestinese conta molto, ma molto di più. La lezione comunque è che se sei scampato a un attentato del Mossad, nel 2003, non è detto che lo farai per sempre.
La punizione, non divina, è arrivata a Teheran dal cielo nella mattina del 31 luglio, con un “pacco aereo” che ha centrato la sua residenza. Haniyeh era volato in Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian. Il giorno prima aveva incontrato l’ayatollah Ali Khamenei. Alla riunione era presente anche il vertice della Jihad islamica palestinese Ziyad Nakhaleh. Nella foto scattata nella sala dei colloqui Haniyeh è seduto a fianco della guida spirituale degli sciiti iraniani. Appare rilassato e al sicuro tra le mura amiche, sbagliava. Per molti è già un martire della causa palestinese, per altri resta un fondamentalista assassino. Non è il primo della lista dei responsabili del massacro del 7 ottobre a essere stato eliminato da Israele, e non sarà l’ultimo. Stessa sorte è toccata a Saleh al-Arouri, esponente di spicco dell’organizzazione, ucciso lo scorso gennaio mentre si trovava in Libano. A metà luglio è l’ora fatale per Rafa’a Salameh, comandante di brigata. Presumibilmente nell’attacco israeliano ha perso la vita anche uno dei triumviri a Gaza, Mohammed Deif. L’eliminazione sistematica da parte di Israele dei quadri di Hamas non è una novità, ma sino ad oggi non ha ottenuto nessun risultato. Infatti, come nel caso del mitologico mostro Idra di Lerna, tagliata una testa ne cresce un’altra, e la storia va avanti.
Intanto, all’interno del movimento islamista si rafforza la posizione di Yahya Sinwar, figura chiave a cui Israele da la caccia da mesi. Sinwar, insieme a Deif e Haniyeh, è sotto incriminazione della Corte penale internazionale per gli eventi del 7 ottobre. Sarà lui il prossimo obiettivo? A questo punto la sua sorte è una certezza. Seppur la sua eliminazione in questa fase di fragile trattativa diplomatica potrebbe, tuttavia, complicare notevolmente la liberazione degli ostaggi israeliani. Elemento significativo che forse gli permetterà di allungare la vita, almeno di un po’.
Non è un segreto che tra la corrente di Sinwar e quella di Haniyeh, decisamente più pragmatica, ci fossero divergenze che spesso hanno messo i due in contrasto aperto sulla linea da tenere. Hamas non è un monolite estraneo alla lotta interna per il potere. Sinwar governa indiscusso l’ala armata e parallelamente Haniyeh aveva in mano la borsa dei finanziamenti esteri, godendo dell’accreditamento nei paesi musulmani. Due ruoli ben distinti, equamente importanti per mantenere operativa struttura e rete dei collegamenti con gli alleati regionali. Un ampio spettro di rapporti da ristabilire con la nomina di una nuova figura, priva però della personalità carismatica di Haniyeh.
Il successore vivrà con una spada di Damocle sulla testa, che lo condanna a morte sicura, o quasi. Così funziona, non nel film ma nella realtà, degna comunque della miglior finzione cinematografica. Solo pochi giorni fa riflettevamo sulle potenzialità dei negoziati di Roma tra le parti in gioco, oggi lo scenario è in trasformazione. In rapida e drammatica evoluzione. L’Iran minaccia vendetta. Il Qatar prende le distanze da Israele, non sarà l’unico stato arabo. La Turchia di Erdogan è ad un passo dalla linea rossa dell’intervento diretto nel conflitto mediorientale. La Casa Bianca è irritata per non essere stata informata. L’atto “spregiudicato” avrà delle conseguenze pesanti nelle relazioni con l’amministrazione democratica statunitense, entrata nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali. Fatto sta che al momento a Gerusalemme a commentare l’uccisione di Haniyeh è la voce dell’estrema destra, il ministro Amichay Eliyahu scrive sui social: “È il modo giusto per ripulire il mondo dalla sporcizia. Niente più immaginari accordi di pace e resa, nessuna pietà”. Aggiungendo. “La morte di Haniyeh rende il mondo migliore”. Visto il contesto in cui siamo ci chiediamo a quale prezzo?

I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.