IO BIBI E LE ROSE

In Medioriente questa settimana si prefigura calda, non è una novità. Le notizie di cronaca riportano dell’operazione militare israeliana lanciata su vasta scala a Jenin in queste ore. L’acceso dibattito politico dei passati giorni lascia il posto al diario di guerra, che si prende la scena.

Passa in secondo piano la testimonianza maratona, al processo che vede imputato il primo ministro israeliano per abuso d’ufficio, del magnate Arnon Milchan. Storia di un’amicizia che includeva una serie di omaggi ai Netanyahu, trasformatesi nell’arco del tempo in richieste regolari: «una routine». Talmente frequente che con i Netanyahu Milchan aveva messo a punto un codice per ciascuna tipologia di regali: i sigari pregiati chiamati “foglie” e “rose” erano le bottiglie di champagne, mentre alla richiesta di camicie di lusso corrispondeva il termine cifrato di “nani”. Il noto tycoon dell’industria cinematografica ha ammesso di aver incaricato uno dei suoi collaboratori di mettere a disposizione dei Netanyahu: «tutto ciò che vogliono». E di essersi reso conto, in seguito all’apertura dell’inchiesta, che i doni, per un valore stimato di 700mila shekel, erano diventati “eccessivi”. «A volte le foglie erano di mia iniziativa. Altre [Netanyahu] mi chiedeva: Ehi hai mica delle foglie a casa? E rose?». Milchan, che per motivi di salute partecipa all’udienza in remoto dall’Inghilterra, ha sottolineato di non aver commesso nulla di illegale e, soprattutto, di non essere mai stato obbligato. I magistrati invece ritengono che Netanyahu abbia fatto pesare le proprie influenze per far ottenere all’amico l’estensione della visa negli Stati Uniti, accusa smentita da Milchan. Il quale tuttavia ha potuto beneficiare della normativa introdotta nel 2013 dal governo Netanyahu sulle agevolazioni fiscali per i redditi all’estero dei cittadini israeliani, che la stampa ribattezzò laconicamente “legge Milchan”.

I problemi legali del leader del Likud sono intrecciati a doppio filo alla divisiva riforma della giustizia avanzata dal suo esecutivo. Una revisione del sistema giuridico concepita con l’esplicito intento di smantellare “l’ingerenza” della Corte Suprema sul potere politico. Progetto che non piace ad una larga fetta degli israeliani, che da ben 26 settimane è sul piede di guerra per impedire il suo concepimento. Manifestazioni partecipate nelle piazze e presidi sotto casa dei ministri. Insomma, una protesta persistente ed insistente che ha costretto Bibi a zigzagare nel procedere nel suo azzardato attacco alla democrazia, tra brusche frenate e repentine accelerate. Netanyahu intervistato dal Wall Street Journal ha manifestato l’intenzione di voler apportare delle modifiche alla proposta originale di riforma, confermando che la clausola di scavalcamento non sarà parte integrante del testo finale. Ma quale sia la reale evoluzione, o involuzione, della legislazione è incerto. Al punto che persino Bibi ammette di tastare con attenzione il polso della gente. Il passo indietro del falco della destra sarebbe quindi dettato da due ragioni pratiche: “mettere una pezza sul rapporto con l’opinione pubblica e gli Usa”, entrambi assai tesi. L’approccio conciliante di re Bibi, di fronte al malcontento generale, al richiamo del presidente Herzog e all’opposizione, apre una frattura nella maggioranza e nel partito del premier. «Alla fine, penso che affinché questo governo continui ad esistere dobbiamo portare avanti le riforme», ha commentato Miki Zohar, ministro della Cultura e considerato vicino al ministro della Giustizia Yariv Levin, ideatore della contestata legge. La parlamentare likudnik Tally Gotliv, che solo pochi giorni fa è uscita umiliata dal voto a scrutinio segreto della Knesset per la nomina a rappresentante nel Comitato di selezione dei giudici, è netta: «La riforma è morta». Anche l’alleato veterofascista Itamar Ben Gvir ha preso apertamente le distanze: «Siamo stati eletti per portare il cambiamento. La riforma è una pietra angolare di questa promessa». Ancora più critica l’ala del partito askenazita dei religiosi ortodossi: «Ho chiesto a nome dell’UTJ che la riforma includesse i tre impegni stipulati: lo studio della Torah, la clausola di esclusione e la modifica della legge sul servizio di leva. Ogni altro accordo è inaccettabile», così Meir Porush ministro degli Affari di Gerusalemme.

Fatta eccezione per il conflitto con i palestinesi, in qualsiasi modo si muova, Bibi rischia di risultare un populista impopolare.

