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LETTURA DEL VOTO TURCO

Il sultano Erdogan avrebbe voluto un plebiscito per cambiare la costituzione e introdurre il presidenzialismo invece, si è salvato per il rotto della cuffia grazie al voto dei turchi all’estero e sopratutto, come denunciato da più parti, a possibili brogli con migliaia di schede elettorali manipolate. Voleva vincere facile, con i media sotto controllo, al punto che la campagna referendaria è stata definita dagli osservatori internazionali “ineguale”. Tutto ciò premesso alla fine il divario di tre punti tra il SI e il NO non è un dato asfittico, ma è un elemento da prendere in seria considerazione. Matematicamente il Paese è profondamente spaccato. Mentre la lettura geografica mostra che Istanbul ha voltato le spalle al suo “capace e onesto” (era il 1994) ex sindaco. Smirne ha confermato la vocazione kemalista. La capitale Ankara ha “tradito” il palazzo del potere. Politicamente il rais non può crogiolarsi sugli allori di questa mezza vittoria. Erdogan ha reagito affrettandosi a rinnovare lo stato d’emergenza, negando ancora una volta ogni soluzione conciliante con l’opposizione, sino a promettere un nuovo referendum per riportare la pena di morte. Insomma se la corte del sultano pensava che il referendum potesse avallare gli eccessi di questi mesi qualcosa gli è andato storto. Il leader turco ha peccato di superbia nei confronti di quell’elettorato molto pragmatico che in questi anni è stata la base del suo successo. Nel segreto dell’urna la fedeltà al rais è venuta meno. Una fetta abbondante della popolazione ha fatto capire che è in atto una lunga e diffusa resilienza al regime erdoganista. Hanno preso le distanze da un indirizzo politico che apertamente spinge per ridurre la libertà e la laicità, chiedendo di rimanere nei confini del riformismo dettati da Ataturk un secolo prima. Mostrando che la credibilità del leader ha un limite pesante che nemmeno la propaganda di regime può mistificare. I risultati del voto in questo senso ridimensionano l’Akp (un tempo in Italia definita “una DC islamica”) e il suo capo, responsabilizzando sempre di più il governo di Ankara. Sul piano internazionale lo spettro di un confronto aperto con l’Europa sulla questione migranti non può essere scorporato da un rapporto economico privilegiato per l’economia turca: accordo di unione dogale per i prodotti turchi ancora in vigore; migliaia di aziende europee presenti nel territorio; i fondi Ue per lo sviluppo piovuti a pioggia; il maxigasdotto diretto in Italia, gli investimenti massicci per l’industria e il turismo. Se Erdogan decidesse di tirare la corda andrebbe prima di tutto contro gli interessi nazionali, e in molti casi anche quelli stessi della cerchia finanziaria che lo sostiene. Con i suoi interventi a gamba tesa l’ex calciatore (che per studiare rifiutò un’offerta del Fenerbahce) si è preso un cartellino giallo dall’arbitro di Bruxelles. In passato altre strigliate gli erano giunte da Obama. Nell’era di Barack i rapporti tra i due leader erano freddi. Allora però poteva contare sull’appoggio della Merkel. Ma le fila degli amici europei del sultano si sono rapidamente assottigliate. E se un amico si vede nel momento del bisogno, Trump non si è fatto smentire e ha chiamato, congratulandosi, il presidente turco. Una telefonata con lo scopo di mandare un messaggio all’Europa: il populismo di Erdogan è apprezzato dalla Casa Bianca. Anche se viene imposto con metodi antidemocratici. Inoltre Trump, e la sua famiglia, hanno interessi commerciali in Turchia mai negati. Nel colloquio del presidente americano quindi passione per l’emulo d’Oriente e un occhio al portafoglio degli affari. Analisti internazionali spiegano che il fervore trumpiano per il sultano in realtà nasconde obiettivi strettamente militari: il ruolo di Ankara è cruciale nella battaglia contro il Califfato, nel frenare l’Iran e per l’esistenza della Nato. Un alleato vitale a cui perdonare tutto, o quasi, in uno scenario di guerra permanente. E Trump per convincere Erdogan a rimanere dalla sua parte potrebbe offrirgli una sponda contro l’Europa e forse la testa dell’acerrimo nemico Gulen. Il sultano è convinto di aver vinto la sua partita, peccato per lui che ci siano i supplementari da giocare e gli avversari sono ancora in campo.

