DEM O REP, LO SHOW DELLE CONVETION

Pochi giorni fa alla convention democratica 2020 uno dei commenti amareggiati era rivolto al fatto che nella chiusura mancava il classico lancio di palloncini in aria a salutare la sfida di Joe Biden. Donald Trump, invece, ha fortemente voluto una coreografia solenne e la standing ovation della folla (largamente senza mascherina) per la sua incoronazione. Lo show della politica a stelle e strisce ha dovuto adeguarsi alla pandemia, rinunciando ad alcuni tradizionali cliché. In un paese che oltre all’esponenziale contagio da Covid19 è infettato dal razzismo, attraversato da violente tensioni sociali, spazzato ripetutamente da devastanti uragani. Tra il sipario abbassato all’evento democratico di Milwaukee e la serata finale della nomination repubblicana, decentrata per protagonismo ed effetto televisivo nei giardini della Casa Bianca, è trascorsa una settimana. Se la kermesse di Biden ha avuto come filo conduttore l’incapacità di Trump, il presidente ha contrattaccato con lo spauracchio del voto postale truccato ed il pericolo socialista. Ai principi di giustizia e uguaglianza invocati dalla Harris, che affianca Biden, ha replicato il vicepresidente Pence richiamando i valori di legge e ordine. In uno scontro dove la retorica della sanità pubblica obamiana e lo slogan del taglio alle tasse reaganiano sono oramai riconosciuti brand di fabbrica delle due forze politiche. Ciascuna con un proprio linguaggio: la sottile satira dell’attrice democratica Julia Louis-Dreyfus contrapposta alle urla incendiarie di Kimberly Guilfoyle, ex presentatrice di Fox News e partner di Trump junior. Immancabili le luci sulle due first lady, Jill che parla tra i banchi vuoti della scuola di Wilmington, Melania tra le rose della residenza presidenziale. Due format distinti nell’immagine proiettata al pubblico, quella sobria che ruota intorno all’unità nel partito e quella più appariscente che esalta il capofamiglia della dinastia. Nel 2016 il tycoon, reduce dalla conduzione di un fortunatissimo reality, era riuscito a catalizzare anime differenti sotto la bandiera dell’elefantino statunitense: establishment conservatore, evangelici e cattolici antiabortisti, classe media e destra alternativa, coacervo di suprematisti e paranoici cospirazionisti. In questi quattro anni l’irrequieto e irascibile miliardario ha licenziato una moltitudine di consiglieri, a partire dallo stratega della vittoria elettorale Steve Bannon, bandito da corte, esiliato in Italia e recentemente arrestato per frode. Hanno “congiurato” per impedirne la rielezione un gruppo di dirigenti repubblicani, denominati Lincoln project. Ha rotto con i potentati dei Bush e dei McCain, con personalità come Colin Powell e John Kasich. Ciononostante, oggi l’immobiliarista newyorchese non è ancora fuori gioco. Se The Donald vincesse nelle urne il 3 novembre avrebbe ipotecato il dominio di un partito che non è mai stato completamente suo. Se dovesse perdere – e non abbiamo ancora capito nemmeno cosa avrebbe fatto nel caso della vittoria della Clinton – possiamo aspettarci la trumpata del secolo.