STORIE PALESTINESI E ISRAELIANE DEL “CAVALIERE”

Non c’è dubbio che Berlusconi godesse di diffusa notorietà in Medioriente, dovuta sia alle vittorie calcistiche del Milan che alle conosciute vicende scandalistiche. Era seguito e commentato dal pubblico, spesso con ilarità. Nel 2010 l’allora presidente Shimon Peres disse di lui: “il leader più solare mai conosciuto”. Aggiungendo: “Non è importante quello che i giornali scrivono, ma quello che gli italiani votano. E votandola, gli italiani hanno dimostrato di avere buon gusto”. Ancora più sperticate sono state le lodi profuse nel tempo da Netanyahu: da “apostolo della pace” a “campione di sicurezza e libertà”. Di lui il longevo premier israeliano riporta uno scherzoso aneddoto di una loro conversazione nella sua ultima biografia: Domanda: “Allora, Bibi, quante stazioni televisive hai?”. Risposta: “Israele ha tre stazioni”. Berlusconi: “No, intendo dire quante di loro lavorano per voi”. Netanyahu: “Nessuna. Anzi, tutti lavorano contro di me…”.Molto divertente l’episodio che Ariel Sharon raccontò al giornalista Antonio Ferrari: «Durante la colazione di lavoro, alla presenza delle delegazioni, vi erano due cameriere di notevole avvenenza. Ciascuna posava un panino sul piatto a lato della portata principale. Berlusconi, dopo averlo divorato, ne chiese un altro. E Sharon: “Perché, se le piace tanto il nostro pane, non ne chiede due o tre pezzi, invece di uno alla volta?”. E Berlusconi: “Beh, così posso vedere da vicino la cameriera. Sa, alla mia età ci si accontenta di guardare”. Sharon, divertito: “Direi che questo non ci risulta”. Berlusconi “Ve l’hanno rivelato i vostri servizi segreti?”. Uno dei consiglieri di Sharon scoppia a ridere: “No, signor presidente, l’abbiamo letto sui suoi giornali”». Tanta amicizia per Israele che andava parallelamente all’empatia mai nascosta per i palestinesi. Ha finanziato l’Olp di Arafat, e molti ricorderanno che gli incontri con lo storico leader palestinese si aprivano e chiudevano con fraterni abbracci. Nel 2012 il presidente Abu Mazen parlava di lui in questi termini: “Non importa se Berlusconi è un grande tifoso di Israele, ci va bene questa abilità italiana d’essere amici di entrambi, perché può fare molto”. A marzo 2023 il ministro Tajani al ritorno dal suo viaggio in Terra Santa dichiara alla stampa: “Abu Mazen, mi ha detto di salutare Berlusconi, e lo stesso ha fatto Netanyahu”. Era amico di entrambi o meglio ha saputo diplomaticamente tenere un ottimo rapporto tra due nemici, stabile nel tempo. Silvio Berlusconi però ci ha lasciato anche episodi fuori luogo, in quel lembo di terra. Come quello di arrivare a far finta di non vedere il muro di separazione che divide Israele dai Territori palestinesi: “Non me ne sono accorto, stavo prendendo appunti”. Disse scusandosi con la giornalista che gli aveva posto la domanda. La giornalista Fiamma Nirenstein nel suo personale ricordo ha detto: “A volte raccontava prima di andarsene una delle sue barzellette. Io lo pregavo rispettosamente di evitare quelle sugli ebrei, anche se erano certo innocenti. Non mi dava retta”.