L’ASTENSIONE FRENA I MURI DI ORBAN

Il vento dell’illusione populista soffia sulla crisi internazionale ma con meno intensità, anche se le isterie xenofobe evidenziano il doloroso vuoto dell’azione degli stati membri dell’Ue nell’affrontare l’emergenza migranti: ancora una volta gli interessi dei singoli prevalgono sulle scelte d’indirizzo comunitario, sul diritto umano e la solidarietà. In un quadro politico disgregato e febbricitante i valori che hanno portato alla costruzione della casa comune si sfaldano difronte a piccoli numeri: le quote dei migranti da distribuire tra i paesi diventano strumentalmente oggetto di una diatriba apparentemente irrisolvibile. L’Ungheria per “fermare” il piano di accoglienza di Bruxelles ha scelto il passaggio referendario, chiedendo ad oltre 8milioni di elettori di esprimersi: “Vuoi che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento?”. Promotore del NO il governo di matrice nazionalista guidato da Viktor Orbàn. L’opposizione ha preferito, invece di appoggiare il SI, invitare gli elettori a disertare le urne per non raggiungere il quorum. Giocando la partita, per invalidarlo, della soglia d’affluenza inferiore al 50%. I dati, poco sopra il 43%, hanno punito Orbàn e il risultato finale ha ribaltato l’esito scontato iniziale. Tuttavia, il referendum nasceva con un doppio vizio di forma: la possibilità per ciascun stato di ritagliarsi uno spazio esterno rispetto alle decisioni di Bruxelles e la facoltà arbitraria di lasciare alla porta chi chiede aiuto. In Ungheria, i contrari alla convocazione popolare hanno sostenuto la tesi che si è trattato di una mossa politica del governo per “distrarre” l’opinione pubblica dai fallimenti e dal perdurare della crisi economica. La schiacciante vittoria, seppur non plebiscitaria, del fronte del NO pone Viktor Orbàn come punto di riferimento nel campo dell’estrema destra europea ma lo ridimensiona agli occhi della sua gente. Il primo ministro ungherese a differenza del britannico Nigel Farage non ha nessuna intenzione di uscire dall’UE o cavalcare l’ondata secessionista, gode di maggiore popolarità del collega e, al contrario del fondatore dell’Ukip, mira a rafforzare il suo peso negli assetti del Vecchio Continente. Orbàn propone la costruzione di una nuova Europa salvando i simboli peggiori della vecchia, propaganda l’alternativa illusoria dell’isolamento, aspira a sostituire la democrazia liberale di Roma, Atene, Parigi e Berlino con la politica reazionaria di Budapest. Teorizza un rigido e antistorico processo di “controrivoluzione culturale” del continente, introducendo un modello che prediliga l’avvento dell’uomo forte al potere. Segue l’esempio della deriva antidemocratica di Vladimir Putin in Russia e di Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E ovviamente ammira Donald Trump, icona di un futuro attraversato da deprimenti muri in stile Legoland con l’aggiunta di filo spinato e sorveglianza armata. «La politica estera sostenuta dal candidato repubblicano Trump è un bene per l’Europa e vitale per l’Ungheria». Quella di Orbàn è la più classica, e scontata, recrudescenza populista: “i migranti sono un veleno di cui non abbiamo bisogno”. Purtroppo un sentimento razzista illogico che in questi tempi si diffonde rapidamente e trasversalmente nei paesi sviluppati e democratici, infuocando le campagne elettorali. La destra europea più estrema si innamora, inebriata dalla retorica antica e dalle politiche visionarie, di questo leader autoproclamatosi “custode delle frontiere” della cristianità. Fautore di una disciplina organica per il respingimento dei flussi migratori, distruttore della sinistra e catalizzatore della destra. Una luce effimera che non ha, per fortuna, raggiunto il quorum. I cittadini ungheresi si sono svegliati dal torpore ed hanno fermato una deriva dannosa, accendendo il semaforo rosso per i Trump di mezzo mondo.