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INTERVISTA AL COLONO

La terra è arida sulle colline della Samaria. Qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso il vicino check point. Dalla collina su cui sorge l’insediamento di Kfar Tapuach si scorgono i palazzi e i minareti di Nablus. Camminiamo al fianco di Avraham, ci precede il suo gregge di capre. Siamo nel cuore della West Bank, tra le città di Ramallah e Jenin. È Palestina. Avraham si muove agilmente nel terreno scosceso, un bastone nella mano destra e una borsa di tela nella sinistra. È un uomo magrissimo, dalla pelle bruciata dal sole e dagli occhi chiarissimi incavati nel volto smunto. Una lunga barba grigia, ben curata. Indossa stivali marroni, un pantalone blu ed una maglietta verde. Sulla testa una grande kippah bianca scende a coprire le orecchie e i lunghi capelli bianchi. Avraham è ebreo e colono. La sua storia inizia lontano dalla Terra Santa. È nato e cresciuto a New York, nel quartiere di Brooklyn. Nella grande mela del dopoguerra e della leggenda di Frank Sinatra. Allora era un ragazzino introverso e magro che sognava di diventare un pilota di auto da corsa. Figlio della piccola borghesia americana e dalle radici ebraiche non avrebbe mai immaginato che pochi anni dopo il sogno si sarebbe realizzato. Ancora prima di compiere i vent’anni ecco Avraham sfrecciare lungo la strada che da New York porta a Miami, 2500 km in 17 ore non stop, a bordo di una potentissima 12 cilindri. Un caso del destino ha voluto che il giovane ragazzo entrasse nelle grazie di un miliardario newyorchese con la passione per le auto sportive. Avraham viene introdotto in un circolo ristretto, esclusivo e catapultato in giro per il mondo a guidare auto lussuose. Viaggia in Mexico. Giunge nel Vecchio Continente. A Londra gli affidano una rolls-royce da consegnare a Roma. È spesso a Parigi e in Costa Azzurra. Il ragazzo magro di Brooklyn indossa abiti firmati, frequenta i migliori ristoranti, rinomati alberghi e clubs in voga. Avraham assapora la dolce vita. Improvvisamente si accorge che qualcosa nel suo stile di vita è sbagliato. Sente il bisogno di scappare, di trovare delle certezze. Compra un biglietto di andata e ritorno e si imbarca in una nave da crociera. Due settimane di navigazione in transatlantico da New York al porto di Haifa. Sbarca in Israele per chiudere un capitolo della sua vita ed aprirne uno nuovo. Avraham abbraccia le sue radici culturali e religiose. Impara l’ebraico e studia la Torah: “Grazie all’aiuto di una famiglia di ebrei Yemeniti ho trovato la mia strada”. Il nuovo Avraham rifiuta la modernità, si concentra sulla spiritualità ed entra in contatto con la natura: “I Patriarchi erano pastori. Ho capito l’importanza di ripercorrere l’esperienza dei nostri antenati. Fare il pastore è vivere in completa armonia con Dio. Il creatore è il mio unico padrone ed io sono felice di essere suo servo devoto.” Il misticismo e la fuga dalla civiltà: “Il mondo Occidentale nega la libertà della gente. Le persone subiscono un continuo lavaggio del cervello. I centri urbani, le città sono la rovina della società, sono una vera e propria giungla. Dove gli uomini partecipano ad una continua competizione, una corsa di topi”. La rivoluzione spirituale di Avraham è totale. Smette di usare l’automobile e decide di spostarsi a piedi, aborra la televisione e tutte le comodità della società moderna: “I bambini oggi sono assuefatti dalla televisione, dai computers. Respirano aria inquinata. Mangiano cibi non salutari. Ho cresciuto i miei figli dandogli da bere del latte di capra fresco, sin dalla tenera età. In famiglia consumiamo solo olio d’oliva. E oggi guardo ai miei figli e vedo degli uomini e delle donne sani, nel corpo e nella mente.”