LA TUNISIA AD UN PASSO DAL DEFAULT

In quella che un tempo nemmeno troppo lontano è stata la culla delle primavere arabe, che rovesciarono come birilli i regimi autoritari nella regione, tutto o quasi è tornato come prima. Se non peggio.
La Tunisia dopo aver sperimentato un decennio di fragile democrazia dal 2019 è saldamente in mano a Kais Saied, il nuovo uomo forte del paese africano. Colui che prometteva la fine della corruzione e un sicuro sviluppo, non aveva però fatto i conti con la pandemia. Il Covid ha messo a nudo non solo le debolezze strutturali del sistema sanitario ma anche quelle molto più profonde e intrinseche di una economia stagnante. Che non è in grado di dare un futuro sicuro ai giovani.
La risposta del presidente Saied alla crisi che attanaglia il Sahel è stata quella di abusare dei propri poteri, e instaurare un nuovo regime antidemocratico. Colpendo l’opposizione e la stampa, licenziando giudici e il primo ministro, chiudendo il parlamento e sospendendo la costituzione. Oggi che la Tunisia è ad un passo dal default ad essere particolarmente preoccupata è l’Italia. I due paesi non solo per la vicinanza geografica, sono di fatto strettamente legati.
Seppure nelle ultime settimane è calato il numero di sbarchi provenienti dalla Tunisia, il rischio di “esodo” in massa verso l’Italia è ancora una eventualità probabile. Al quale va aggiunto il timore per la sicurezza della rete energetica di approvvigionamento del gas algerino, che di lì passa prima di giungere nel nostro paese. L’implosione della Tunisia avrebbe quindi un effetto a catena sull’Italia. Per questa ragione la Farnesina è impegnata da mesi in una complessa campagna diplomatica finalizzata a sbloccare i fondi finanziari e gli aiuti economici che giacciono congelati. Miliardi di dollari in cambio di riforme che il presidente tunisino non è disposto ad accettare.
La pressante mediazione italiana sul tavolo internazionale non ha raggiunto alcun risultato concreto, almeno fino ad oggi. Ciononostante le posizioni di Parigi e Berlino si sono ammorbidite e ci sono segnali incoraggianti per arrivare ad una soluzione di compromesso. Che si lega inevitabilmente alla primaria necessità per l’Europa di rendersi indipendente dalle forniture di gas russo. L’Italia in questo settore nell’arco dell’ultimo anno, forte dell’azione messa in campo già da Mario Draghi, è stata in grado di ridurre in modo significativo le importazioni da Mosca.
Ciò è stato reso possibile soprattutto grazie all’asse con l’Algeria, diventato il nostro mercato di riferimento. Posizionamento che sicuramente sarebbe piaciuto al fondatore di Eni, Enrico Mattei. Che per primo incrinò lo strapotere assoluto del cartello delle grandi compagnie petrolifere mondiali, introducendo un modello di cooperazione tra l’Italia e i maggiori stati produttori, che ha fatto storia. E al suo ricordo il governo in carica dedica il nome di un ambizioso piano per dare stabilità all’Africa, di cui per ora si ignorano contenuti ed entità. Augurandosi che non sia la solita trita e ritrita propaganda di un occidente distratto.

Israele e Palestina, racconti di morte e guerra

Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata. Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un’overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie. Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. Qualche colpa ce l’ha chi governa (e la politica), chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile. Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è una questione di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Una guerra, come scrivo da anni, che è logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non lo potete domandare sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza. La loro “sfortuna” è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? A Gaza tornerà la calma, ci sarà una nuova tregua che non durerà, e il disco rotto della violenza riprenderà a suonare. È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini. Ma non per morire insieme.

Enrico Catassi

IL SULTANO E LA SFIDA DELLE URNE

È quanto mai incerto l’esito delle prossime elezioni parlamentari e presidenziali in Turchia. Occhi puntati su cosa accadrà il 14 maggio. Manca veramente poco all’apertura delle urne e la partita elettorale è entrata nel vivo. La sfida tra Erdoğan e il leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu è aperta, lo scarto tra i due, secondo gli ultimi sondaggi, è minimo.
Molto potrebbe dipendere da due fattori, a chi andranno le preferenze dei giovani e per chi voteranno i curdi (circa il 20% della popolazione). Se i secondi da tempo non rappresentano una base di consenso da cui pesca il presidente, i primi invece sembrano fluidi nell’indicazione di voto. Comunque vada, per la prima volta le opposizioni hanno mostrato di avere una concreta possibilità di sconfiggere il Sultano di Istanbul e destabilizzare la sua immagine da eterno vincitore. Per l’opposizione l’aver sottoscritto un accordo di larghe intese e scelto quale candidato Kilicdaroglu, soprannominato il “Gandhi turco”, si è dimostrata una mossa competitiva, che ha mandato in tilt la macchina della propaganda di Erdoğan.
Il ventennio di potere ininterrotto, da parte del partito AKP e del suo padre padrone, rischia di essere al tramonto. Nessuna ombra di dubbio sul fatto che queste elezioni siano oramai un vero e proprio referendum nei confronti dell’attuale presidente. L’uomo forte del Bosforo è oggi probabilmente al livello più basso di popolarità. Disamore e disincanto da parte di una larga fetta del suo popolo, che gli rimprovera di non aver saputo affrontare la crisi economica e finanziaria, in cui è precipitato il paese nel 2018. E da cui non riesce a risollevarsi. In aggiunta alla lentezza nella gestione degli aiuti del recente tragico sisma, che a febbraio ha colpito Turchia e la vicina Siria, oggetto di diffuse critiche. Che hanno costretto sempre di più Erdoğan a rincorrere l’avversario nei sondaggi di gradimento, che lo danno in leggero svantaggio.
L’essersi buttato a capofitto nella campagna elettorale gli ha comportato un notevole stress. Il malore in diretta televisiva, seppure le immagini sono state tagliate dalla regia, hanno scatenato notizie sulle sue condizioni di salute. Convincendo il longevo politico turco a prendersi una breve pausa, prima di tornare in pista nel cruciale rush finale, al suono di allettanti promesse. Per farsi rieleggere punta tutto su: costruzione di 650.000 nuove case nella zona colpita del terremoto; sfruttamento del gas nel Mar Nero e transizione al nucleare con la centrale appena inaugurata; lotta all’inflazione e al terrorismo.
Con queste elezioni la Turchia è chiamata a decidere il suo futuro di potenza internazionale: partner di Bruxelles o tormento dell’Europa? Chi domani prenderà alloggio nel palazzo presidenziale di Ankara avrà il compito di chiarire definitivamente quale posizione tenere nella guerra ucraina. Il ruolo di mediazione diplomatica tra Kiev e Mosca fino ad oggi non ha prodotto molto. Se non un rafforzamento delle relazioni tra Russia, Turchia e Iran.

