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BEIRUT PER POCHI E VIOLENZA PER TUTTI

Una doppia crisi attanaglia il Libano, spingendolo verso il baratro della catastrofe. A premere sono da una parte il collasso economico e dall’altra il rischio di ripiombare nel caos della guerra civile. Nel mezzo una zona grigia, tra miliardari che si arricchiscono sempre di più, l’interferenza di influenze esterne determinate a condizionare gli assetti geopolitici, e le faide etniche.
La nazione dei cedri, e a questo punto anche delle diseguaglianze sociali, è da settimane senza carburante, scarseggiano medicinali ed energia. Crescono disoccupazione ed inflazione: il debito pubblico è schizzato al 170% del PIL; il potere d’acquisto della gente è stato decimato del 90%. Tre cittadini su quattro vivono oramai sotto la soglia di povertà, con una ristrettissima élite che detiene la stragrande maggioranza delle risorse.
La recente inchiesta dei Pandora papers elenca il Libano al top della classifica mondiale per numero di società offshore che utilizzano paradisi fiscali per evitare le tassazioni in patria. Quando, secondo l’indice della distribuzione della ricchezza dell’Ocse il Paese è al 129esimo posto su 141.
Nella lista delle personalità coinvolte dallo scandalo giornalistico ci sono sia l’attuale primo ministro Najib Miqati che l’ex premier Hassane Diab. Lascia esterrefatti leggere anche il nome del governatore della Banca centrale Riad Salamé.
Questo è il Libano, sponda meridionale del Mediterraneo. La rivista Forbes lo scorso Luglio ha menzionato 2 famiglie libanesi tra le più facoltose del Medioriente: quella di Hariri e di quella del premier Miqati. Alla prima è legata la vicenda personale di Rafiq al-Hariri, politico ed imprenditore di successo assassinato nel 2005. Per l’efferata strage la magistratura ha condannato il capo della cellula terroristica che ha compiuto l’attentato, sono tutti latitanti, non incolpando nessun mandante politico. Ritenendo estranei ai fatti i leader di Hezbollah. Alla vigilia della sentenza del tribunale sulle cause della morte di Hariri il porto di Beirut è esploso, inghiottendo mezza città.
Premeditazione? Complicità? O semplicemente fatalità? Questo è quello su cui indaga tra infinite difficoltà il giudice Tarek Bitar, che guida l’inchiesta sulla devastazione dell’Agosto 2020. E finito al centro della violenta protesta delle formazioni sciite, che ritengono completamente estranea ai fatti la propria fazione e chiedono l’immediata rimozione del funzionario.
Cortei che ne passati giorni sono culminati in un bagno di sangue durante una manifestazione. A poca distanza dal luogo dove nell’Aprile del 1975 ebbe inizio il lungo conflitto. Quartieri crocevia tra la comunità cristiano maronita e quella sciita, tra l’estremismo già falangista e quello di Hezbollah. Nemici che sparandosi in strada attizzano il fuoco di un odio mai venuto meno.
In Libano il panico tra i civili sta tornando ad essere una tragica routine. Mentre gli appelli internazionali alla calma e ad abbassare le tensioni sfumano indistintamente, nel vuoto e nella fragilità del contesto.