Avvolgiamo il nastro indietro nel tempo. Il giovane turista ebreo americano camminando lascia Gerusalemme per la Galilea. Sei giorni di viaggio. La sua idea fissa è diventare un pastore, ha saputo che alcuni ebrei sono dediti alla pastorizia in quella regione dove convivono con le comunità arabe: “Agli inizi i beduini mi hanno aiutato. Ho imparato molto da loro. Passavo le ore ad osservarli, a vedere come ci si doveva comportare con il bestiame. In quei giorni lontani avevo ottimi rapporti con i beduini”. Arrivano gli anni ’70, Avraham si sposa con una donna ebrea di origine Sefardita, vivono momenti di gioia nel nord d’Israele: “In Galilea avevamo tutto quello che ci occorreva, potevamo vivere liberi ed indipendenti”. Poi agli inizi del nuovo millennio la svolta. Avraham prende il suo gregge e si sposta in Samaria, segue le orme del figlio e si trasferisce in un insediamento nei pressi di Nablus, diventando egli stesso un colono: “La qualità del foraggio per gli animali è migliore che in Galilea. In Samaria l’erba è meno alta e verde ma è molto più nutriente”. È solo una banale scusa. In realtà Avraham sente il bisogno di tenere unita la famiglia, poco importa se questo significa diventare un colono.

La vita del pastore non è facile, in questo mestiere ci vuole tanta passione. Fare il pastore non è un hobby e nemmeno una scelta naif: “La mia è una vita semplice. Per raggiungere la piena libertà ciascuno deve entrare in rapporto con la terra, come fanno i pastori. Non posso spiegare quali sono i sentimenti, le mie emozioni per la natura, per gli animali. È qualcosa che deve essere vissuto ed interiorizzato. E per farlo devi dormire all’aperto sotto le stelle. Devi conoscere ogni sasso di questa terra. Devi sapere dove sono le sorgenti d’acqua. Dove trovare i pascoli migliori.” Le zone bibliche dell’antica Samaria e della Giudea coincidono oggi con i Territori Palestinesi della West Bank. La questione degli insediamenti ebraici in tali aeree è oggi oggetto di una controversia tra Israele e la Palestina, tra Israele e l’Unione Europea, tra Israele e il Mondo. Di fatto è un elemento critico nel processo di pace. E forse il più intricato da risolvere.

Il pensiero politico di Avraham è un misto di tutto, con qualche provocazione di troppo: “Uno stato palestinese già esiste e si chiama Giordania. Quella è la terra dei palestinesi. Io non credo nel processo di pace. I politici sono persone arroganti e non comprendono i bisogni delle persone. Non vivono in mezzo a noi. Non capiscono che non dobbiamo sederci al tavolo con i Palestinesi. La Linea Verde non esiste, almeno per me”. Nel 2000 Avraham ha perso una figlia, assassinata in un assalto stradale compiuto da militanti palestinesi. L’auto su cui viaggiava insieme al marito e alla figlia è stata crivellata di colpi, la bambina a bordo scampò all’attentato e oggi vive con i nonni. Pochi anni fa, durante la transumanza verso l’insediamento di Migron, alcuni palestinesi hanno rubato il suo gregge. Oltre 400 capi spariti in poche ore. Vani i tentativi di ritrovare il bestiame. Persino i servizi segreti israeliani si sono attivati ma senza risultati. Secondo Avraham non c’è possibilità di dialogo con l’altro, c’è solo un muro sempre più alto: “In passato andavo al pascolo con un fucile mitragliatore Uzi. Era troppo pesante. Ingombrante. Oggi porto con me sempre un coltello. Devi essere sempre armato, è per la tua incolumità. Siamo circondati da nemici che vorrebbero spazzarci via. E mentre io rischio la mia vita tutti i giorni il nostro Primo Ministro libera terroristi palestinesi, assassini”. Avraham contro tutti, contro gli arabi, contro l’Occidente, contro il suo governo, contro la sinistra sionista israeliana e persino contro i religiosi ortodossi: “È grazie all’amore per la lingua ebraica che ho riscoperto le mie radici, l’infinita sapienza dei nostri antenati e la loro immutabile verità. Ed è stato doloroso scoprire che la comunità Ashkenazita ha assorbito, deformandosi, le influenze culturali e linguistiche Europee. E se travisi l’ebraico, fraintendi automaticamente anche la Bibbia.” Avraham non accetta che agli ortodossi sia consentito di non lavorare, di non adempiere al servizio militare, di ricevere un cospicuo vitalizio: “non puoi ricevere soldi perché studi la Torah. Devi lavorare come tutti. Il loro atteggiamento è peccaminoso”.

