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LOST NELLA POLITICA DI ISRAELE

Gerusalemme, i negoziati con i palestinesi sono congelati da tempo, il piano proposto da Parigi è stato rigettato da Gerusalemme, che tuttavia in queste ore ha lasciato uno spiraglio d’azione alla diplomazia egiziana, coinvolgendo indirettamente al tavolo anche la Lega Araba, nella prospettiva di riportare la questione palestinese in un ambito regionale. Intanto la maggioranza di governo si allarga con l’ingresso di Ysrael Beitenu, assorbendo un’ altra forza di estrema destra. Nella attuale Knesset (il Parlamento israeliano) il premier Netanyahu può contare 66 voti su 120 seggi. E in vista dell’approvazione del prossimo bilancio si prepara ad evitare uno scoglio viscido. Mentre, sul fronte dell’opposizione il centrosinistra israeliano naviga tra malumori interni e la mancanza di una luminosa leadership. Generali, sindacalisti, sindaci, giornalisti e avvocati si sono susseguiti alla guida della principale forza laburista del paese (HaAvoda) in questi quindici anni. Figure lanciate coraggiosamente a mani nude nell’arena politica per essere sbranati dal leone di turno. Parabole discendenti di leader provvisori. Una generazione dirigenziale decapitata asfaltata dal voto, al ritmo di: «avanti un altro». Ben Eliezer, il falco della sinistra; Mitzna, il politico venuto dal kibbutz; Peres, lo statista senza popolo; Peretz, “il baffone”, il sindacalista che si è perso in guerra; Barak, la minestra riscaldata; Harish, lo sconosciuto; Yachimovich, la giornalista che sapeva di perdere; Herzog, il secchione, il primo della classe. L’ultimo della lista, “inciampato” politicamente in una recente trattativa con lo stesso Primo Ministro, operazione fallita nel battere di un’ala di farfalla, come era prevedibile. Pesano sul leader laburista le dichiarazioni da lui stesso pronunciate pubblicamente in questi mesi: «Mai con Bibi». Per poi inaspettatamente scegliere di sedersi al tavolo dei negoziati, forse nella speranza di ottenere quel ruolo che molti, non solo in Israele, vorrebbero che ricoprisse: il vertice della diplomazia. Posizione chiave che tuttavia Netanyahu si è guardato bene dall’offrire all’avversario mentre lo accomodava nella sua tana fatale. Alla fine per Herzog il tiro incrociato della stampa e le offese, non proprio gentili, di alcuni suoi colleghi di partito. Un partito che ha smarrito il contatto con la base e perso il radicato consenso elettorale. Paradosso di uno spazio politico che ha letteralmente costruito le fondamenta democratiche dello stato ebraico e che con il passare del tempo non ha saputo risollevarsi da un lento e inesorabile declino. Il centrosinistra è così entrato in un limbo, una stagnazione, una asfissia tra il sogno di diventare un’alternativa concreta di governo e la realtà di restare a vita una minoranza silente, debole, ininfluente. In Israele oggi il potere è saldamente in mano al politico più longevo della sua storia, Benjamin Netanyahu. Fondatore di una nuova destra nazionalista: meno liberale e più settaria. L’uomo del grande freddo con la Casa Bianca. Diffidente per natura, in primis con i palestinesi. Erede dell’ideologia populista di Begin. Distante anni luce sia dalla visione di compromesso storico di Shamir che dal pragmatismo di Sharon. Mattatore delle campagne elettorali, politico di successo. Il Likud, il suo partito è con lui, il presidente della Repubblica Rivlin no. Netanyahu il falco, fautore di una linea di pensiero che guarda ai coloni e apre ai religiosi. È alleato di Naftali Bennet, non solo per convenienza. Ha messo sul carro l’ultra nazionalista Lieberman, nominandolo alla Difesa, e ha fatto uscire dal governo una figura storica e autorevole del suo partito come Moshe Ya’alon. Netanyau con noncuranza e tanti compromessi continua per la sua strada. Ha puntellato una maggioranza scricchiolante, ma con quale rischio?

EPTACAIDECAFOBIA

Correva l’anno 1999. Era il 17 maggio. E in Israele si tenevano le elezioni per eleggere il Primo Ministro e il nuovo parlamento. Il premier uscente e candidato in pectore era il leader della destra Benjamin Netanyahu. Lo sfidante invece era il laburista Ehud Barak. Dallo scrutinio delle schede uscì vincitore Barak con il 56% dei consensi. La sua lista One Israel raccolse il 20%, comprendeva oltre ai laburisti anche esponenti centristi. Il Likud rispetto alle precedenti elezioni ebbe un clamoroso tracollo, perdendo ben 13 seggi nella Knesset. La disfatta politica segnò per Netanyahu un declino politico e l’ascesa di Ariel Sharon. Ci volle quasi un decennio prima che il falco Netanyahu tornasse di nuovo al potere. L’esperienza di governo di Barak non fu molto fortunata, per formare una maggioranza di governo fu costretto ad allargare la coalizione a partiti minori, inclusi quelli religiosi, e il suo mandato si contraddistinse per frizioni interne che portarono in breve tempo a nuove elezioni. E alla fine del centrosinistra. Marzo 2015 Netanyahu è ancora in corsa per la poltrona di premier. Ricorsi storici e scaramantici, in Israele si vota il 17. Superstizione? Nei sondaggi il Likud è dato sfavorito contro il centrosinistra. Al posto di Barak oggi c’è Herzog. Per Netanyahu il 17 non è un numero fortunato, pare.