DOMANI E SEMPRE E’ IL 25 APRILE

“In Europa, in questo momento, sono in corso, contemporaneamente, due guerre, su piani diversi ma strettamente connessi: quella che vede l’Ucraina aggredita dalla Federazione Russa nella sua integrità territoriale, e una guerra di valori, in cui sono in gioco tutti gli elementi che caratterizzano l’odierna esperienza occidentale, a partire dalla libertà”, sono le parole pronunciate pochi giorni fa all’Università di Cracovia da Mattarella, che suonano antitetiche alle dottrine sovraniste dilaganti.

La lunga ed intensa settimana dedicata alla Memoria e alla Liberazione del presidente della repubblica si snoda dai campi di sterminio in Polonia ai sentieri dei partigiani italiani nel cuneese. Ad Auschwitz si è recato insieme alle sorelle Tatiana e Andra Bucci, sopravvissute alla Shoah. Per la prima volta la massima carica dello stato ha aderito alla Marcia dei vivi, manifestazione istituita nel 1988 a cui partecipano migliaia di giovani da tutta Europa e dal mondo. Il viaggio nell’est di Mattarella avviene in un momento particolarmente cruciale per il Vecchio Continente. La guerra è alle sue porte e la Polonia è il suo ultimo confine. Ed è lì che il presidente ha voluto ribadire un doppio concetto: condannare l’invasione russa e ringraziare per aver accolto milioni di profughi in fuga dall’orrore della violenza. Solidarietà che in passato, nemmeno troppo lontano, la Polonia ha volutamente ignorato. Con il governo di estrema destra guidato da Mateusz Morawiecki che nel nome del nazionalismo ha abbracciato politiche di respingimento dei migranti.

Impossibile non dimenticare che esattamente 80 anni fa nel ghetto di Varsavia avvenne la prima ribellione contro l’occupazione nazista. Una lotta imparziale e impossibile. Che fu però l’inizio della rivolta ebraica, la più lunga e partecipata durante l’Olocausto. Si trattò di un’insurrezione popolare, che le SS e le milizie polacche repressero nel sangue. Per poi sterminare la restante comunità nei lager. Quella battaglia è oggi un simbolo profondo di civiltà. E le ultime parole del suo leader Mordecai Anielewicz un inno eroico: “Il sogno della mia vita è diventato realtà. L’autodifesa ebraica nel ghetto di Varsavia è diventata un dato di fatto. La resistenza armata ebraica e la rappresaglia sono diventate una realtà. Ho assistito alla magnifica lotta eroica dei combattenti ebrei”. Allora, anche in Italia i Comitati di Liberazione Nazionale fecero la giusta scelta di opporsi alle barbarie del nazifascimo. A luglio del 1943 solo pochi mesi dopo gli eventi di Varsavia, tra i torrenti Stura e Gesso, risuona l’appello alla resistenza del comandante partigiano Duccio Galimberti: “Siamo arrivati a questo punto per una guerra assurda imposta al paese da una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore”. L’antifascismo di Anielewicz e Galimberti, pagato da entrambi al prezzo della propria vita, sono capitoli della nostra storia che non possono essere negati, e tantomeno rivisitati. Né minimizzati a prescindere dal colore di chi governa.

