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IL NEGOZIATORE

C’è un antico proverbio arabo che recita: un uomo che non possiede neppure un pezzetto di terra non è un uomo. Lo si sente ripetere spesso in Palestina. In un lembo di terra che non è ancora uno stato. E qualcuno forse pensa non lo diventerà mai. Tra coloro che hanno continuato a credere nella soluzione di due popoli, palestinesi ed israeliani, per due stati, merita essere annoverato Saeb Erekat: politico e negoziatore palestinese, spentosi all’età di 65 anni all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. Dove era giunto in condizioni critiche a causa del Covid. Ci lascia una figura chiave del Medioriente contemporaneo. Prominente esponente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Se ad Arafat è stato affibbiato il soprannome di Mr Palestine non c’è dubbio che Erekat passasse per Mr Gerico, città e governatorato dove viveva e ha incarnato il ruolo di rais. In quella antica oasi e città biblica sulle sponde del Mar Morto in giovane età aveva frequentato la scuola francescana imparando qualche parola d’italiano. Anni fa ci disse che era fiero che anche i figli andavano in quello stesso istituto.

Poco distante dall’antico palazzo dei califfi e dalle pendici del Monte delle Tentazioni si ergeva la sua Muqata, una miniatura di quella di Ramallah. Lì era solito incontrare le delegazioni e rilasciare interminabili interviste, accompagnate da ettolitri di caffè e montagne di datteri. Tra le sue doti non aveva la puntualità. È stato una costante presenza nei media anglosassoni, vuoi per la perfetta grammatica inglese o per la qualità dei commenti. Aveva costruito il proprio riconoscimento partecipando all’accordo di pace di Oslo. Dietro alla firma in calce che incornicia insieme i tre leader Rabin-Peres-Arafat c’è il lavoro oscuro delle seconde file, i negoziatori della trattativa, un pò diplomatici e un pò cacciatori di teste. Nomi meno noti. Come quello dell’attivista israeliano Ron Pundak, scomparso prematuramente nel 2014, che di quell’evento storico è una delle colonne portanti. Furono proprio Pundak, fiduciario di Shimon Peres, ed Erekat, insignito plenipotenziario di Arafat, i primi a sedersi al tavolo e capirsi. Poi qualche tempo dopo quell’architrave cominciò a rotolare, ma la colpa della violenza che si generò non fu certo loro, al contrario. In quanto colombe e difensori del processo di dialogo si trovarono ben presto in una situazione assai scomoda. Pundak è stato tacciato di essere un filopalestinese, e quindi un traditore. Erekat non se la passò meglio con Arafat, che rivolgendosi a lui era solito apostrofarlo: “l’amico degli israeliani”. C’è addirittura chi gli rimproverava che Gerico non avesse mai dato un martire alla causa. Di lui non si è mai parlato come di un possibile erede ad Abu Mazen. Hanno sicuramente pesato le critiche che gli sono piovute addosso anche dentro Fatah. Nel corso degli anni ha sposato la dottrina del pessimismo. Non vedeva nulla di buono per il futuro dei palestinesi e nella visione di Trump per risolvere il conflitto. Restano, oggi, le sue promesse di pace che l’ex inquilino della Casa Bianca non ha però nemmeno voluto ascoltare.

COSA SAREBBE SUCCESSO SE RABIN NON FOSSE STATO ASSASSINATO?

Su tutto ciò che è stato pronunciato o scritto nel ventesimo anniversario della morte di Rabin, tanti sono stati i “cosa sarebbe successo” se fosse rimasto vivo. Certo, non potremo mai saperlo, e ciascuno di noi si avvicina a questo pensiero dal proprio punto di vista o dalle sue idee politiche.

E’ vero, i sondaggi erano contro di lui. Le elezioni, previste per il novembre del ’96, erano le prime che prevedevano il voto disgiunto tra il partito politico e il candidato primo ministro. Nel faccia a faccia tra Rabin, il premier allora settantatreenne, e il giovane leader del Likud Benjamin Netanyahu, i sondaggi oscillavano tra il pareggio e il vantaggio per il candidato più giovane, diretta conseguenza di una recrudescenza della violenza palestinese. Pur non escludendo una possibile debacle elettorale, giova ricordare che Rabin aveva ancora un altro anno di governo del paese, e aveva preso misure significative per far cambiare il vento dei sondaggi.

