Se Biden non si fosse fatto incastrare da Netanyahu nel classico gioco del “tira e molla”, forse oggi ci sarebbe qualche spiraglio di luce all’orizzonte. E non una tenebrosa paralisi politica, che rischia di compromettere gli assetti della società israeliana, aggrovigliata in quella che è la situazione più delicata della sua storia. Colpa di Bibi. In questi lunghi mesi di guerra, ha pubblicamente umiliato il presidente degli Stati Uniti. Se n’è fregato dei consigli della Casa Bianca, attratto dal canto ammaliatore dei Repubblicani (suo eterno amore), ha inforcato la via dello scontro con i democratici. Bibi il Nixon israeliano.
Colpa il suo ego smodato, la cosa più grave, ha mortificato Israele. Prima elevando al governo personaggi impresentabili, e decisamente poco raccomandabili. Poi ha provocato una larga fetta della società, tentando di introdurre la riforma della giustizia, che indeboliva il sistema democratico. Infine, ha fallito clamorosamente nella sicurezza nazionale. Quando avrebbe dovuto evitare sofferenze e lutto alle famiglie. Proteggerle dal massacro. Liberare gli ostaggi. Mettere fine alla guerra, dimostrando di essere uno statista. Far rientrare gli sfollati nelle proprie case. Il risultato prodotto dal peggior governo di Israele è la somma di confusione sociale, incertezze militari e diplomatiche, insorgere dell’antisemitismo globale e odio per Israele. Il primo ministro Netanyahu non è stato capace di mostrare una logica via d’uscita all’emergenza in atto. Bibi si è fatto serio e cupo. Non lascia trapelare una parola sui piani di governo della Striscia il “giorno dopo Hamas” (se mai ci sarà). Non ha avuto il coraggio, per puro tornaconto, di liberarsi degli alleati nocivi dell’estrema destra: vetero fascisti che marciano su Gerusalemme, per infiammarla. Invasati di retorica messianica. Che antepone la fantasia alla realtà. La stupidità alla pace.
L’ultimo atto del bibismo è ripiegare sul nulla. Aspettare le critiche e per inerzia rispondere. Ogni affondo che lancia però è sempre meno credibile del precedente. Ha perso lucidità e scaglia dall’arco frecce spuntate. Offende l’ONU. Attacca la Corte penale internazionale. Bersaglia gli oppositori (interni ed esterni). Sfida l’apparato dell’esercito. Sbeffeggia l’Europa. È poco altruista, e troppo populista. Si atteggia da monarca illuminato, ma dietro la maschera nasconde il volto del despota perdente, che rifiuta di fare quel doveroso e molto onorevole passo indietro, permettendo l’esercizio democratico del voto.
Ha incautamente rotto il vaso della popolarità, ed è uscita la verità. Quella che è lui ad avere la responsabilità del comando. E non gli altri. Non ha scuse. Segua l’esempio del generale Aharon Haliva, capo dell’intelligence dell’esercito israeliano, che si è dimesso lo scorso aprile: «Sapevo che con l’autorità derivano pesanti responsabilità». Siamo alla nemesi di Netanyahu. Fondatore di uno stato disfunzionale. In Israele per risollevarsi dal disastro è ragionevole invocare il cambiamento, come forma di resilienza costruttiva. Il buon senso comune dovrebbe convincerlo a rimettersi al giudizio del popolo. L’ultimo sondaggio apparso indica che il 54% degli israeliani è favorevole al ritorno alle urne. Nella pratica invece abbiamo la maggioranza della Knesset contraria. E destinata ad un lento e progressivo logoramento.
Alternativa, poco plausibile e oggettivamente impraticabile, è un governo di scopo a scadenza limitata. Allargato ai partiti dell’opposizione, di matrice sionista. Esecutivo di cui non farebbe parte l’ala estremista dei nazionalisti. Esclusione a danno di Netanyahu, costretto a pagare pegno. Non meno gravoso sarebbe tuttavia per gli anti-Bibi ritardare la sua caduta anche di un solo minuto. Meglio quindi scegliere una data (settembre?) e contarsi una volta per tutte. Biden, comunque, spera che accada presto ed a vincere non sia lui.