IL DECLINO DEL BIBISMO

Perché nonostante Netanyahu abbia fatto un doppio passo indietro, concedendo una pausa all’iter legislativo della contestata riforma giudiziaria e aprendo ai negoziati, la protesta nelle strade di Israele continua? Alla domanda, facciamo nostre le parole di una delle firme più autorevoli di Haaretz, Anshel Pfeffer: “Perché nessuno si fida più di Netanyahu. Se il primo ministro pensava che la sua decisione di congelare la riforma della giustizia gli avrebbe concesso un momento di tregua, l’accordo siglato con l’estremista Itamar Ben-Gvir per creare una sua milizia privata ha fatto naufragare la situazione – e ha creato un altro problema a Bibi”.
Non sventolano il ramoscello d’ulivo i manifestanti che da mesi paralizzano il paese. È opinione diffusa, e plausibile, che in realtà l’obiettivo di indebolire il potere della Corte Suprema non sia stato assolutamente tolto dall’agenda dell’esecutivo. L’ha solamente riposto nel cassetto, per prendere tempo e aspettare giorni migliori. Allo stesso tempo, la strada della trattativa tra maggioranza ed opposizione, sponsorizzata dal presidente della Repubblica Isaac Herzog, è stretta. Difficile, per non dire impossibile, che si arrivi ad un punto di compromesso tra le parti. E assai complicato che il clima politico decanti velocemente. Per ora, Israele dovrà restare con il dubbio che la sua tenuta sociale è fragile, e a rischio implosione. Con Netanyahu sempre più in un angolo, stretto sotto la pressione di fattori esterni ed interni. C’è la piazza con il movimento pro democrazia che ha vinto la sua prima battaglia ed è intenzionata a non fermarsi, fino alla sua destituzione. C’è la sfida di Yoav Gallant (formalmente ancora ministro della Difesa seppur sfiduciato), colpevole di lesa maestà, che “coraggiosamente” ha scelto di patteggiare per la ragionevolezza invece dello scontro frontale. Ci sono i sondaggi con il “moderato” Benny Gantz e il suo partito in forte crescita, a danno del Likud. C’è Herzog in campo a fare da arbitro, e ispiratore di una fase costituente. Il presidente Biden a tifare, apertamente, per i manifestanti, creando non pochi imbarazzi diplomatici all’amico di vecchia data. E infine, gli alleati di governo ad alzare alle stelle il prezzo delle richieste.
Prendiamo ad esempio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza e leader del partito di estrema destra Otzma, al quale Netanyahu ha dovuto concedere la creazione di una futura guardia nazionale in cambio dell’approvazione a rinviare la riforma della giustizia. Mettere nelle mani di Ben-Gvir, una milizia è potenzialmente un errore, e un pericolo. Varie associazioni israeliane per i diritti civili hanno espresso preoccupazione alla creazione di una tale forza privata ed armata. Fermamente contrari anche la Procura generale, i vertici della polizia e dei servizi segreti. Domenica 2 aprile, il Consiglio dei ministri ha comunque dato il via libera alla proposta di istituire la guardia nazionale, per il bene della tenuta della coalizione. Lasciando la “calda palla” a un comitato che dovrà entro 60 giorni presentare un piano organizzativo, se si dovesse giungere alla conclusione che questo corpo parallelo di polizia risponde unicamente all’autorità del ministro, e non agli organi preposti all’ordine pubblico, ci sarà tuttavia bisogno di introdurre una normativa ad hoc. In tal caso il governo avrà a disposizione altri 90 giorni per approvare la nuova legge. Non è detto che anche questa iniziativa (e promessa di Bibi) finisca per diventare irrealizzabile. E che passi nel dimenticatoio. In molti lo sperano. E vedono prossimo il crepuscolo politico di Netanyahu. Ben-Gvir ha trovato il tallone di Achille e attacca colpendo duro. C’è da credere che presenterà qualche altra delirante pretesa minacciando, in caso contrario, di far cadere il governo. Prima o poi re Bibi dovrà dirgli un secco no. E decidere se spostarsi fuori dal quadrato della sua coalizione in cui si è trincerato. L’alternativa è formare una diversa maggioranza o tornare al voto, senza però avere una copertura tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. La morsa si stringe intorno al falco della destra, per uscirne farebbe meglio a guardare alla costituzione, che manca da 75 anni.