All’inizio del mandato di Rabin come primo ministro ero il viceministro degli Esteri, mentre verso la fine ero stato nominato ministro per l’Economia e la Pianificazione. In quei due anni condussi negoziati segreti e informali con l’uomo che oggi è il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, allora presidente del comitato esecutivo dell’OLP, per delineare una risoluzione permanente, tra cui una precisa mappa di scambi territoriali sulla base della Linea Verde (le cosiddette Linee 1967).

Sabato 30 Ottobre 1995, Abbas arrivò nel mio ufficio a Tel Aviv per una riunione con coloro che erano coinvolti nella preparazione dell’accordo (tra gli altri c’erano, per parte israeliana, Yair Hirschfeld, Ron Pundak e Nimrod Novik). Concordammo di mostrare i risultati ad Arafat e Rabin nei giorni successivi. Subito dopo, ad Amman si tenne una seconda conferenza economica regionale. Volai lì con Rabin, e durante il viaggio gli dissi che, una volta rientrato da un già pianificato viaggio negli Stati Uniti, avrei avuto bisogno di un lungo incontro con lui. Non mi chiese di cosa si trattasse, rimanemmo semplicemente che ci saremmo incontrati. L’incontro non ebbe luogo, naturalmente. Mostrai il progetto di accordo a Shimon Peres, diventato primo ministro ad interim, ma lui non era pronto a portare avanti la questione al punto necessario. Informai Abbas che non c’era bisogno di controllare tutto ciò con Arafat.

Pur essendo ben consapevole che questa è una domanda quasi infantile, ammetto che non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo se Rabin non fosse stato assassinato. La risposta è nulla. Avrebbe potuto continuare a portare avanti l’accordo, il passaggio di tutte le città della Cisgiordania, tra cui Hebron, ai palestinesi, chiedendomi di seguire la risposta di Arafat per il cosiddetto accordo “Beilin – Abu Mazen” e, qualora fosse stata positiva, dare l’impulso a intensi negoziati basati su di esso.

E’ possibile che avrebbe portato avanti i colloqui avviati con il presidente siriano Hafez Assad, al fine di raggiungere un accordo su un impegno preso con l’allora segretario di Stato Warren Christopher, che comportava la concessione delle alture del Golan in cambio di garanzie di sicurezza. Avrebbe potuto trasformare le elezioni del novembre 1996 in un referendum su due accordi di pace – con la Palestina e la Siria – raccogliendo i favori del pubblico, vincendo le elezioni, e iniziando il suo ultimo mandato come primo ministro raccogliendo i frutti di pace e di supervisione del completamento del suo vecchio progetto di cambiamento delle priorità della società israeliana.

Anche se questo si sarebbe verificato prima del 2002, anno dell’iniziativa di pace araba, di matrice saudita, è probabile che la pace con i palestinesi e la Siria avrebbe costretto la maggior parte dei paesi arabi a instaurare relazioni diplomatiche con Israele; avrebbe anche comportato l’istituzione di un organismo regionale, dove Israele avrebbe riempito un ruolo economico importante, e un ruolo militare fondamentale quale membro di una coalizione regionale strategica; e Rabin sarebbe stato probabilmente il leader di tutto questo procedimento con l’aiuto di Peres e di altri membri del governo.

In giornate come questa, nelle quali si ricorda questo straordinario uomo – un introverso, sfacciato, pessimista e amaramente sarcastico combattente per un futuro migliore, che era in grado di parlare con grande emozione, esponendo la verità anche pur essendo i suoi discorsi scritti da altri, è doveroso per un attimo sognare ciò che sarebbe potuto essere, senza quei tre colpi di pistola alla schiena.

Yossi Beilin è presidente della società di consulenza aziendale Beilink. In passato ha lavorato come ministro in tre governi di Israele e come un membro della Knesset per Lavoro e Meretz. E’ stato uno dei pionieri degli Accordi di Oslo, dell’Iniziativa di Ginevra e di Birthright.

Il commento è reperibile nel sito del canale televisivo i24