È Avraham a entrare nel merito di un eventuale nuovo conflitto, in Medio Oriente parlare di guerra è all’ordine del giorno, delle cose, delle idee più disparate e pazzesche: “Se ci sarà una guerra con i Paesi arabi, con la Siria o l’Iran queste colline sono il posto più sicuro per gli israeliani. Netanyahu dovrebbe preparare un piano di evacuazione dalle città e portare su queste terre la nostra gente”.

È il tramonto. Avraham slega e srotola dalla cintura dei pantaloni una lunga fionda artigianale. Soppesa i sassi e osserva la forma più idonea. Con un movimento rapido lancia le pietre ad una trentina di metri. Non è bravo come il re Davide, ma non c’è Golia da affrontare. Avraham chiama con un ordine perentorio il suo fido cane, un pastore belga di quattro anni. In pochi secondi il cane riunisce il piccolo gregge intorno ad Avraham che sbatacchia i rami di un olivo. Le foglie cadono a terra e le capre si avventano per mangiarle, avvolgendo il loro padrone. Intanto in cielo compaiono le prime stelle. Avraham estrae dalla borsa quel che resta di un vecchio libro, non c’è rilegatura a tenere unite le pagine consumate, i fogli stampati in ebraico sono del libro della Genesi. Il pastore legge a voce alta, canta e invoca un’ancestrale preghiera a Dio. È tempo di lasciare Avraham da solo a riflettere con i suoi pensieri, meditare con la sua anima.

AGOSTO FEROCE

La Terra Santa sotto shock. In poche ore due crimini assurdi hanno sconvolto il mondo. Shira e Ali, la prima 17 anni e israeliana, il secondo 18 mesi e palestinese, entrambi vittime dell’intolleranza e del fondamentalismo. La giovane ragazza pugnalata da un ortodosso al gay pride di Gerusalemme. Mentre il bambino è stato arso vivo nella propria casa in un attacco di nazionalisti israeliani. Di qua e di là dal muro si piange, stesse lacrime, stesso orrore. Il Medioriente sprofonda ancora una volta in un abisso di disumanità. In Israele il governo di destra formato da Netanyahu è ad un bivio: tolleranza zero nel combattere il terrorismo interno o accettare le richieste del movimento dei coloni, piegarsi all’intransigenza della religione o mantenere la laicità dello stato. Nell’Agosto 2005 Sharon attuava il piano di disimpegno unilaterale degli israeliani da Gaza. Evacuando dalla Striscia qualche migliaia di coloni e smantellando gli insediamenti. Furono giorni di tensione. In alcuni casi l’esercito e la polizia intervennero con la forza per sgomberare i manifestanti che si erano barricati rifiutando di lasciare Gaza. Dieci anni dopo la questione dei coloni israeliani è tornata prepotentemente alla cronaca. Recenti statistiche annoverano che il numero degli israeliani che risiedono oltre la Linea Verde è intorno alle 450 mila unità. I coloni godono di fatto degli stessi diritti dei cittadini israeliani: totale libertà di movimento, di parola, partecipazione alle elezioni nazionali, sicurezza sociale, sistema sanitario etc etc. A partire dagli anni ’80 i vari governi israeliani hanno utilizzato la molla della crisi degli alloggi per favorire l’espansione delle colonie. Migliaia di giovani coppie, con basso reddito, hanno trovato casa ad un prezzo abbordabile negli insediamenti. Tuttavia solo il 40% motiva la legittimazione a vivere in quelle terre sul concetto di Eretz Israel, secondo cui quel lembo di terra sarebbe stato un dono offerto da Dio ai discendenti di Abramo e Mosè, e che quel vincolo sacro è tutt’oggi in essere. Le zone bibliche dell’antica Samaria e della Giudea coincidono oggi con i Territori Palestinesi Occupati della West Bank, dove, in base agli Accordi di Oslo, è in vigore una divisione per aree: A, B e C. Le colonie sono nelle aree denominate C, sotto il completo controllo israeliano. La questione degli insediamenti ebraici in tali aeree è oggetto di una controversia internazionale, di fatto è un elemento critico nel processo di pace. E forse il più intricato da risolvere. La Linea Verde non esiste, almeno per me. Uno stato palestinese c’è e si chiama Giordania. Quella è la terra dei palestinesi. Io non credo nel processo di pace. I politici sono persone arroganti e non comprendono i bisogni delle persone. Non vivono in mezzo a noi. Non capiscono che non dobbiamo sederci al tavolo con i Palestinesi.” Questa la testimonianza raccolta in un insediamento sulle colline alle porte di Nablus, nel cuore della Palestina. A parlare è Avraham, un colono. Israele è oggi un microcosmo fatto di tanti pianeti che muovono verso la collisione. A riguardo abbiamo ascoltato la “profezia” del rabbino Yuval Cherlow, religioso “moderato”, impegnato contro il settarismo e l’omofobia. “La società israeliana deve oggi creare o aggiungere un nuovo elemento di solidarietà; deve decidere la propria identità rispetto a tutti gli elementi che la compongono. Questo pericolo può seriamente minare la sua futura esistenza e la leadership politica, ideologica e intellettuale, educativa, deve assolutamente investire in questa ricerca così vitale per il suo futuro.