BIBI IN PAUSA

Domenica 26 marzo, Netanyahu decide di silurare il ministro della Difesa Yoav Gallant, reo di aver dichiarato di essere favorevole alla sospensione della contestata riforma della giustizia, promossa dal governo. Il licenziamento provoca un vespaio di nuove proteste in Israele. Nell’arco di una notte, lunga e sofferta, tutto precipita. E al mattino la notizia è che: “Netanyahu congela la riforma giudiziaria”. Almeno, è quello che trapela e rimbalza sui siti. Intanto, ci si aspetta che parli alla nazione. L’annunciata conferenza stampa però si trasforma in una via di mezzo tra il giallo e la barzelletta. Cresce l’attesa. Parla o non parla? Ammette la sconfitta o chiama in piazza i suoi? Che intanto si sono dati appuntamento per una contro-manifestazione nel pomeriggio a Gerusalemme. Il più infervorato è il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che twitta «Oggi finisce il nostro silenzio. Oggi è il giorno in cui la destra si sveglia». Poco dopo anche l’altro leader dell’estrema destra razzista Bezalel Smotrich sentenzia: «Facciamo sentire la nostra voce». Sorge tuttavia spontanea una domanda: la vostra o quella di Bibi? Perchè quella del premier in tutto questo grande caos, un balagan gadol, mica si sente. Silenzio stridente, che lascia il dubbio che voglia veramente arrivare alla prova di forza. Altrimenti, perchè attendere così tanto? Ha già avuto modo di sentirsi personalmente con quasi tutti i leader che compongono la coalizione. Ha davanti a sé un quadro chiaro. Il blocco dei partiti religiosi gli ha dato conferma che sarà al suo fianco qualunque cosa decida di fare. Nel Likud la fronda è disposta a rientrare nei ranghi con l’annuncio dello stop alla riforma. Il problema è la componente nazionalista, che lo incita a proseguire e minaccia di sfasciare la coalizione in caso contrario. Numeri alla mano il governo di Bibi cessa di esistere nel momento in cui decide di pronunciarsi in pubblico, se non ricompone prima l’alleanza. Alla fine, il sacrificio è doppio, oltre al passo indietro ora deve subire anche le pretese di Ben-Gvir, al quale è costretto a promettere il comando di una futura “fantomatica” guardia nazionale. Un prezzo decisamente alto. Nonostante l’immagine di falco, Netanyahu è sempre stato considerato un politico cauto, avverso al rischio, attento a portarsi al limite senza superarlo, ideologicamente un populista conservatore. Questo era il vecchio Bibi che conoscevamo, e che qualcuno rimpiange persino a sinistra (non fosse altro per le poltrone che elargiva indistintamente). Quello di oggi, che si è incattivito con il sopraggiungere dei guai giudiziari, è completamente diverso. È diventato un populista sovranista. Ma soprattutto è un politico debole con gli alleati, che gli impongono lo spartito da suonare.

Bibi sin dall’inizio ha tentato di svicolare l’assedio montante sulla riforma della giustizia rassicurando che i diritti non erano in pericolo e la gente avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma non tutti gli hanno creduto (anche tra quelli che l’hanno votato). E poi negli ultimi giorni vista la mala parata aveva “ammorbidito” il testo della riforma e allungato il brodo dell’approvazione. Parvenza di addolcire la pillola con qualche concessione che però non aveva avuto l’esito aspettato. La strategia comunque mirava in prima istanza a contenere le crepe nel Likud, che invece sono esplose, sbocciate come un fiore di primavera nel bel mezzo di una tempesta senza precedenti. Un grave errore di calcolo per un politico navigato, che si aggiunge ad altre cadute di stile.

Quando i sopravvissuti alla Shoah prendono carta e penna per scrivere una lettera al governo chiedendo di non partecipare alle cerimonie ufficiali nel giorno del ricordo dell’Olocausto (Yom HaShoah), non c’è nulla da aggiungere. Quando l’associazione delle famiglie che hanno perso i loro cari durante il servizio militare o per mano del terrorismo recapitano un “invito” ai rappresentanti della maggioranza a non intervenire alla giornata in memoria delle vittime (Yom HaZikaron), c’è solo da ascoltare in silenzio. Quando un ex direttore del Mossad afferma la necessità per il Paese di dotarsi di una costituzione, meglio obbedire. E quando il presidente della repubblica Isaac Herzog lancia un accorato appello chiedendo «di fermare immediatamente il processo legislativo, per il bene dell’unità del popolo di Israele e per amore del senso di responsabilità», andare avanti a testa bassa diventa un suicidio politico. Netanyahu ha perso il suo tocco magico e forse lucidità di analisi, ma può ancora evitare un folle disastro.

LA VOCE DI HERZOG, IL SILENZIO DI BIBI

Israele non avrà una costituzione ma ha un presidente, Isaac Herzog. Il quale in queste ore di crash test sulla tenuta della coesione sociale ha avanzato un articolato piano di mediazione (la “Direttiva della gente”), nel tentativo di abbassare i toni del confronto politico che è in atto nel Paese sulla proposta di riforma della giustizia: «Chi pensa che una vera guerra civile, con vite perse, sia una linea che non attraverseremo, sbaglia. Proprio ora, 75 anni dalla sua nascita, Israele è sull’orlo dell’abisso… Siamo ad un bivio: tra una crisi storica o un momento costituzionalmente decisivo». La mossa di Herzog, come lui stesso ha voluto sottolineare, «riflette un ampio, vasto comune denominatore e un enorme desiderio dei cittadini di concordare un compromesso». Secondo un recente sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post il 42% degli intervistati ha dichiarato di sostenere la “direttiva” avanzata Herzog. Per la frastagliata opposizione in parlamento la proposta è sostanzialmente una strada praticabile ma non una soluzione ideale. Mentre, la coalizione di governo l’ha respinta al mittente giudicandola una “capitolazione”, perché disallineata dagli obiettivi che la riforma giudiziaria vuole apportare al sistema di bilanciamento dei poteri. Accusando l’atteggiamento del presidente di essere delegittimante del risultato elettorale. Purtroppo, per convincere l’esecutivo capitanato da Netanyahu a fermare l’iter della contestata riforma occorre molto di più del richiamo del capo dello stato, figura autorevole ma nel sistema istituzionale israeliano, puramente rappresentativa. Nulla ad oggi è valso a far desistere la coalizione di destra dal procedere a tappe spedite verso il depauperamento dell’autorità della Corte Suprema. Non ci sta riuscendo l’onda del movimento “pro-democrazia”, una marea umana che da settimane riempie le strade di Tel Aviv. Un buco nell’acqua hanno fatto gli appelli di finanza, imprenditori, banchieri, giudici, artisti, premi nobel e persino riservisti. Non è bastata nemmeno “l’insubordinazione” dell’IDF a portare a miti consigli Bibi & friends. L’unica cosa che può impedire l’introduzione del nuovo disegno di legge è, a questo punto, la crisi della maggioranza, scesa al limite di 61 voti a favore (su 120). Teoricamente ci sarebbero ancora margini per modifiche sostanziali del testo in seconda e terza lettura alla Knesset. Nessuno però pare particolarmente intenzionato a procedere in un tale labirinto. Un’eventuale, poco probabile ma non impossibile, scossone politico potrebbe venire invece da un cambio della maggioranza, con la formazione di un nuovo esecutivo spostato al centro oppure da una frattura interna del Likud, di cui Netanyahu è al momento indiscusso padre-padrone. Ciò non toglie che i malumori di dissenso al capo serpeggiano tra gli esclusi di corte, comunque la congiura non è sotto il tavolo. Quello che è ampiamente il primo partito in Israele già in passato è stato teatro di importanti defezioni, lotte intestine e scismi. Epica la rottura di Ariel Sharon quando fondò Kadima. Bibi di sfide ne sa qualcosa, fin dalla sua ascesa al vertice dei conservatori israeliani ha dovuto sfoggiare tutte le sue doti machiavelliche per respingere le insidie. La lista dei nemici che in questi anni il falco della destra si è fatto è lunga, quasi quanto un vecchio elenco telefonico. Solitamente però chi gli si è rivoltato contro si è amaramente pentito della scelta, uscendone politicamente ridimensionato. Bastonate che di per se invitano a riflettere cautamente prima di provare a fargli uno sgambetto. Anche se personalità del Likud del calibro di Yuli Edelstein o David Bitan si possono permettere quello che ad altri nel partito non sarebbe minimamente concesso, alzare la testa e contestare il re. Se Bibi continua a perdere pezzi si vedrà costretto ad inventarsi una strategia alternativa, compresa l’opzione meno gradita del ribaltone. Benny Gantz e il listone di Unità Nazionale aspettano alla porta, e non è detto che gli venga offerto di entrare al posto di qualcuno scomodo.