PRICE TAG?

Nord di Israele. Galilea. Regione di Kinneret. Pochi chilometri dall’antica cittadina di Cafarnao. Violato il santuario cristiano dove secondo la tradizione Gesù compì il miracolo, moltiplicando i pani e i pesci. La piccola chiesa di Tagbha, santuario benedettino, che sorge a pochi metri dalle acque del Mar di Tiberiade in fiamme nella notte tra mercoledì e giovedì. Incendio doloso, molto probabilmente. A far propendere per la pista a sfondo religioso una scritta in ebraico che inneggia alla cacciata dei falsi idoli comparsa sul muro del complesso. Un gruppo di seminaristi religiosi provenienti da insediamenti coloniali in West Bank è stato inizialmente fermato. I giovani ebrei ultraortodossi sono stati arrestati e poi rilasciati per mancanza di prove. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato di “atto atroce”, dichiarando che: “Lo scioccante incendio della chiesa è un attacco a tutti noi.” Netanyahu ha voluto sottolineare come la libertà religiosa è tra i valori fondanti di Israele e per questo “è ancorata alla legge”. Il capo del governo di Gerusalemme ha chiesto ai servizi segreti dello Shin Bet di accelerare le investigazioni: “Nella nostra società non c’è spazio per l’odio e l’intolleranza.” Il numero di vandalismi e violenze anti cristiane ha avuto un aumento esponenziale lo scorso anno in tutta la Terra Santa. Secondo l’agenzia di stampa Infopal ci sono stati “86 attacchi israeliani contro luoghi sacri islamici e cristiani nel 2014” a Gerusalemme e nella Cisgiordania. Il ripetersi di crimini vandalici da parte di estremisti ebrei fa pensare ad azioni premeditate, i cosiddetti “price tag”: attacchi terroristici perpetrati da gruppi di giovani degli insediamenti, il “prezzo” da far pagare ai palestinesi o all’esercito israeliano per ogni torto ricevuto dai coloni. Mentre veniva resa pubblica l’enciclica papale “Laudato si”, un manifesto ambientalista con forti critiche al potere e che aprirà un ampio dibattito, a Gerusalemme il presidente Reuven Rivlin condannava l’incendio di Tagbha. Durante la lunga conversazione con padre Gregorio Collins, abate dell’ordine benedettino in Israele, Rivlin ha sostenuto che “questa terribile profanazione di un antico e sacro luogo di preghiera è un attacco alla fabbrica della vita del nostro paese, dove persone di differente fede cercano di vivere insieme in armonia, tolleranza e rispetto.” L’escalation della violenza e dell’odio religioso in Terra Santa preoccupano a Gerusalemme come a Roma. Lo stop ai pellegrinaggi cattolici in Terra Santa è una prospettiva palesata. I “price tag” sono una realtà inquietante.