BIBI AGGIUNGE UN POSTO A TAVOLA, CHE C’E’ UNA AMICA IN PIU’

A scrivere un nuovo capitolo dei rapporti tra Israele e l’Italia non troppo tempo fa fu Mario Draghi, la controparte allora era il governo anti-Bibi di Bennett e Lapid. Ad avvicinare le due sponde del Mediterraneo gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sull’energia. L’obiettivo era, e resta, quello di ridurre la dipendenza dal gas di Putin, in tempi rapidi. Israele ed Egitto rappresentano una valida alternativa di approvvigionamento per le aziende italiane. La calda accoglienza romana a Netanyahu è la riprova che nulla è cambiato nella strategia energetica nazionale. Per una cooperazione che si muove all’interno di una strutturata cornice di relazioni bilaterali, spaziando in diversi campi: innovazione e start-up, infrastrutture e telecomunicazioni, mobilità sostenibile e biomedicina, aerospazio e sicurezza cibernetica, farmaceutica e bellica. Affari commerciali che nel 2021 hanno registrato un balzo dell’export made in Italy del +25,9% (per un valore pari a 3,1 miliardi di €), rispetto all’anno precedente.
Una idillica partnership, fatta comunque non solo di scambi commerciali. Mazal tov (Auguri). L’incontro tra Meloni e Netanyahu ha avuto toni informali, quasi si trattasse di una rimpatriata di amici di lunga data. Ma in fondo Bibi si è sempre scelto attentamente le amicizie italiche. Quella storica con Berlusconi e poi quella con Renzi quando era in auge, alquanto fredda invece con Salvini (il loro incontro a Gerusalemme durò pochi minuti, giusto il tempo di una stretta di mano e della foto di rito) e pessima con Prodi (non quanto però quella con Clinton e Obama). Il falco del Likud si è presentato a Roma con un sacco di buone intenzioni, che tradotto in politichese significa che ha offerto a Meloni il riconoscimento internazionale ad entrare nel Pantheon dei leader mondiali della nuova destra: “Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito abbiano imparato la lezione della Storia” (M. Molinari, Netanyahu, l’intervista: “Al popolo della protesta dico: la democrazia in Israele è solida”, la Repubblica). Dopo aver sdoganato l’estrema destra israeliana Bibi mette sotto la sua ala protettiva la leader di FdI, anche in questo caso però la “fiducia” deve essere ricambiata, ed il prezzo imposto è alto: “credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico”, ha puntualizzato al direttore Molinari nella recente intervista rilasciata a la Repubblica. Commento che suona come una esplicita richiesta diplomatica dalla portata politica, figlia della sintesi tra bibismo e trumpismo. Un punto massimo a cui sia Palazzo Chigi che la Farnesina non possono spingersi, per varie ragioni. Non fosse altro perché a Washington adesso c’è Biden e non Trump.
La motivazione che ha portato invece il vicepremier Salvini a sposare l’iniziativa e spaccare il governo sulla questione ha una risposta “scacchista”: sacrificare la regina, esponendola a situazioni disagevoli, è al momento l’unica mossa del segretario leghista per prendersi la scena. Nulla di personale, è semplicemente la logica legge del mors tua vita mea. In questo Bibi è un maestro di machiavellismo, e Meloni deve fare attenzione alla prima lezione profetica che gli ha impartito: “La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti”. Risoluti e mai compassionevoli con il nemico, tanto che si tratti dell’Iran o della Siria, dei palestinesi o del movimento israeliano che vuole fermare la riforma giudiziaria. I leader politici israeliani sono storicamente poco inclini alla magnanimità, come scriveva qualche settimana fa Herb Keinon sul Jerusalem Post (Now is the time for Netanyahu, coalition to show magnanimity). Rabin non indietreggiò d’un passo sugli Accordi di Oslo, tantomeno Ariel Sharon quando sgomberò Gaza. Per non parlare di David Ben-Gurion che ordinò persino di far fuoco alla nave Altalena. Il padre fondatore mancò tuttavia di dare una costituzione allo stato, una fase costituente secondo il suo punto di vista avrebbe aumentato le divisioni politiche, in un momento di emergenza. Lasciò insoluta una questione a cui poi nessuno ha messo mano. Se Netanyahu decidesse di scrivere la costituzione, e mettere così fine al vulnus esistente, dovrebbe sedersi al tavolo con l’opposizione, mostrando disposizione all’ascolto. Francamente, pensiamo che non avverrà. E da questa partita sulla giustizia uscirà un solo vincitore, magari un po’ malconcio.
Nel 1948 il primo ministro Ben-Gurion non partecipò all’insediamento della prima Corte Suprema di Israele. C’è chi dice perché non avrebbe accettato l’ingerenza. E c’è chi pensa che con quel gesto volesse tracciare la linea di indipendenza dei giudici. L’unica democrazia del Medioriente si è portata dietro questo dubbio, che però le ha permesso di mantenere inalterato sino ad oggi il bilanciamento dei poteri istituzionali. Ambiguità che Bibi non rischia affatto di lasciare ai postumi.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi